breve di cronaca
Manners
La Stampa - 11-06-2002
Imparare a stare e a pensare da soli

11 giugno 2002

di Susanna Agnelli


CARO Insegnante, ho avuto nella mia famiglia varie esperienze; scuola francese, scuola argentina, scuola americana, scuola inglese e naturalmente scuola italiana. Per essere apprezzati bisogna scrivere in Italia un tema lungo, in Francia un tema corto, in Argentina un tema patriottico, in Inghilterra un tema corretto, in America un tema to the point. I ragazzi si adeguano. Ci si adegua a tutto; importante è poi saper convivere con gli altri. Tralasciamo allora le materie che si insegnano e come si insegnano. Ma che cosa bisogna insegnare? «La disciplina, il senso del dovere» rispondono regolarmente i miei coetanei, «se non sei sciocco ti aiuterà sempre nella vita, se sei sciocco almeno avrai quella». Oggi la disciplina viene considerata una imposizione, una frustrazione della personalità, una intollerabile intrusione nell'ego di un ragazzo.

Non si deve dirgli che bisogna essere puntuali all'ora dei pasti altrimenti gli altri aspettano, ma invece fargli capire che la pastasciutta calda è più buona di quella fredda. «La tolleranza», dicono i meno vecchi. Forse è giusto tollerare, rende la vita più facile. Ma non sarebbe qualche volta meglio non tollerare, ribellarsi agli orrori che gli schermi televisivi ci mostrano ogni giorno? Ribellarsi ed esprimere civilmente il proprio dissenso; non gridando la proprio intolleranza. «Il coraggio», dicono altri. E non hanno torto in un mondo dove i ragazzi non hanno più il coraggio di presentarsi se non vestiti come la moda del momento impone. «La lealtà», pensano altri. Ma come si fa a insegnare la lealtà quando continuamente, in politica, vengono premiati quelli che hanno tradito la loro fede?

«La generosità», dicono quelli che generosi non sono. Molti sono generosi nei confronti delle persone che amano o che sono d'accordo con loro e per nulla generosi nei confronti degli altri. Insegnare a essere generosi vuol dire insegnare a capire il punto di vista degli altri e ad accettare di avere, qualche volta, sbagliato. Non è facile. «Manners» grida una mia amica inglese, «Manners, manners». È una parola difficile da tradurre: buona educazione, modi, comportamento, maniere. Ma più difficile ancora è incontrare una persona giovane bene educata. Trovarsi in un aeroporto con un gruppo di adolescenti è qualcosa che fa rabbrividire.

Urlano, spingono, masticano, bevono da lattine multicolori che, vuote, gettano in terra, occupano tutti i posti a sedere, si lanciano pezzi di giornale come se l'aeroporto fosse loro e poi l'aeroplano e poi il successivo aeroporto non curanti di chiunque sia loro intorno. «La pazienza», aggiunge un altro. Questa sì, sarà meglio impararla. Quanta pazienza ci vuole nella vita: in famiglia, al lavoro, con i collaboratori, con gli amici, con gli importuni. Non parliamo della pazienza a quegl'inutili vertici internazionali. Senza pazienza non si sopravvive. «A ridere», dico io. Saper ridere con gli altri, ridere di se stessi. Mi diceva un amico: «Ho visto quei due ieri sera, sono molto innamorati». «Come fai a saperlo?». «Li ho visti, erano seduti al ristorante e ridevano; ridevano tutto il tempo».

È vero, ridere, non deridere, è un segno d'amore. «L'amore», mi suggeriscono. L'amore per le cose, per le persone, per le piante, per i fiori, per la musica, per lo studio è la cosa più importante di tutto. Hermann Hesse fa dire da Kamala a Siddharta: «L'amore si può mendicare, comprare, regalare, si può trovarlo per caso sulla strada, ma non si può estorcere». Non ci dice se si può insegnare. L'amore non è un dovere, è una grazia. Bisogna averne molto dentro di sé per poterlo dare agli altri; forse bisogna averlo ricevuto per poterlo dare. Ci sono ragazzi che ne sono stati privati, che non conoscono l'amore e dunque nulla fanno con amore.

Si dice infatti di loro che sono «disamorati». A loro insegnare è più difficile. E allora? Guardo il mare che ieri era una lavagna d'acciaio, sconfinante senza interruzione nel cielo, e oggi è ritornato mare, vivo, increspato, palpitante. «Come la vita» mi dico, «mai uguale, mai monotona, sempre imprevedibile». Che bisogna affrontare avendo imparato qualcosa: la generosità, il coraggio, la lealtà, la disciplina, l'amore per gli altri e per se stessi. Avendo imparato alcune di queste virtù bisogna imparare a stare da soli; senza telefonino, senza computer, senza musica, senza televisione, senza messaggini, senza giornali e riviste, almeno per un'ora o qualche ora al giorno. Imparare a pensare, da soli.

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 Gianni Mereghetti    - 11-06-2002
Carissima Susanna Agnelli,

ho letto il suo articolo dal titolo “Imparare a stare e a pensare da soli” e le rispondo, perché mi sento direttamente interpellato come insegnante dalla sua interessante provocazione. Concordo con la sua osservazione circa il fatto che i ragazzi d’oggi non conoscono il silenzio, mi permetto di aggiungere che è anche per questo che non sono capaci di stare di fronte alla realtà per quello che essa è. Che i giovani non sappiano apprezzare il silenzio, che non sappiano stare da soli con se stessi, non è però dovuto ad una dimenticanza, di cui noi insegnanti, e ancor prima i genitori, saremmo responsabili. La questione è ancor più profonda e va al cuore del rapporto tra i giovani e gli adulti: si tratta di una questione educativa. Infatti non sono le regole che sono mancate ai giovani, né l’addestramento a contenuti disciplinari o a valori, ciò di cui sono stati privati è l’educazione. Del resto qual è l’assenza più grave che oggi si può riscontrare tra le mura di un’aula scolastica? Quella di un uomo che in forza del suo impegno con la vita si rivolga alla libertà di ognuno degli studenti che ha davanti. Se dunque è vero che i ragazzi di oggi non sanno stare in silenzio, come non sanno avere pazienza, come non sanno ridere, come non sanno essere tolleranti, ancor prima non sanno più raccapezzarsi su loro stessi, e per questo l’unica possibilità è che gli adulti si riassumano la responsabilità e la libertà dell’educare! Almeno questa mi sembra la realtà delle cose, quella che anche in questo lungo anno ho percepito entrando ogni mattina nelle “mie” tre classi. E’ lì che ho avvertito ognuno dei “miei” studenti come una domanda, una domanda di qualcosa per cui valesse la pena impegnarsi con la vita, e se c’è un dolore che sento oggi non sta nei miei limiti professionali, e non sono pochi!, ma per tutte le volte che ho insegnato senza guardare negli occhi i miei studenti, uno per uno. Questa è la mia mancanza, perché i giovani d’oggi, come del resto anch’io, attendono uno sguardo di simpatia totale in cui ritrovare il proprio “io”.