'A nuttata nun passa cchiù
Giuseppe Aragno - 26-01-2007
La camorra l'ho vista da vicino in oltre vent'anni spesi, per usare la retorica d'un tempo, come ingegnere d'anime nelle scuole dello Stato, tra via Tagliamone e il rione Siberia, dove carabinieri e pubblica sicurezza entrano solo in forze e il confine tra bande rivali è sottile e macchiato di sangue. Da vicino, nella realtà quotidiana, ho conosciuto l'inaudita e spietata violenza dei "capi", la miseria materiale e morale dei "gregari", la paura della povera gente onesta e la tragedia senza fine di ragazzini che ho imparato ad amare e che oggi - sono loro lo so, non serve ch'io menta a me stesso - cresciuti con ferocia che atterrisce, ammazzano e si fanno ammazzare.
Nel bagaglio delle mie esperienze trovano posto i tradimenti, i pentimenti e le feroci vendette, un alunno quindicenne, ucciso come un cane sulla tangenziale, le pistole giocattolo modificate, buone a sparare un colpo, la fatica di vivere senza certezze, la purezza dello sguardo delle adolescenti diventata d'un tratto malizia, l'onestà che resiste fino all'impossibile e quella che cede sino all'abiezione.
Nel bagaglio delle mie esperienze c'è un gruppo d'insegnanti che tiene con dignità la bandiera dello Stato tra la sporcizia materiale e morale d'una realtà immutabile che a fine Novecento puoi descrivere tranquillamente col parole che Arturo Labriola usò per la Napoli di fine Ottocento: quella dei "centomila selvaggi" ammassati tra Vicaria, Pendino e San Lorenzo, "brulicante di pitocchi, di scugnizzi, di camorriste e prostitute, [...] sorridente di sole e purulenta di piaghe".
Per quanto scavi nella memoria e provi a mettere a fuoco immagini che gli anni hanno sfocato, nel verminaio che ho visto crescere e rafforzarsi col passare degli anni, non ricordo di aver mai incontrato una presenza significativa delle Istituzioni. Ricordo, questo, sì, il lucido e severo pessimismo d'un nostro grande artista, Eduardo De Filippo, che al Festival di Spoleto, guardando lontano, giunse al punto di modificare la frase finale di "Napoli milionaria": "A nuttata nun passa cchiù", ammonì così previggente don Gennaro in una memorabile serata, cui seguirono l'inevitabile polemica col sindaco comunista Valenzi, le consuete promesse, la difficile riappacificazione, gli impegni presi e disattesi e il consueto silenzio finale.
Nel bagaglio delle mie esperienze non ci sono illusioni. Nelle oscure trincee della Siberia, né io né alcuno dei miei colleghi abbiamo mai creduto che scuole più attrezzate, insegnanti meglio preparati e selezionati, servizi sociali più adeguati e meglio equipaggiati siano in grado di combattere da soli il bisogno di manovalanza e le capacità di reclutamento della malavita organizzata. Abbiamo inutilmente creduto, questo sì, alla necessità di fare della scuola la trave portante attorno a cui levare l'argine contro la violenza della camorra, in una visione di sistema delle devianze e della criminalità organizzata applicata alla società nel suo complesso. E non era l'opinione di giovani docenti sprovveduti. Ci sostenevano l'esperienza sul campo, gli studi di magistrati dei minori del valore di Melita Cavallo, gli atti e i documenti invano raccolti negli anni dalle indagini conoscitive della Commissione permanente del Senato sull'Istruzione pubblica, le mille battaglie combattute, e in buona parte perse, al sindacato. Credevamo nel ruolo che poteva svolgere una scuola posta in condizioni di sfuggire al suo isolamento e trasformata nella cellula essenziale del tessuto connettivo di una rete di servizi, capace di garantire il diritto allo studio e all'educazione, inteso come primo presidio della prevenzione del disagio e delle devianze minorili, nella necessità di raccogliere e utilizzare le risorse globali del territorio e i maggiori investimenti possibili per creare lavoro e far nascere nelle aree a rischio presidi della legalità. Credevamo anche che le Commissioni antifamia commettessero un madornale errore quando escludevano l'ipotesi che mafia e camorra altro non sono, nella sostanza, se non forme diverse di organizzazione solidaristica delle classi dominanti. Ce lo dicevano il senso comune e l'esperienza diretta del nostro proletariato, ce lo insegnava la lezione ricavata dagli oscuri accordi tra Garibaldi e Liborio Romano, dalla rottura tra Aurelio Padovani e Mussolini, consumatasi non a caso sul terreno dei rapporti tra "rivoluzione fascista", notabili e clientele liberali e, infine, la mancata epurazione all'alba della repubblica.
Quando il terremoto dell'Ottanta investì come un ciclone la nostra già disastrata Siberia e fu necessario trovare una sistemazione per i sinistrati, non ci furono dubbi: la scuola fu trasformata in albergo e nessuno volle toccare le inutili caserme della zona. Eduardo aveva perfettamente ragione ed era vero: la nottata non sarebbe passata. Accorpata all'Istituto Tecnico Industriale "Fermi", una sorta di falansterio costruito in epoca fascista, la scuola media, l'unica della zona, fu colpita così a morte e presto deperì, mentre l'edificio "prestato" ai terremotati passò, per vie traverse, in mano ai camorristi: casa d'appuntamenti, deposito d'armi, ricettacolo di droghe e però puntualmente, al momento di un blitz, tanti lettini e vecchi ammalati.
Attorno alla scuola, però, la gente di un quartiere capace ancora di reazione insorse e si aggregò. Nacque così un comitato di genitori e docenti che diede filo da torcere alle Istituzioni latitanti e il parroco del rione trovò il coraggio di prendere posizione e puntò l'indice nelle sue prediche; egli fu aggredito, ferito nella sua parrocchia, ma in un sussulto di orgoglio ci trovammo accanto "madri coraggio" che sfidavano l'omertà del loro stesso ambiente. Non era cosa da poco. L'avremmo spuntata e la scuola infine sarebbe tornata ai ragazzi, se la ventata neoliberista non avesse accomunato in una politica dissennata la classe dirigente sopravvissuta a Tangentopoli e se, da Bassanini in poi, non avessimo avuto contro nemici ben più pericolosi della camorra: il libero mercato, la trionfante filosofia del profitto che riduce i servizi ad aziende e mina le ragioni fondanti del patto sociale, l'ossessione dei conti in rosso, l'Europa delle banche, la delocalizzazione industriale che chiedeva al Sud - a Napoli in particolare - di espellere brutalmente dal ciclo produttivo e, quindi, dalla cosiddetta società civile, masse sempre numerose di cittadini.
La scuola che nel rione Siberia ha tenuto per anni alta la bandiera della legalità repubblicana oggi non c'è più. Le Istituzioni, presenti per una volta sulla scena della città, l'hanno chiusa, risparmiando così gli spiccioli necessari a tacitare l'Europa e la Confindustria e aprendo i varchi necessari alla benemerita iniziativa privata. Sono venuti poi uno dietro l'altro Berlinguer, la Moratti, le riforme e le controriforme. Con la Costituzione ridotta ormai a cartastraccia, in un tessuto sociale sempre più sfilacciato, la sottocultura della camorra, che esprime una fortissima coesione, un marcato senso dell'appartenenza, si è data toni "alternativi"; giunta a farsi "controcultura", essa appare di gran lunga più efficace, efficiente e, a suo modo, "formativa" della scuola dello Stato, messa in ginocchio dalle ricette "neocon", sbandierate ai quattro venti da destra e da sinistra, e costretta a condividere con la scuola della strada e della sopravvivenza, sulla quale conta la malavita organizzata, un principio essenziale: la vita, quando non è conflitto, è certamente antagonismo, competizione, selezione e la misura della preparazione è il successo, come che giunga, quale che ne sia il prezzo. Nell'inevitabile intreccio tra le ragioni dell'educazione e quelle del mercato del lavoro, la camorra conta così su un decisivo vantaggio: la formazione conduce al lavoro e la precarietà non esiste. Il mercato, checché se ne dica, è in costante espansione.
Ospitati quotidianamente sulle prime pagine dei giornali, i Contini, i Giuliano, i Mazzarella e gli altri esponenti della malavita costituiscono ormai il modello di vita ideale, il sogno da realizzare per gli innumerevoli ragazzi borderline che popolano i quartieri periferici e il centro storico di Napoli, così come - e qui la cifra del fenomeno si fa nazionale - l'apatia dei ragazzi di "buona famiglia" trova la sua legittimazione nella valanga di realitiy, nei corsi per veline e nello strapotere del "grande fratello".
In questo senso sì, Bocca può aver ragione: Napoli siamo noi, perché dopo quindici anni di centrosinistra a livello locale e due governi "amici" nelle ultime tre legislature, il vecchio clichè dell'equivalenza tra destra, malgoverno e malavita organizzata non sembra più aver ragione d'esistere. In una crisi di valori che non ha precedenti, accomunati dalla liquidazione della politica intesa come contrapposizione di visioni diverse della società, di distinte letture della vicenda storica, come incontro e scontro tra le grandi famiglie politiche del nostro Paese - liberale, cattolica e socialista - i partiti politici non hanno più nulla da dire alla gente e non abbiamo più una classe dirigente.
C'è un nesso fortissimo tra lo stato comatoso in cui versa la politica e il dilagare di una violenza di marca nuova, che non è figlia di una modernizzazione delle organizzazioni criminali, ma esito fatale dell'imbarbarimento prodotto dalla fine del bipolarismo, dal trionfo di un "pensiero unico" che, parlando a se stesso, spezza irrimediabilmente il circolo virtuoso della dialettica politica. Vista da questo angolo visuale, la "questione Napoli" non solo appare ancora una volta - e fatalmente - problema nazionale, ma assurge per la prima volta a simbolo doloroso di una gravissima crisi della civiltà occidentale.

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