TERRE DI CONFINE
tra Bisanzio e Bagdad.

Identità italiana e globalizzazione 

 

 

Sicura fende l'onda la prua della galea,
un ramo di ciliegio portato dalle onde
E luccica la pelle di schiavi rematori,
il ritmo del tamburo scandisce la fatica
Terra di Bisanzio, terra d'ambra e d'oro,
trema sotto il passo di eserciti latini
E brillano le spade dei principi templari,
la danza delle ombre ancora si ripete
Donne dalle labbra color di melograno
offrono l'amore a stanchi cavalieri
E' notte di Bisanzio, di pesco profumata,
la spada di Venezia,
la terra ritrovata.
 

 


Il testo che qui si propone, senza l'apparato iconografico e grafico, è un primo tentativo di offrire un quadro di riferimento policentrico in una comunità educativa in cui ancora domina, a parte forse alcune lodevoli dissonanze, un notevole approccio “latinocentrico”.

Nel momento in cui le fiamme dei Balcani e i roghi del Medio Oriente ancora bruciano all'orizzonte del così detto Occidente, un'Europa, che si accinge a divenire sempre più balcanica e orientale, insieme alla sue istituzioni formative, non può che guardare sempre di più al suo passato per riscoprire, leggere, interpretare il suo presente e rilanciare il suo futuro, gettando il suo cuore oltre le macerie del nostro tempo contro la freddezza dei suoi burocrati.

 

 

TERRE DI CONFINE: TRA BISANZIO E BAGDAD

IDENTITA’ ITALIANA E GLOBALIZZAZIONE

 

INTRODUZIONE

 

In che modo la Scuola, soprattutto quella italiana, può contribuire a ridefinire i confini di un processo identitario nazionale ed europeo nel momento in cui essa è sottoposta all’impatto di una Riforma scaturita, in parte non piccola, dal rullo compressore della globalizzazione in corso, a diversi livelli, nella totalità dell’ecumene?

Domanda difficile e complessa, eppure inevitabile e soprattutto ineludibile. Non vogliamo investire la Scuola italiana di missioni palingenetiche e perciò impossibili, ma non ci pare che, al momento, altre agenzie educative e formative nazionali, come la televisione o la stessa stampa quotidiana e periodica, si diano da fare per affrontare il problema.

Al contrario ci sembra che esse addirittura non contribuiscano a diradare le nebbie, accrescendo il buio oltre la siepe e producendo un rumore di fondo e un fastidioso polverone propagandistico che indottrina e strumentalizza l’opinione pubblica.

Le prime vittime di questo pericoloso “gioco al massacro” delle idee sono proprio gli adolescenti e i giovani, irretiti dalle facili, ideologiche e demagogiche contrapposizioni dello “scontro delle civiltà”.

Come rimediare, se è ancora possibile, con qualche barlume di speranza, a questa preoccupante e rischiosa semplificazione ideologica della realtà? Come uscire dalla logica devastante degli “opposti estremismi”, dall’ambiguo e deleterio Ritorno dello “Spirito” delle Crociate? Come “deideologizzare” e “decontaminare” le ataviche e ancestrali relazioni tra Occidente e Oriente?

Perché è evidente, a questo punto del discorso che la globalizzazione si riduce anche e soprattutto all’esito dello scontro tra un Occidente americanizzato, guidato dal puritano condottiero dell’“Impero del Bene”, George Bush contro il luciferino e diabolico Anticristo, signore fondamentalista dell’“Impero del Male”, Bin Laden.

A noi sembra che tutto questo e altro ancora sia il motivo dominante ormai sulla scena mondiale e nella vita quotidiana di molti adolescenti e giovani, ma anche di tanta parte dell’opinione pubblica non solo italiana.

La scuola italiana può fare qualcosa per uscire da questa paralizzante, sconcertante e soprattutto diseducativa situazione che si è venuta a creare in questi ultimi anni, esasperando ed avvelenando il clima generale, inasprendo e incancrenedo i rapporti internazionali?

Forse, mai come in questi ultimi disastrosissimi anni, la Scuola, attraverso la Didattica della Storia, può contribuire e inserirsi nel tentativo di ridefinire le conoscenze storiche, il loro utilizzo, la loro capacità di azione nella realtà quotidiana degli adolescenti e dei giovani, cercando di introdurre alcuni elementi di verità, stemperando polemiche assurde e pretestuose.

In funzione di questo obbiettivo storico-didattico, come gruppo di ricerca costituitosi all’Irre Lombardia, abbiamo deciso di puntare la nostra attenzione sul Mediterraneo e l’Italia in epoca medioevale. La Didattica della Storia, anche e soprattutto in funzione del nostro obiettivo, depontenziare la polemica Occidente-Oriente e ridefinire qualche tratto dell’identità nazionale, non si può ridurre all’ambito del Medioevo, ma deve sempre presupporre un continuo e permanente confronto analogico tra varie epoche, tra passato e presente. E ovviamente tale arduo compito non può prescindere dalla considerazione “strategica” della trasformazione epocale che proprio la globallizzazione in corso ha imposto, volenti o nolenti, anche ai modi e alle forme dell’isegnamento-apprendimento.

La telematica, l’informatica, internet con la sua infinita Biblioteca Virtuale, la posta elettronica, hannoorizzontalizzato” la didattica e forse, a maggior ragione, la didattica della storia. Essa, la didattica della storia, ha sviluppato un proprio dinamico campo d’azione, la “microdidattica” del territorio e della sua evoluzione storica, quasi una reazione “locale”, in qualche caso “localistica”, alla globalizzazione

didattico-storica per via informatica.

Ai docenti non rimane che inserirsi in questa onda lunga della storia contemporanea per integrare i propri allievi in questo “ecumenico” laboratorio, o, meglio, atelier aperto al mondo. Questa integrazione laboratoriale degli allievi sarebbe utile per assecondare la “digestione” e la “metabolizzazione” della straripante e debordante accumulazione di una massa critica di dati contenuti nella Biblioteca Virtuale. Sollecitando e consolidando l’interesse e la motivazione degi allievi allo studio ed eventualmente alla ricerca, il laboratorio didattico li renderebbe protagonisti consapevoli di un processo continuo e critico di apprendimento, personalizzato, e, possibilmente, individualizzato.

Il ridimensionamento, se non la rottura, ad opera soprattutto della informatica e della telematica, ma anche del così detto pensiero complesso, della linearità e della sequenzialità logico-didattica, rende sempre più obsoleto e impraticabile l’approccio “verticalistico” dell’insegnamento frontale.

Ma il colpo di grazia, le potenti iniezioni di disarticolante e dirompente “stricnina” alla verticalizzazione dell’insegnamento lo hanno dato e lo continuano a dare, incrementandone anzi le dosi venefiche e mortali, proprio gli adolescenti e i giovani delle Superiori. Essi, gli adolescenti, nel loro disagio sempre più evidente e crescente, nel loro rifiuto del claustrofobico “riduzionismo” dell’aula “sorda e grigia”, ristretta e restrettiva e dell’ottica devastante dell’allievo “a una dimensione”, sempre di più negano l’unidimensionalità e l’unilateralità del “canto del cigno” del “maestro”, retore e oratore di una monodia unilineare e perciò monotona ed ideologica: un maestro, a sua volta, prigioniero di una didattica e di un mondo vecchio e al tramonto, che non può più appartenere ad allievi la cui “aula” non è più e non può essere più l’aula di cemento “armato”, ma il palcoscenico virtuale del mondo da Oriente a Occidente.

Essi, gli allievi, viaggiatori e navigatori neo-odisseici delle rotte virtuali di Internet, non hanno più nulla a che vedere e a che fare con la didattica unilineare. Essi sono i figli o i nipoti, (finalmente svezzati, si spera, e liberi dal professore – padrone), di un Dio Maggiore che li ha resi finalmente protagonisti del loro processo personale ed individuale di apprendimento. Le loro rotte di navigazione apprenditrice, educativa e formativa sono frutto della rottura degli schemi della sequenzialità logico – didattica di tipo aristotelico.

La logica informatica, il montaggio cinematografico e televisivo, un certo ritmo narrativo e della vita quotidiana, rotto, franto, frammentato, parcellizzato, scisso, scismatico, dicotomico, ritorto e contorto, con una sola parola schizofrenico, ha inserito gli adolescenti in un universo apprenditivo, esperienziale, interattivo e non – lineare che rende sempre più difficile accettare la lezione frontale del maestro o professore “ cantore” che sembra sempre di più coincidere con una specie di pensiero unico globalizzato e standardizzato, o, peggio, con una specie, forse più insostenibile e ignobile, di messaggio “profetico” ed ideologico.

E se gli adolescenti, tra l’altro nella fase più acuta della ricerca di una propria identità, sono sempre meno disposti a divenire strumenti ciechi e passivi di volontà altrui, acritici fedeli del “Verbo” profetico, amorfi ricettori di messaggi obsoleti, univoci e insostenibili, figuriamoci quanto meno ancora lo sarebbero e lo sono eventuali allievi orientali, islamici.

Sempre di più per questi allievi maomettani la nostra Scuola, e a ragione, si proietterebbe e apparirebbe come una Scuola della “ Dottrina Occidentale”. E allora, forse proprio le possibilità dialogiche ed interattive, fornite da Internet, ci possono aiutare a inserire anche gli allievi islamici nel contesto virtuale di un atelier storico-didattico, atto ad “orizzontalizzare” e a “smitizzare” l’approccio e il confronto, o peggio ancora, lo scontro tra le civiltà. La predisposizione e la costituzione di un atelier virtuale storico-didattico, rompendo e abbattendo le barriere divisorie delle aule e delle classi, inviterebbe e invoglierebbe gli adolescenti a ricercare, senza pregiudizi e liberamente, ricorrendo il meno possibile alla guida e all’arbitraggio dei docenti, le fonti storiche comuni, rileggendole e reinterpretandole, nello sforzo incessante della comune ricerca della verità, adoperando gli inesauribili scaffali della sterminata ed infinita Biblioteca universale e virtuale fornita da Internet.

Ma soprattutto gli allievi italiani, forse più di quelli islamici, molto discretamente o il meno possibile “presi per mano” dai docenti, meglio, da una equipe interdisciplinare di docenti, scoprirebbero nella ricchissima e immensa storia nazionale del loro Paese verità perdute e mai immaginate perché oscurate e calpestate dal grande, sconfinato e hollywoodiano circo “Barnum” mediatico e globale che, come una immensa e colossale idrovora, risucchia e stritola qualsiasi frammento, grande o piccolo, di verità storiche divergenti. Ma contro questo drago onnivoro, dalle mille teste, sputafuoco e incendiario, che tenta di inglobare e globalizzare qualsiasi oggetto e soggetto incontri davanti a sé nella sua marcia trionfale e distruttrice di ogni memoria “proibita” e pericolosamente alternativa, una Scuola, attrezzata come laboratorio o atelier virtuale, senza la disastrose e claustrofobiche barriere divisorie delle aule di cemento armato e alla ricerca del contatto umano e apprenditivo “orizzontale”, grazie all’uso intelligente e sapiente di Internet, può disporre dei suoi cavalieri, ammazza drago, senza macchia e senza paura, cioè i suoi allievi, alla guisa di redivivi San Giorgio, armati dei loro potenti e prepotenti computer in rete.

Allora gli allievi italiani delle Superiori, scavando tra le polveri elettroniche della Biblioteca Universale Virtuale, si imbatteranno nel corpo ancora vivo e palpitante di una “Terra di confine”: l’Italia del Sud, senza escludere Venezia, nel Medioevo tra Longobardi, Franchi, Normanni, Arabi e Bizantini in un “Melting pot” senza precedenti nella storia dell’umanità. Una civiltà di confine, completamente dimenticata o comunque scarsamente indagata dagli stessi manuali di storia delle Scuole Superiori. E i maggiori protagonisti di questo stupendo e civilissimo mosaico multietnico e multiculturale del passato, i Bizantini e gli Arabi, oggi sono completamente spariti nella logica globalizzante. Essi sono caduti nell’oblio riservato a tutti i grandi protagonisti della Storia vinti. Essi sono divenuti anche “brutti, sporchi e cattivi” perché nel frattempo divenuti anche poveri. Perché se oggi i Greci, tra i discendenti diretti di Bisanzio, tra immani difficoltà, sono quasi del tutto riusciti a superare il loro quasi atavico retaggio “turcocratico” che li aveva sottoposti a un duro e avvilente servaggio politico ed economico, non si può dire la stessa cosa degli Arabi, ancora profondamente e maledettamente avviluppati nella logica devastante di un brutale e quasi totale sottosviluppo, a parte qualche notevole e meritoria eccezione, la Turchia. Allora ecco la prima domanda che nascerebbe spontanea nell’animo degli allievi: è la malidizione dell’economia contemporanea o la Storia che marchia gli uomini e le civiltà?

Ovviamente, più degli Arabi, nell’Italia medievale, hanno inciso, lasciando tracce indelebili della loro presenza, i Bizantini. Ma i Bizantini, forse più degli Arabi, appartenendo al mondo dei “vinti”, prima ancora della loro “decapitazione” e della loro “damnatio memoriae”, operata dai vincitori, i Normanni, gli uomini venuti dal freddo del Nord, hanno scontato e subito gli effetti devastanti di una propaganda papale senza precedenti nella storia dell’umanità, paragonabile per entità e per portata, solo agli effetti della propaganda spagnola nel Nuovo Mondo, tesa, dopo il grande massacro dei Maya, degli Aztechi e deigli Inca, ad occultare, anzi a distruggere qualsiasi traccia della splendida e rigogliosa civiltà dei vinti. Negli allievi scatterebbe immediatamente una seconda inevitabile ed ineludibile domanda: ma chi erano questi Bizantini, quale misfatto, quale delitto, quale colpa hanno commesso per ricevere tanta inusitata “attenzione”, e soprattutto per riscuotere tanto “interesse” e violenza per meritare una così terribile punizione?

Gli allievi, da tali domande, saranno indotti a interrogare sempre di più la “rete”, i suoi documenti virtuali, ma anche, sollecitati dai docenti, a verificare lacune e carenze dei manuali di storia su questa “scismatica e subdola genia” di “falsi e abietti cristiani” nella propaganda degli Occidentali, dei Latini, cioè Normanni, Franchi e Papato.

Gli allievi e i docenti constaterebbero che le fonti occidentali, quando menzionano i Bizantini, lo fanno solo per distorcere tendenziosamente i fatti e le loro azioni che sono sempre marcate col “giglio” dell’infamia, della corruttela, dell’abiezione, della effeminatezza, della ambiguità e della perversione morale e religiosa: insomma la rappresentazione a tinte fosche di un mondo in cui, malgrado tutto, ci si rispecchia, deformandolo, perché non lo si riesce a capire e soprattutto, pur nella artificiosa e inconsistente propaganda della fraseologia anti-orientale, perché lo si ammira e lo si invidia, cercando molto spesso di imitarlo non solo nelle manifestazioni più vistose ed eclatanti della sua insuperabile e affascinante scenografia autocratica.

Ed è proprio nel Sud della penisola che, paradossalmente, è la provincia bizantina meno importante rispetto ai bastioni micro-asiatici dell’Impero bizantino, che gli Occidentali, i Latini, tra cui anche i Longobardi (gli Arabi essendo considerati dal “Basileus” meno lontani rispetto ai “Franchi” e più vicini al mondo romano-orientale) entrano a contatto e fanno esperienza di quell’“altro mondo”, quello romano-orientale, bizantino, così diverso dal loro, eppure così attraente e magnetico da far impazzire la “bussola occidentale”.

Bisanzio, come la storiografia più recente ha dimostrato, ha sempre considerato l’Oriente il suo fronte primario e strategico: è qui con il nemico-amico islamico che si sono giocati i destini “incrociati” delle due civiltà a contatto, quella greco-ortodossa e quella islamica. E’ qui che i due Imperi, più che in Occidente, si sono scontrati e incontrati con un esito del tutto imprevedibile, una contaminazione non solo culturale su cui solo oggi gli storici più avvertiti, sia bizantinisti che arabisti, cominciano a incontrarsi e soprattutto a interrogarsi. E a maggior ragione si dovrebbero interrogare i nostri allievi, i docenti e gran parte dell’opinione pubblica non solo nazionale.

Ma torniamo al Sud della penisola. Certo, nel Sud, la politica imperiale e occidentale di Bisanzio, volta alla “globalizzazione” ortodossa, rapida e non violenta, se possibile, dell’eterogeneo mosaico di etnie, anche non ortodosse, che in esso sono presenti e operanti da secoli, (non dimentichiamo inoltre le così dette Repubbliche marinare come Amalfi, Napoli, Sorrento e Gaeta) si attua nella consapevolezza strategica della esiguità e della carenza di mezzi e risorse disponibili impegnate soprattutto ad Oriente. E’ in questo chiaro e limitante quadro di riferimento politico che si spiegano le abili  e avvolgenti manovre, mosse e contro-mosse degli infaticabile strateghi bizantini. Queste manovre sono spesso dettate dalla capitale, comunque con ampli e significativi margini di libertà da parte degli ufficiali bizantini locali, ma soprattutto dettate dalle necessità, con le limitate risorse disponibili, di adattarsi alla mutevole, variegata e variopinta realtà locale in un complesso, complicato e sofisticato gioco di snervanti ed estenuanti equilibri ed equilibrismi. Questi non sono per nulla compresi dalle fonti occidentali locali, essendo scambiati assai spesso per debolezza, codardia, vigliaccheria e soprattutto per doppiezza e immoralità (il calco abusato e usurato nei secoli dei “Graeculi” effeminati e corrotti). Ma Bisanzio guardava ad una prospettiva globale e mondiale, gli altri, gli “Occidentali”, i “Barbari” che balbettano il greco, non guardavano e non erano in grado di guardare oltre il cortile del loro ristretto e angusto spazio “locale”. Ed allora ecco che di necessità si fa virtù: Bisanzio non può e non deve dispiegare tutto il suo immenso potenziale militare nel Sud e in Italia, l’Impero romano-orientale, che è già di per sé una mediazione vivente tra Occidente latino e Oriente islamico, potenzia proprio nel Sud tale particolare caretteristica, cioè la mediazione, adoperando quell’arte della politica, quella capacità di adattarsi alle diverse e mutevoli situazioni, senza perdere però le sue connotazioni essenziali.

La capacità, tutta ed esclusivamente bizantina in Italia di tollerare e dialogare, all’interno degli incerti e conflittuali confini della sua ricca provincia, il Catepanato, con i soggetti e le etnie più varie, dai Longobardi agli Arabi, dagli Ebrei, ai Bulgari e agli Armeni, si scontra con gli interessi e una mentalità occidentale, abituata a concepire e praticare non solo nel Sud e in Italia (si rifletta sul fenomeno successivo delle Crociate) le relazioni con l’“altro”, diverso da sé, solo ed esclusivamente in termini di “oplitismo”, cioè di aggressione frontale e totale.

Le categorie della mediazione e conseguentemente l’arte millenaria, faticosa ed estremamente complessa e raffinata, della mediazione, o, se si preferisce, della diplomazia (i Bizantini parlerebbero di capacità, divenuta anche necessità, di adattarsi alle infinite pieghe e alle asperità del “terreno”, derogando qualche volta dalla regola, dalla norma) sono al servizio di un obbiettivo strategico e politico atto a perseguire, raggiungere e gestire un delicato e complicato processo di pacificazione, nel contesto e all'insegna di una egemonia culturale ed economica prima che religiosa e politica. Un approccio alla realtà del Sud e dell’Italia completamente diverso e opposto all’approccio immediatamente e anche fisicamente predatorio e vessatorio degli uomini venuti dal freddo del Nord, i Normanni. Dietro i Normanni si nascondeva il progetto altrettanto predatorio e brutalmente religioso di revanche romano-cattolica nei confronti di un Sud greco-ortodosso tanto più pericoloso proprio perché la sua fede saldamente e profondamente ortodossa era lì a due passi dalla capitale religiosa del mondo latino a testimoniare la forza sconcertante e sconvolgente di un modello romano-orientale alternativo, non solo nella sfera cristiana, al primitivismo romano-cattolico, ammantato e gravato dalla rozzezza militaresca dei Normanni.

La capacità di adattamento mentale ed intervento pratico in una realtà storica multietnica, multireligiosa e multilaterale era adottata, ben interpretata, incisivamente e proficuamente attuata proprio dai quei monaci italo-greci, di rito ortodosso che assumevano su di sé le caratteristiche dell’eroe per antonomasia nella società bizantina significativamente permeata di radicati e radicali sentimenti mistico-cristiani. Essi, i monaci italo-greci, rappresentavano anche il prototipo produttivo in cui si rispecchiava l’elemento rurale, i contadini. Questi ultimi seguivano i monaci  nel dissodare e coltivare le terre al servizio di Dio e dell’uomo.

Pur in un quadro politico generale che non escludeva il confronto militare, Bisanzio riuscì a far interagire o comunque a garantire un relativo equilibrio di forze che rese possibili contatti e scambi con etnie, culture e civiltà che, altrove, esclusa Venezia e la frontiera microasiatica, non sarebbe stato possibile neanche lontanamente immaginare.

E malgrado questo bello e fragile edificio fosse più tardi, dalla fine dell’XI secolo, malamente e brutalmente abbattuto dai Normanni che, tra l’altro, introdussero nel mondo greco-bizantino la pratica feudale, ignota ai liberi proprietari contadini del Catepanato, l’amalgamazione interetnica e interculturale, iniziata e promossa dai Bizantini nel Sud, giunse alla più alta e matura manifestazione di sé nei secoli successivi.

Dai Normanni agli Svevi, agli Angioini e anche oltre, fino a giungere alla “Primavera del Rinascimento”, il destino “imperiale”, cioè romano-orientale e quindi interetnico, inter-religioso ed interculturale, che aveva contrassegnato i secoli precedenti, continuò a imprimere il suo marchio e il suo impulso dinamico a una società intera, quella dell’Italia tutta questa volta, col contributo rilevante della stessa Venezia, la Costantinopoli occidentale, la “quarta Roma”.

La nostra penisola, dislocata come è al centro delle rotte mediterranee e allo stesso tempo cerniera strategica e “terra di confine” tra Occidente e Oriente, fino al XV secolo, non solo attraverso il Sud, ma anche attraverso il profondo, prolungato e diretto contatto con Bisanzio, fu punto di attrazione, diffusione, appropriazione, interpretazione e rielaborazione originale della cultura bizantina. Tale cultura, a sua volta, si caratterizzava per la insuperabile capacità di mediazione, filtrava e trasformava l’immenso potenziale umano e ideale proveniente dall’“altro” Oriente arabo, turco, persiano, mesopotamico, indiano e cinese, su cui solo oggi e da poco i bizantinisti e gli arabisti cominciano a porre la loro attenzione.

Fino ad ora abbiamo evitato di riportare una inutile e sterile enciclopedia di nomi e personaggi, ma un nome, a questo punto, va assolutamente citato, quello del grande e poliedrico “filosofo” bizantino, Giorgio Gemisto Pletone, del quale, solo da poco e con grande difficoltà, gli studiosi contenporanei ne stanno sondando e riconoscendo l’inestimabile e misconusciuto contributo alla storia della civiltà.

E’ probabile che, a questo punto del nostro percorso didattico, gli allievi comincerebbero a percepire un leggero “fastidio”. Infatti, questo loro (e nostro) viaggio, si spera non troppo allucinante e pesante, alle radici e alle fonti vive della nostra identità, che apparirà sempre meno “nostra” e occidentale e sempre più orientale, può correre il rischio di divenire troppo virtuale e quindi troppo “segregato” nel contesto di un laboratorio bello ed affascinante, ma avulso da agganci e rapporti con il mondo della realtà non solo didattica.

E allora sarebbe necessario, oltre che didatticamente e formativamente salutare e proficuo, ritornare a qualche contatto meno “tecnologico” e più attento alle dinamiche “realistiche” della storia: un bel viaggio d’istruzione a Venezia consentirebbe agli allievi e ai docenti di ritrovare una dimensione più immediata e un approccio più diretto e anche più emotivo.

Se infatti la dimensione ludica dell’apprendimento per via informatica, interattiva ed esperienziale è una delle manifestazioni più evidenti e significative del mondo adolescenziale, l’emotività è alla base dell’apprendimento adolescenziale, il cui immaginario è saturo di simboli ed analogie, di ritualità, mitologie “passionali”, comunitaristiche, fortemente identitarie e coinvolgenti.

In quelle circostanze, visive, tattili e olfattive, dell’esperienza diretta del sito (che possiamo definire archeologico) vivente e in parte ancora pulsante delle calli e dei campielli della Venezia attuale e contenporanea, essi, opportunamente preparati e formati nel laboratorio virtuale, divenuto a maggior ragione atelier informatizzato di preparazione, si avvicineranno alla realtà palpitante del mondo veneziano.

Essi vivranno un’esperienza comunitaria e protagonistica, personalizzata ed individuale, anche grazie all’autonoma e creativa elaborazione di attrezzati percorsi cartografici finalizzati alla pratica dell’universo veneziano, utili alla comunità degli apprendisti-studenti a muoversi nel labirinto dell’“Oriente veneziano”. Essi confronteranno con ricerche, carte e mappe alla mano, da loro stessi progettate e prodotte, le tracce del passato con l’evoluzione del presente. E allora gli allievi scoprirebbero, direttamente e in prima persona, la totalizzante esperienza dei moduli e delle forme bizantine nell’architettura, nell’arte e, su un altro versante solo apparentemente e relativamente diverso, nella tecnologia veneziana (per esempio l’Arsenale).

E non solo gli allievi scoprirebbero queste contaminazioni bizantine interne all’“anima estetica” della Serenissima, ma essi, sulle loro mappe, prodotte con le loro mani, avvertirebbero nella configurazione perimetrale dei confini della Repubblica di San Marco la materializzazione di una marca di confine. Di una “Terra di confine”, come era già accaduto con il Catepanato del Sud, forse “pensata” e progettata dagli stessi Bizantini quando erano i diretti signori del minuscolo territorio lagunare in formazione, per fungere da cuneo di penetrazione economica e culturale, rivolto al tentativo di “bizantinizzazione” dell’appendice occidentale adriatica del loro immenso Impero, appendice che avrebbe consentito di coinvolgere nella loro rete globale i popoli barbari dell’Europa occidentale.

Ma se la marca veneziana può essere stata concepita per un tal fine strategico, è altrettanto vero che Venezia, nelle sue terre di confine della Terraferma, non esitò a “turcizzare” le valli più strategiche e a rischio-invasione, popolandole anche di Turchi, prigionieri o schiavi, rinverdendo un’antica tradizione sia romana che bizantina.

E nella efficace ed efficiente macchina burocratica veneziana con le sue diramazioni fiscali, diplomatiche, dei Servizi Segreti e di spionaggio mondiale, gli allievi scoprirebbero non pochi indizi del loro retaggio bizantino, come del resto nella spregiudicatezza diplomatica e commerciale della Serenissima nei confrornti del Turco e quindi la disponibilità, quanto meno indiretta, a una certa contaminazione e assimilazione di chiari ed evidenti elementi non solo medio-orientali (il Moro di Venezia).

E sarebbe relativamente facile per gli allievi, per immediata analogia, cogliere nel Catepanato del Sud, simili connotazioni e caratteristiche, anche se accentuate, nella direzione di un maggior “meticciamento” non solo culturale e mentale, ma anche etnico ed antropologico. Le Terrre di confine del Sud, compresa la Sicilia e la Sardegna, sono, più di Venezia, della sua laguna e della sua Terraferma, un laboratorio interetnico, religioso e sociale, oltre che economico, senza precedenti.

I Bizantini, con la loro elasticità mentale e culturale e con un minimo di sforzo militare, per lo più navale, preservano e sviluppano, (non si sa fino a che punto involontariamente, ma conoscendo le sofisticate e complesse strategie diplomatiche e politiche di Costantinopoli e della sua elite dirigente, senz’altro si può e si deve sospettare una qualche forma di “pianificazione” centralizzata), un avamposto poco fortificato e poco costoso, una specie di Nuova Inghilterra americana o di piccolo Brasile portoghese, un porto “franco” in cui convergono gli stessi interessi dei Saraceni Siciliani i quali, malgrado divieti, censure, embarghi, veti papali ed imperiali, sono e si sentono inseriti, in qualche modo, in questo conflittuale, demoniaco, vario e variopinto mondo meridionale, veramente eretico ed eterodosso, nel suo complesso, intricato e incomprensibile labirinto.

Questo inesausto e quasi inesauribile poliedrico policentrismo meridionale, per quanto brutalmente unificato e “riordinato” dal feudalesimo accentratore dei Normanni, continuerà a fermentare e a proliferare, incubando e disseminando le più varie e straordinarie esperienze: dalla Scuola Medica Salernitana alla Scuola Siciliana, dall’architettura e dall’arte arabo-bizantina alla corte “orientale”, arabo-bizantina dei Normanni, dall’esoterismo all’“eterodossia” eretica e satanica orientaleggiante di Federico II. Insomma un'amalgamazione, in qualche modo possibile e riuscita, di esperienze e realtà apparentemente tra di esse lontane e contraddittorie, anzi, agli antipodi e pure, alla fine, fuse in un impareggiabile mosaico di genti e popoli perfettamente, se la perfezione esiste, integratisi, pur conflittualmente, nella lunga ed enorme distanza dei secoli, ma sul breve respiro di modesti e limitati spazi geografici e proprio per questo, a maggior ragione un’avventura umana veramente unica ed irripetibile, straordinaria.

Ma i nostri allievi rimarrebbero ancora più stupiti se, attraverso una opportuna e guidata (dai docenti) navigazione in Internet, si imbattessero in un “Oriente” meno scontato e lontano della Sicilia Araba con la sua ingombrante e vigorosa presenza nel Sud, un Oriente, meno esotico, più domestico e prossimo. Potremmo trasformare i nostri allievi, ovviamente con il loro consenso e con quello dei genitori e dei docenti (al seguito), oppotunamente preparati in un apposito laboratorio informatizzato, non solo cartografico, interdisciplinare e storico-didattico, ma anche alpinistico ed escursionistico, addestrati, attrezzati ed equipaggiati al meglio, perché no, anche con un breve corso di sopravvivenza, comunque utile e proficuo, si diceva, potremmo trasformare i nostri studenti in esperti “acrobati” (esageriamo) della montagna, dei piccoli apprendisti e praticanti dell’arte funambolica e spericolata di Indiana Jones. Probabilmente servirebbe molto meno (ma non si può mai dire) delle doti magico-fisiche del nostro eroe cinematografico americano, ma un addestramento fisico e pratico, volto all’affrontare e superare le asperità improvvise e per nulla minimizzabili di valli, fiumi, montagne e torrenti.

Tale addestramento sarebbe comunque richiesto e gradito per renderli protagonisti di “scoperte” veramente interessanti e significative, tanto più particolari e indelebili, perché raggiunte dagli adolescenti con un duplice sforzo fisico ed intellettuale, ripagato da una grande emozione apprenditiva, forse unica nella loro vita.

Gli allievi, una volta raggiunta una di queste valli, di cui abbiamo parlato in precedenza, dislocabile nell’Italia nord-occidentale, interagirebbero direttamente e in prima persona con un territorio sottoposto ad una attenta, “filologica” ed archeologica osservazione, analisi e lettura dei propri segni e reperti.

Così i ragazzi leggerebbero nei toponimi dei luoghi attraversati, nel dialetto diligentemente raccolto tra i valligiani, riportato e interpretato, nella fisiognomica, nei tratti e nei volti degli stessi uomini della montagna, testimonianza vivente (per chi, adeguatamente preparato e predisposto, voglia e sappia porsi in ascolto delle tracce di un passato persistente ed evoluto), la realtà storica, non si sa fino a che punto involontariamente cancellata dall’uomo, di una presenza araba ed islamica in un'area della nostra penisola sempre ritenuta “immune” da “contaminazioni” e completamente assimilata ad una sempre meno definita identità italiana monolitica. Identità italiana, a sua volta, determinata e sigillata in una torre d’avorio, a pieno titolo inserita in quella categoria dello spirito della così detta “civiltà occidentale”, propagandata dai mass-media globalizzati, come completamente “decontaminata” e autoreferenziale.

Un po’ alla volta gli allievi si accorgerebbero che la tanto millantata identità italiana ad una dimensione, di tendenza e profilo occidentalizzante, non è poi così del tutto occidentale, anzi, grazie alle loro elettroniche, alpinistiche ed avventurose indagini, sembra rivelarsi sempre meno occidentale, per riassestarsi e definirsi un po’ più orientaleggiante, un po’ più tinta di rossa porpora bizantina e trapuntata del verde colore del Profeta.

Sono state le Crociate che hanno diviso definitivamente il mondo cristiano. Da una parte, ad Occidente, in Italia, la Chiesa cattolica già si era impadronita con le armi (dei Normanni) e con la propaganda anti-ortodossa, delle ingenti risorse del Catepanato bizantino. Essa preferì, pur nel conflitto con l’Islam, cercare un contatto diretto con il mondo arabo, “oscurando” Bisanzio. Dall’altra parte il pianeta greco-ortodosso subì il contrattacco latino. Gli Occidentali, una volta conquistata Costantinopoli, tentarono, riuscendoci, di ridimensionare o, addirittura, di eliminare la scismatica e diabolica mediazione bizantina, così pericolosamente vicina alle sottigliezze della altrettanto insondabile mentalità orientale degli Arabi. Le due società, quella bizantina e quella islamica, si rivelavano sempre più assimilabili tra di loro, ma indistinte, aliene e incomprensibili agli occhi dei Latini.

Ma il nemico da abbattere, per la sua indiscutibile capacità di insinuarsi religiosamente e culturalmente in un contesto ritenuto cattolico e latino (i monaci italo-greci stavano lì a testimoniarlo una volta per sempre) e per la sua profonda ed eretica tendenza al dialogo e al compromesso con gli infedeli Saraceni, era e rimaneva il “subdolo” imperatore bizantino di una corrotta, immorale e decadente megalopoli orientale.

L’occupazione di Costantinopoli da parte dei Crociati produsse un'insanabile frattura tra i due mondi. Niceta Coniata, uno dei più grandi storici di Bisanzio, ci ha lasciato un quadro raccapricciante e indimenticabile delle nefandezze e delle stragi dei Latini, in una Costantinopoli divenuta teatro dei più esecrabili misfatti. “Nella cattedrale di Santa Sofia i soldati abbatterono l’altare e spogliarono il santuario dell’oro e dell’argento, caricando i loro trofei sui muli e cavalli che scivolavano e cadevano sul pavimento di marmo lasciandolo rigato del loro sangue, mentre una prostituta danzava sul trono del patriarca cantando canzoni oscene. Niceta Coniata mette a confronto la selvaggia sfrenatezza di questi ‘precursori dell’Anticristo’ a Costantinopoli con la moderazione dei Saraceni, che a Gerusalemme avevano rispettato la chiesa del Santo Sepolcro e non avevano fatto alcun male alle persone o ai beni dei Cristiani vinti.” (D. M. Nicol, Venezia e Bisanzio, Bompiani 2001, p.193)

Da allora in poi il senso di estraneità, per non dire di avversione, tra i due mondi, tra Occidente ed Oriente non poteva che accrescersi. E così è stato. Prima delle Crociate, prima degli Scismi, prima del violento processo di latinizzazione del Sud, sarebbe stato molto difficile delineare e definire con esattezza e con precisione dove cominciasse l’identità “latina” e dove quella “bizantina”.

Se Venezia riuscì a compiere un suo originale e brillante percorso storico e civile, il Catepanato bizantino del Sud non ebbe altrettanta fortuna. La sua felice evoluzione, nel contesto greco-ortodosso, fu bruscamente e malamente interrotta dall’aggressione congiunta delle soldatesche normanne e della propaganda papale.

Spesso e volentieri l’affermazione di una nostra presunta e “granitica” identità nazionale, così fortemente e diligentemente “pubblicizzata” non solo dai mass-media, ma anche e non poco da gran parte dei nostri obsoleti manuali di storia, fa a meno (per ignoranza? Per oblio? Per leggerezza?) di illuminare, con i riflettori della Storia e della ribalta, la memoria di un’immane tragedia. L’esplicitazione e la comprensione di questa tragedia rimane determinante in un tentativo, pur minimo ma necessario, di rivisitazione e ridefinizione, non di “revisionismo”, di un'identità italiana oscurata e lacerata da ataviche e devastanti “miopie” storiche, incalzata e compressa da un processo di globalizzazione sempre più unidimensionale e standardizzante. La “immane tragedia” a cui si allude è la programmatica e consapevole eliminazione di ogni traccia della religiosità greco-ortodossa. Nel rito greco-ortodosso, ricco di potenzialità partecipative, si riconosceva tutto un popolo e un Impero, quello bizantino. Espressione di questo rito, l’Impero bizantino tollerava, inglobava e “globalizzava” (nel senso di un'identità al plurale) tutte le diversità non solo etniche e culturali, integrandole positivamente e dinamicamente, purchè si accettasse il credo greco-ortodosso. Tanto è vero che l’identità bizantina del Sud, come degli altri “temi” dell’Impero, non fu mai monolitica, statica e unilaterale, ma persistentemente e proficuamente variegata e vivificata dal contributo di innumerevoli civiltà e popolazioni.

Il brutale e violento processo di “latinizzazione” forzata, reazione “fondamentalista” esasperata ad un analogo processo di “bizantinizzazione”, al contrario filtrato e diffuso con i mezzi della cultura, della religione e dell’economia, fu deciso e imposto da una Curia romana in cerca di mezzi finanziari per la sua politica unilaterale ed egemonica e in cerca di una Pre-Crociata per un ritorno rapido, ma doloroso del Sud nell’alveo del cattolicesimo romano. Questa “attenzione” romano-cattolica fu fatale per un Catepanato bizantino che, per la sua ricchezza e per il suo diuffuso benessere, attirò anche le mire espansionistiche degli “Uomini Boreali”, i Normanni, venuti dal freddo del Nord.

La non fortuita “congiunzione astrale” di queste due forze, l’una presunta “celeste”, l’altra un po’ meno e decisamente più “terrestre” e terrena, riuscì a seppellire la voce, l’immagine e la fede di un’intera nazione e del suo popolo, destinati a non più sopravvivere se non attraverso ultraframmentati e microscopici relitti vaganti e affioranti sporadicamente alla superfice della storia.

Le pretese “anomalie” di un Sud estraneo, se non ostile, ad una presunta compatta, univoca e latino-occidentale identità nazionale sono quindi, a pieno titolo, l’altra faccia della nostra identità, quella dimenticata, ma pur sempre viva e dinamica, delle nostre radici orientali. Vale ancora la pena “azzerarle” queste radici? O invece diremo ai nostri ardimentosi cacciatori di identità, gli allievi, che la caccia è aperta, continua ed essi sono tra i primi sulle orme di un’ambitissima preda? Preda che consisterebbe nella riscoperta e nella valortizzazione di un passato che è sempre più presente e futuro. Questa caccia consentirebbe loro di approfondire le nostre complesse e contaminate origini. Essa consentirebbe loro di porsi nella condizione unica e privilegiata di poter avvicinare e capire l’altro, slavo, greco, islamico, cinese, indiano, non guardandolo più come un estraneo o come qualcuno venuto per sottrarci qualcosa, ma accogliendolo come un “antico” fratello o amico col quale in passato si è condiviso un tratto di strada, consapevoli che la sua presenza, nella nostra società, può essere preludio per un lungo e difficile viaggio comune il cui approdo finale, se esiste, può essere una graduale “ibridazione” e un comune arricchimento.

 

 

Non siamo riusciti, non diciamo ad approfondire, ma neanche a dare un rapido sguardo d’insieme al cinema islamico contemporaneo, anche perché operazione non facile che si rimanda e si affida ad altri.

Se invitassimo i nostri allievi a spulciare quanto le cronache bizantine ci riferiscono sui Saraceni in Italia nel Medioevo, essi si ritroverebbero di fronte ad uno stereotipo già vivo e operante presso i Longobardi per descrivere i Bizantini. I cronisti romano-orientali ci lasciano un’immagine di Saraceni subdoli, perfidi, dissimulatori, ingannatori, ambigui e fraudolenti, gli stessi luoghi comuni, topoi, che i Longobardi usano a piene mani per consegnare alla memoria storica, diremo meglio, alla propaganda, Greci logorroici e pronti all’uso del falso e facile discorso per gabbare e ingannare.

I nostri adolescenti, di fronte a questi testi, anche elettronici, testimonianza di un lontano passato, intuirebbero, con dati e con confronti diretti alla mano, che l’artificiosità della propaganda al servizio di una ideologia della intolleranza e della divisione tra i popoli, è antica quanto il mondo e la televisione e la stampa contemporanea molto spesso corrispondono quasi esattamente alle cronache bizantine o longobarde: dietro la fuorviante e perniciosa retorica propagandistica della diversità come pericolo e irriducibile alterità, si nasconde un vuoto di idee e probabilmente un lucido gioco di interessi che oscurano la realtà universale dell’uomo.

Con i nostri studenti-ricercatori, una volta verificato che i manuali di storia delle Superiori sono appena un po’ più informati o meno disinformati della televisione e della stampa quotidiana e periodica, che sembrano annaspare nel vuoto pneumatico più assoluto, avvertiremmo la necessità, prima che didattica, antropologica, di analizzare qualche reperto cinematografico su Bisanzio per smontarlo e rimontarlo nel nostro laboratorio virtuale. Esso potrebbe trasformarsi in laboratorio, a tutti gli effetti, multimediale, ma anche digitale, per una rielaborazione digitale quanto si voglia del tutto sperimentare e iniziale e per un montaggio digitale di un documentario minimo sugli argomenti in qustione, partendo proprio dalla spettacolarità e dal fascino del cinema e ovviamente disponendo dell’apposita attrezzatura informatica.

I reperti filmici dedicati a Bisanzio, veramente pochi e ripetitivi, apparirebbero concentrati sugli elementi più spettacolari, scenografici, coreografici, mitologici, mitopoietici e hollywoodiani, dagli inizi del cinema, su un personaggio ultra-simbolico e intrinsecamente divistico quale Teodora e il suo consorte, l’imperatore Giustiniano, non a caso la quintessenza dell’Impero bizantino. Ovviamente in queste pellicole dominano le tinte forti e fosche dell’intrigo, del complotto, della corruzione, della perversione, del tradimento, del lusso sfrenato, dell’eccesso, del peccato, dell’erotismo e di altro ancora.

Potremmo quasi ridefinire questa convulsa e ridondante sequela cinematografica come un'anteprima dei nostri serial televisivi, le soap-opera, naturalmente con una maggiore ricchezza scenografica e un enorme dispendio di effetti speciali, di mezzi e risorse finanziarie. Questi film “storici” agiscono sugli spettatori e sugli allievi allo stesso tempo in due modi intrecciati e circolari: essi costituiscono un certo modello “decadentistico” di Bisanzio in un processo standardizzato di un certo immaginario adolescenziale e giovanile, non sempre consapevole dell’ambiguità e della duplicità della non-sequenzialità cinematografica.

I nostri allievi, se hanno veramente saputo approfittare dell’occasione “storica” del laboratorio virtuale e se sono diventati davvero protagonisti e padroni del loro processo di apprendimento, non dovrebbero avere difficoltà, nella loro “officina” virtuale di montaggio e rimontaggio, a cogliere il ritualismo retorico e propagandistico di un certo cinema che contribuisce a leggere ed interpretare la storia di Bisanzio come un’eterna decadenza, occultando, consapevolmente o meno, la profondità storica, lo spessore culturale, la complessità istituzionale ed economica della civiltà romano-orientale.

Gli stessi allievi, inoltre, dovrebbero essere in grado di rintracciare, tra questi documenti cinematografici, i primi segni e segnali di un mutamento nel processo di elaborazione di nuovi alfabeti e linguaggi non lineari, che saranno e sono alla base dell’apprendimento adolescenziale per via informatica, non trascurando di evidenziare come già il cinema, con questi film storici su Bisanzio, se ne impadronisca per affascinare e baloccare, ingannandoli, gli adolescenti.

Più dei manuali di storia e forse meno del cinema, ma non è detto, alcuni romanzi “storici” contemporanei, dedicati a Bisanzio, “Il fuoco greco” di Luigi Malerba, “Un berretto di porpora” di Maro Duka e “Il Bizantino” di N. Spasskiy, sono molto utili per avvicinare gli allievi adolescenti al mondo romano-orientale. Tutti e tre i testi citati sprigionano una straordinaria forza emotiva e suggestiva, che coinvolge, anche se contribuisce, pur con grande sapienza dei particolari e delle scenografie, alla ulteriore radicalizzazione mitografica di Costantinopoli.

Soprattutto N. Spasskiy, con “Il Bizantino”, coglie ed enfatizza un elemento chiave, per noi didatticamente molto pregnante, quello della individuazione di Venezia come il più temibile avversario del mondo greco-ortodosso, più temibile dello stesso Turco. Non solo, ma in Venezia si scorge anche l’erede immediata e diretta di tutta una tradizione bizantina, quella peggiore. E il protagonista del romanzo di Spasskiy, “Il Bizantino”, muore per mano di sicari prezzolati da Venezia, proprio perché non smette di tessere e tramare un lungo, intricato, nodoso e complesso filo di Arianna, teso a mantenere vivo e forte il mai sopito e prepotente “sentimento” di una Bisanzio risorta e rigenerata, straordinaria e possente “Mediazione” tra Oriente e Occidente.

A questo punto, con un cauto slittamento progressivo di tipo analogico, i docenti solleciteranno gli allievi ad osservare una carta geografica dell'ex Jugoslavia e a scorgervi la faglia che attraversa la terra di confine che la divide in due: da una parte le regioni occidentali, latine, e dall’altra le regioni orientali, greco-ortodosse, la Croazia e la Serbia: Roma e Bisanzio, i Franchi e i Bizantini. Nulla di nuovo sotto il sole. Niente di nuovo sul fronte occidentale e su quello orientale.

Si moriva nel Medioevo in quella faglia della marca slava come si muore oggi sotto le bombe americane e all’ombra della Crociata serba, greco-ortodossa.

Alla fine, ancora una volta, l’Occidente ha scelto il contatto diretto con l’Islam (l’Albania, il Kossovo, la Bosnia-Erzegovina), tagliando fuori, eliminando la mediazione greco-ortodossa. A Cipro, un’altra antica zona di faglia, gli Inglesi e gli Americani, i Latini di oggi, gli Occidentali scelgono la Turchia islamica, marginalizzando i Greci di Cipro. La storia si ripete?

 

 

Il processo di latinizzazione, progettato dal Papato ed attuato dai Normanni nel Sud della nostra penisola, non coinvolse ovviamente solo la provincia bizantina peninsulare, ma anche, e non con minore violenza, la Sicilia islamica. Anche qui i conquistatori non usarono le mezze misure; la latinizzazione fu capillare e assoluta.

Di questi tratti orientali, bizantini e islamici, quando si parla di un'identità nazionale, da ridefinire soprattutto in relazione alla globalizzazione, si è perduta del tutto ogni traccia non solo nella memoria collettiva, ma anche in quella consegnata e affidata ai nostri manuali di storia ed è veramente paradossale che, mentre è ancora possibile cogliere nel tessuto storico e quotidiano e nello stesso patrimonio dell’eterogeneo e “meticciato” popolo italiano le presenze attive di queste due civiltà “orientali”, nelle nostre scuole si indichi nell’islamico in carne ed ossa che infastidisce con la sola sua presenza, un perfetto sconosciuto, proveniente da un altro ed esotico mondo col quale, per la prima volta e con difficoltà, bisogna confrontarsi. Ed allora ecco che da anni nelle nostre scuole proliferano corsi e lezioni di intercultura, di accoglienza, di educazione alla mondialità, approcci e scenari veramente preoccupanti ed allarmanti perché, per mezzo di essi, in una dimensione solo psico-sociologica, e quindi “attualistica”, si ritiene di potere, se non risolvere il problema, ammesso che sia possibile in questi termini, almeno tentare di capirne l’origine per poi affrontarlo. In questa prospettiva, come la televisione, la stampa e il cinema, la scuola si misura sul terreno sdrucciolevole, infido e minato della dimensione del “pronto intervnto” terapeutico che nulla ha a che vedere e a che fare con la profondità conoscitiva ed analitica della Storia, anzi della Didattica della Storia.

La Didattica della Storia non ritiene di dover fornire soluzioni immediate al problema, al contrario, ritiene di poter offrire il suo contributo all'eventuale comprensione dell’altro, attraverso un’adeguata e coerente strumentazione critica, che poi, ci sembra, malgrado tutto, il sentiero stretto, ma mai interrotto di una scuola che persegue, con pacatezza e caparbietà, al di là delle facili mode e della fragile e superficiale “relazionalità” attualistica, l’obiettivo di un apprendimento basato sul tentativo, da parte dell’allievo, d’impadronirsi di un proprio, personale ed individuale “metodo” verso la conoscenza.

 

 

Gennaro Tedesco