Enzo
Santarelli, Storia critica della Repubblica. L’Italia dal
1945 al 1994, Feltrinelli, Milano, 1996.
Tra le
molteplici anime del revisionismo storico e l’acutissima crisi del sistema
politico nato dalla Resistenza corrono fili sottili, tant’è
che i rischi legati al tentativo di rompere vincoli “ideologici” in nome di
pretese “purezze storiografiche” sono ormai noti. Renzo De Felice, per fare
esempi illustri, tutto sacrificando ad un’asettica “oggettività” storica,
rischiò di fare della sua monumentale biografia mussoliniana
un vero e proprio monumento al duce. Da tempo poi, seguendone la pista sui
confini improbabili della “storiografia pura”, molti studiosi tentano letture “aideologiche” sulle quali si leva inconfessata la bandiera
d'una nuova ideologia: il “distacco dai fatti” che scaccia dalla storia quelle implicazioni etiche senza le quali tutto si fa piatto,
sicché la storia stessa può morire. Né manca, purtroppo, chi
ci speri. Crocevia d'un gioco politico tutto
ideologico - equiparare fascismo e antifascismo - certo revisionismo ha scopi
evidenti: garantire legittimità storica al superamento della repubblica nata
dalla Resistenza. Di qui il processo a Togliatti,
gli attacchi a Bobbio e i cadaveri riesumati dalle
foibe e dal “triangolo della morte”.
In un
tal clima, giunge opportuna - e riconduce il “mestiere di storico” all'usata
dignità - una Storia critica della Repubblica edita da Feltrinelli
che, muovendo da una lucida constatazione – “il groviglio della questione
italiana, attuale o inattuale che sia non si presta [...]
a facili soluzioni” - va al cuore del problema: dalla
pretesa rivoluzione italiana degli anni ‘90 e dal suo corollario di strumentali
rimasticature del passato è nata sì “la stella [...] sintomatica
di un leader provvidenziale”, ma è emersa soprattutto - e non a caso – “la
necessità di una riaggregazione democratica di base
della società nazionale, quale era stata avviata insieme alla fondazione stessa
della Repubblica in un sommovimento incompiuto ma discriminante nella coscienza
politica e civile italiana”.
A
ragionare in termini così acutamente problematici
degli ultimi decenni di storia d'Italia, è Enzo Santarelli, uno studioso cui
non manca l'animo per riaffermare l'ininterrotta militanza nella sinistra su
posizioni comuniste - e non è poco, dati
i tempi - né difetta il rigore venuto meno in quanti, senza militare o - peggio
ancora - rinnegando antiche militanze, cianciano di neutralità scientifica,
mentre fanno rotta di cabotaggio tra l'arcipelago “novista” e le secche della
conservazione. E qui, nella coerenza che consente all'antico militante una
prospettiva decisamente critica, è uno dei tratti
peculiari d’un lavoro di scavo che, cogliendo l'attualità dell'intreccio tra
vecchio e nuovo, s'insinua nelle pieghe d'una minacciosa e non superata
emergenza per misurarne la portata, ma, soprattutto, per ritrovarne le radici
profonde e nascoste. In questa luce si pongono non solo magistrali
"analisi parallele" di personalità contrapposte - De Gasperi e Togliatti sullo sfondo
della guerra fredda, Moro e Nenni al guado del centrosinistra, Berlinguer e Moro al "compromesso storico", per
citarne alcune - ma il tentativo tenace, lucido - e in gran parte riuscito -
di individuare i meccanismi di continuità del potere, il gioco delle forze che
- ora intrecciandosi, ora contrapponendosi - sono protagoniste della complessa
vicenda d'una repubblica costretta a fronteggiare ad un tempo i problemi, le
insufficienze e i nodi irrisolti ereditati dall'Italia liberale e fascista, e i
condizionamenti che l'evolversi della vicenda internazionale pone sul suo
cammino negli anni cruciali della “transizione e delle metamorfosi”.
Di
qui, una ricostruzione che, senza cedere alla tentazione di offrire univoche
chiavi di lettura, interroga e si interroga. Una
ricostruzione stimolante, un invito a recuperare, ma
soprattutto a salvaguardare, una memoria storica da più parti insidiata e per
più versi a rischio. Esemplari, in tal senso, talune scelte metodologiche: il
“racconto” del sessantotto, saldamente attestato tra la ricerca lucida e
puntuale degli “incunaboli del doppio Stato” e l'inquietante crisi del centrismo; la “stagione alta del sindacato”
strettamente correlata alla strage di Stato; i problemi della modernità che
gettano squarci di luce sui nodi d'una crisi che, all'inizio degli anni
settanta, si apre sul “coacervo di elaborazioni e prospettive strategiche avanzate da parti
diverse”, e trova Moro intento ad elaborare “faticosamente” l'idea d'una terza
fase della DC e Berlinguer che, di fronte ai gravi
problemi del paese e alle "minacce sempre incombenti di avventure reazionarie",
pensa ad un'alternativa democratica, ad una "intesa delle forze popolari
di ispirazione comunista e socialista con le forze popolari di ispirazione
cattolica oltre che [...] di altro orientamento
democratico". E se per un verso il "compromesso storico",
liberato da miti e deformazioni, ritrova la dignità dell'originaria
formulazione, per un altro fasci di luce squarciano l'ombra che avvolge il
rapido degenerare in quel "consociativismo"
agevolmente radicatosi in una società in cui l'insufficienza dei ceti dirigenti
si intreccia alla moderna economia della corruzione e
alla diffusa inclinazione al corporativismo. Il quadro è complesso.
Analizzandolo, ben più che liquidandolo nelle formule demonizzanti che detta la
moda, Santarelli ne ritrova le antiche radici, i forti nessi coi
limiti d'un processo riformatore "trascinatosi senza nerbo per almeno tre
lustri" e con la craxiana "governa-bilità
senza riforme". Una perniciosa "governabilità da condomino"
che, giunta a Tangentopoli, fa strada a pattuglie
d'eterni comprimari, a guitti, "velinari" e
patetici stuntmen in costume da Queimada.
E' la "rivoluzione all'italiana" che ciancia di seconda repubblica,
fa il processo allo Stato, ma non tocca il palazzo di pasoliniana
memoria.
Ancora
una volta tutto cambia perché nulla cambi? Probabile. Ma nella re-pubblica democratica fondata sul lavoro - ricorda
Santarelli - "la continuità dello stato non manca di contrapporsi alla
continuità del movimento che quella repubblica ha suscitato, in una lunga lotta
intessuta di conquiste e di ripiegamenti [...]. La cesura rimane"
e, tuttavia, cinquant'anni dopo "una resistenza
aspra e incompiuta, vale ancora e scava nel profondo il motto che Calamandrei aveva raccolto dalle labbra di
Alcide Cervi: Non c'è tempo da piangere. Bisogna continuare. Dopo un
raccolto ne viene un altro".
E' la
miglior risposta a quanti, in nome del mercato, il feticcio a cui tutto si
sacrifica, ben più che una "seconda repubblica", hanno in mente - per
dirla con Arfé - la barbarie d'un nuovo
totalitarismo, diverso da tutti gli altri del passato, ma che con essi ha in comune il tendenziale punto d'arrivo: disumanizzare l'uomo.
Giuseppe
Aragno