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fremiti pacifisti nella bufera mediorentale
Il grande rifiuto dei
riservisti israeliani
Nonostante le speranze suscitate alla fine di
febbraio dalle proposte saudite per una soluzione globale del conflitto
mediorientale, l'intransigenza di Ariel Sharon rende improbabile un
ritorno alla calma in Cisgiordania e Gaza. Mentre nei Territori occupati
infuria la repressione israeliana, aumenta il senso di frustrazione e di
abbandono dei palestinesi e si moltiplicano gli attentati suicidi contro i
civili nello stato ebraico. In questa situazione disperata, alcuni gruppi
contrari alla politica di Sharon cercano di far sentire la propria voce.
Tra questi, il più rilevante è senza dubbio quello dei riservisti
israeliani che hanno annunciato il loro rifiuto di prestare servizio nei
Territori. Sostenuti da un terzo della popolazione, questi refusnik hanno
contribuito a rilanciare il dibattito sul comportamento delle truppe di
occupazione.
di
JOSEPH ALGAZY * «Noi, ufficiali
e soldati riservisti membri di unità combattenti delle forze della difesa
di Israele, cresciuti secondo i principi del sionismo, del sacrificio e
della devozione al popolo e allo stato di Israele, noi che abbiamo sempre
operato sulla linea del fronte e che siamo stati i primi a compiere
qualsiasi missione, facile o improba, per difendere lo stato di Israele e
per rafforzarlo (...). Noi che abbiamo sentito come gli ordini che abbiamo
ricevuto nei Territori distruggono tutti i valori che ci sono stati
inculcati in questo paese. Noi che comprendiamo che il prezzo
dell'occupazione è la perdita del carattere umano di Tzahal [l'esercito di
Israele] e la corruzione morale di tutta la società israeliana. Noi che
sappiamo che i territori non sono Israele, e che alla fine tutte le
colonie dovranno essere evacuate (...). Noi non combatteremo più al di là
delle frontiere del 1967 per dominare, scacciare, affamare e umiliare un
intero popolo. Noi dichiariamo che continueremo a servire in Tzahal e a
compiere qualsiasi missione che servirà alla difesa dello stato di
Israele. Le missioni di occupazione e di repressione non servono a tale
fine - noi non vi parteciperemo più». «Il vessillo nero dell'illegalità»
Pubblicata per la prima volta come inserzione a pagamento sul quotidiano
Haaretz il 25 gennaio scorso, questa petizione, allora firmata da 52
ufficiali riservisti (1), si è estesa a
macchia d'olio. All'inizio di marzo aveva raccolto 313 firmatari. In
totale, dall'inizio dell'Intifada, nel settembre 2000, sono quasi 500 i
riservisti che si sono rifiutati di prestare servizio nei territori
occupati. E 46 riservisti o soldati obiettori sono finiti in carcere. A
questi bisogna aggiungere i 200 soldati convocati dai Comitati di
coscienza dell'esercito. Nel frattempo, il movimento del seruv (rifiuto)
ha provocato una scossa a tutti i livelli della società israeliana, a
cominciare dall'esercito, e ha scatenato un vasto dibattito addirittura
all'interno della Knesset, il Parlamento
israeliano. Sempre il 25 gennaio, il quotidiano
Yedioth Aharonot pubblicava le testimonianze di alcuni riservisti. Il
riservista Ariel Shatil, sottufficiale di artiglieria, raccontava come
aveva scoperto che alcuni soldati della sua unità facevano il tiro al
bersaglio su degli innocenti. Il sottotenente dei paracadutisti
David Zonshein aveva visto i suoi compagni impadronirsi con la forza di
alcune case e distruggerle. Il sottotenente di artiglieria
Ishal Sagi era stato inviato a difendere alcuni coloni che picchiavano i
palestinesi e davano fuoco alle automobili in Cisgiordania. Il
sottufficiale dei paracadutisti Shoki Sadé aveva inteso alcuni soldati del
suo battaglione raccontare con indifferenza come avevano ucciso un
ragazzino a Khan Younes. Sionisti impegnati, questi quattro veterani delle
guerre condotte da Israele in Libano sono pronti a fare il loro servizio
da riservisti, ma non nei Territori occupati in cui, come spiega il
giornale, «sentivano di perdere la loro umanità. Da allora, non sono più
disposti a tacere. Il loro scopo: creare un movimento di rifiuto popolare
che sia in grado di trasformare l'ordine delle priorità
nazionali». Nessuno o quasi, in Israele, era
tanto ingenuo da credere che l'esercito potesse soffocare la rivolta
palestinese senza commettere crimini di guerra. Perfino il ministro dei
trasporti, l'ex generale di brigata Ephraim Sneh, sei mesi dopo l'inizio
dell'Intifada aveva messo in guardia pubblicamente sui pericoli di una
escalation: «Sharon - aveva affermato - potrà andare al Tribunale
internazionale dell'Aja senza di me (2)», ma c'è voluto
molto tempo perché l'opinione pubblica si facesse un'idea più precisa
delle malefatte dell'esercito nella sua guerra contro i palestinesi,
malefatte che hanno toccato il culmine verso la metà del gennaio scorso,
con la distruzione di decine e decine di case di civili a Rafah, a sud
della striscia di Gaza. Le successive smentite dell'alto comando non hanno
convinto nessuno. Una settimana prima a Tel Aviv
c'era stato un convegno sul tema: «Hai preso la strada dell'Aja?» Ex
colonnello, ex pilota di guerra, prigioniero di guerra dopo che il suo
apparecchio era stato abbattuto in Egitto nell'agosto del 1970, durante la
«guerra di logoramento», il medico Igal Shohat alludeva alla sentenza
della Corte che aveva condannato alcuni responsabili del massacro di Kfar
Kassem (29 ottobre 1956) e legalizzato il rifiuto di obbedire a ordini
illegali. «Uccidere intenzionalmente i civili è un crimine di guerra»,
affermava. E chiamava i soldati a non prestare servizio nei territori
occupati, i piloti a rifiutare di bombardare le città e i conducenti di
bulldozer a non distruggere più le case - insomma invitava tutti a
disobbedire agli ordini «ammantati del vessillo nero della illegalità».
«C'è gente - aggiungeva - che non si accorge mai della presenza del
vessillo nero, neppure quando si assassina un arabo legato mani e piedi.
Vi sono altri che se ne accorgono soltanto quando diventano
vecchi. Come me. Quando ero un giovane
pilota, non andavo tanto per il sottile sulla scelta dei mezzi (3)». Nel fervore della polemica, il
generale Ami Ayalon, ex capo della marina militare e soprattutto ex capo
dei servizi di sicurezza, lo Shin Bet, rimase stupito del fatto che
«pochissimi soldati disobbediscono a ordini palesemente illegali. Quando
si uccidono bambini inermi, si esegue un ordine illegale (4)». È stata la
goccia che ha fatto traboccare il vaso, scatenando le ire
dell'establishment politico-militare, deciso a spezzare le reni al
movimento. Il generale Shaul Mofaz, capo di stato maggiore, ha avvertito
tutti i firmatari della petizione che sarebbero stati portati di fronte
alla corte marziale e puniti, se si fossero ostinati a rifiutare di
prestare servizio nei territori occupati. Il suo predecessore, il generale
Amnon Lipkin-Shahak, da parte sua ha definito tale rifiuto una breccia che
minaccerebbe di far crollare la «muraglia» dello Stato di Israele (5). Il movimento è iniziato in Israele
alla fine degli anni '70, allorché alcuni soldati rifiutarono,
individualmente, di prestare servizio nei Territori occupati, e
successivamente in Libano. Non potevano certo immaginare che i loro figli
si sarebbero trovati, anni dopo, in una situazione analoga. Nell'aprile
del 1970, durante la guerra di logoramento tra Israele e l'Egitto, un
gruppo di liceali, alla vigilia della loro mobilitazione, indirizzò una
lettera aperta al primo ministro Golda Meir, chiedendole di non respingere
una qualche possibilità di pace. Nell'estate del 1980, ventisette giovani
annunciarono al ministro della difesa Ezer Weizmann che rifiutavano di
prestare servizio nei territori occupati - e alcuni di loro furono
condannati a pene di carcere duro. Nell'estate del 1983 altri giovani
decisero di non andare in Libano e crearono l'associazione Yesh Gvul (C'è
un limite) che è attiva ancora oggi. Il primo a
incoraggiare gli obiettori di coscienza era stato il professore Yechayahu
Leibowitz (1903-1994), che nel lontano maggio 1969 mise in guardia Israele
dai pericoli dell'occupazione dei territori arabi e il dominio di
centinaia di migliaia di arabi. Per lui la Grande Israele non era altro
che un «mostro catastrofico» che avrebbe potuto «pervertire l'uomo
israeliano e annientare il popolo ebraico, avvelenando la sua educazione»
e «danneggiando la libertà di pensiero e di critica (6)». Anni dopo
assicurò: «Dico che quei giovani obiettori di coscienza sono veri eroi di
Israele perché rifiutano di obbedire al potere e al comando dell'esercito.
Cioè due istituzioni legali i cui ordini trasformano il carattere dello
Stato di Israele, che non è stato creato per dominare un altro popolo. Da
organismo politico dell'indipendenza nazionale del popolo ebraico, i
leader civili e militari vogliono trasformarlo nell'apparato repressivo di
un potere ebraico violento contro un altro popolo, al fine di imporre un
pugno ebraico, in un guanto di ferro americano, su tutti i territori al di
là della "Linea verde" (7)». Associazioni in lotta contro Sharon
Dall'inizio della repressione dell'attuale Intifada, Yesh Gvul ha
sostenuto i soldati che rifiutavano di prestare servizio nei territori
occupati nello stesso momento in cui, mentre il loro numero aumentava
costantemente, molti sono stati condannati a pene di carcere
duro. Ma l'associazione ha anche condotto
una campagna sul tema «La guerra per la difesa delle colonie ebraiche in
Cisgiordania e a Gaza e dei loro accoliti non è la nostra guerra» e ha
proposto ai soldati di firmare una petizione con cui dichiaravano di
rifiutarsi di partecipare alla repressione del popolo palestinese e di
prendere parte alle operazioni di vigilanza delle colonie ebraiche (8). Nel dicembre
2001, Yesh Gvul si è spinto ancora oltre, ricordando ai soldati che
«sparare su civili disarmati, bombardare quartieri abitati, partecipare
alle "esecuzioni mirate", distruggere case, privare di provviste, cibi e
cure mediche, distruggere imprese, vuol dire commettere altrettanti
crimini di guerra». E esortava i coscritti e i riservisti a rispondere:
«Io, no!»(9). Una nuova associazione - Profilo
nuovo per la società civile - ha divulgato fra l'altro una petizione di
alcuni giovani liceali, che hanno scritto al primo ministro, al ministro
della difesa e al capo di stato maggiore per condannare la politica
aggressiva e razzista del governo e dell'esercito e per annunciare che si
rifiutavano di partecipare alla repressione del popolo palestinese (10). Nel gennaio
2002, due dei firmatari sono finiti in un carcere
militare. Il rifiuto, come si vede, non è più
un fenomeno marginale. Non soltanto si è amplificato, ma si estende a
nuovi ambienti, coinvolgendo unità dell'esercito regolare, in particolare
quelle dei riservisti, e non solo i soldati semplici, ma anche gli
ufficiali. Al di là dei giovani di estrema sinistra, dei non sionisti e
dei pacifisti, il rifiuto si estende fra gli israeliani che si definiscono
sionisti e che, fino a tempi recenti, contribuivano al consenso nazionale
sul tema: «Right or Wrong, my Country». La vigorosa
crescita del movimento rispecchia un'evoluzione più generale dell'opinione
pubblica israeliana. Numerosi cittadini non vogliono più partecipare alle
violazioni commesse nei territori occupati. Altri, in linea
più generale, rifiutano la politica del governo attuale in tutti i
settori, anche in ambito economico e sociale. Alcuni provano paura e
angoscia di fronte sia alla resistenza armata dei palestinesi che agli
attentati suicidi terroristici contro i civili. Molti di coloro che l'anno
scorso hanno dato il proprio voto ad Ariel Sharon sono delusi del fatto
che quest'ultimo non abbia minimamente mantenuto la sua promessa di dare
al paese la pace e la sicurezza. Alcuni elettori laburisti considerano un
tradimento il fatto che alcuni leader del loro partito, partecipando al
governo, si facciano in qualche modo garanti dell'avventurismo di Sharon.
Altri se la prendono più in generale con il fallimento della sinistra, che
non ha saputo - o voluto - mobilitare l'opinione pubblica contro la
politica disastrosa del governo attuale come di quello precedente. Le
critiche non risparmiano certo i media che, in massima parte, assumono un
atteggiamento servile di fronte alle autorità, invece di garantire la loro
missione di onesta informazione dei cittadini (11). È questo il
vuoto politico che tenta di colmare un movimento contestatario, composto
sostanzialmente da associazioni di difesa dei diritti umani (come Medici
per i diritti dell'uomo, Rabbini per i diritti dell'uomo, il Comitato
contro la distruzione delle case, Betselem, il Centro d'informazione per i
diritti dell'uomo nei territori occupati, Gush Shalom) a cui si è aggiunto
un nuovo gruppo arabo-ebraico: Taa'yush, che in arabo vuol dire «vivere
insieme». Ponti di solidarietà Taa'yush è
nato dopo lo scoppio dell'Intifada al-Aqsa. Nel giro di pochi mesi, questa
Intifada è riuscita a mobilitare una nuova generazione di giovani
militanti per attività da svolgere sia in Israele che nei Territori
occupati. Segnati dai tragici eventi dell'ottobre del 2000, che videro
l'assassinio per mano della polizia israeliana di tredici cittadini arabi,
questi giovani avevano deplorato l'assenza di un gruppo d'azione militante
arabo-ebraico che sfidasse la politica di razzismo e di segregazione.
Nasce da qui l'obiettivo di Taa'yush: portare avanti azioni di massa non
violente, su base locale e su problemi concreti e creare in tal modo una
prassi politica alternativa arabo-ebraica. Intende porre fine alla
demonizzazione dei palestinesi e costruire ponti di solidarietà per il
presente e per il futuro. Secondo i componenti di Taa'yush,
per vincere la paura e il razzismo bisogna creare una solidarietà diretta,
una alleanza a livello di base. A tutt'oggi, l'associazione ha
organizzato otto convogli per portare viveri nei villaggi palestinesi
assediati. Composti di camion e di auto private, questi convogli sono
stati organizzati in coordinamento con militanti palestinesi locali. Non
sempre sono riusciti a passare indenni i blocchi stradali di Tsahal, che a
volte ha addirittura tentato di impedire loro con la forza - ma invano -
di raggiungere i partner palestinesi. L'estate scorsa, 400 militanti
dell'associazione avevano partecipato a un campo di lavoro misto di tre
giorni nel villaggio arabo-israeliano di Dar al-Hanoun, in cui avevano
riparato una strada e costruito un campo giochi per i bambini (12). Se, per mesi e mesi, il governo e
l'esercito israeliano hanno potuto infierire sui palestinesi dei territori
occupati senza incontrare una resistenza significativa nella società
israeliana, questa pagina nera sembra ormai appartenere al passato. Esiste
un movimento pacifista che si oppone sempre più decisamente a questa
politica avventurista. Ed è un movimento foriero di
speranze: con lui potrebbe finalmente spuntare, in fondo al tunnel, quel
barlume di luce che è necessario a Israele non meno che alla
Palestina.
note:
* Giornalista, Tel Aviv.
(1)
www.seruv.org.il. Per il testo completo della petizone in italiano si veda
il manifesto del 26 gennaio 2002. Per chi volesse sostenere i riservisti
israeliani il manifesto ha messo a disposizione un conto alla Banca
popolare etica: c/c 111200 intestato a Il manifesto coop. ed. ABI 05018
CAB 12100; causale: per i soldati che dicono «No» a Sharon.
(2)
Yediot Aharonot, Tel Aviv, 20 aprile 2001.
(3)
Haaretz, Tel Aviv, 18 gennaio 2002. Salvo indicazione contraria, tutte le
citazioni provengono da Haaretz.
(4)
Primo canale, 1° febbraio 2002.
(5)
Secondo canale, 2 febbraio 2002.
(6)
16 marzo 1969.
(7)Yechayahu Leibowitz, La
mauvaise conscience d'Israel, Entretiens avec Joseph Algazy, Le
Monde-Editions, Parigi, 1994.
(8)
1° dicembre 2000.
(9)
9 dicembre 2001.
(10) 6 settembre 2001.
(11) Le Monde, 10-11 febbraio
2002.
(12)
www.Taayush.tripod.com. (Traduzione di R. I.)
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