08.10.01

 

Lacrime e sangue

L'Afghanistan la pagherà cara, non il suo regime ma il suo popolo disgraziato. Non avremo misericordia, io credo che Bush sia stato più sincero nell'usare questa espressione che quando vanta la generosità americana. La giustizia infinita è in marcia e non si fermerà né in cielo né in mare né in terra. Bush ha anche detto che l'Afghanistan è il primo bersaglio di una guerra che ha un campo d'azione molto più vasto. Gli si può credere. E' sempre vero che le guerre si sa come cominciano ma non come e dove finiscono e questa volta è doppiamente vero. Colpito nella sua carne viva e nella sua superbia l'occidente non si fermerà fin quando non avrà mostrato al mondo tutta la sua forza e ristabilito il suo primato. Lasciateci riordinare questo mondo, non l'ha detto un baronetto di sua maestà imperiale ma Tony Blair. Quaranta paesi non si mobilitano per catturare un bandito o mille banditi per quanto micidiali e sanguinari siano. Non danno fuoco alle polveri rischiando di saltare in aria anche loro soltanto per saldare un conto ma perché si propongono di cambiare la storia e la geografia. Il presidente americano chiede di avere pazienza perché ci vorrà del tempo e piange i caduti di guerra americani che ancora non ci sono. Ma io non credo che i talebani siano così agguerriti e quel paese un nemico invincibile. Questa promessa di lacrime e sangue prelude a qualcos'altro. Vogliamo sperare che il vulcano si spenga prima del previsto ma intanto siamo sopraffatti da questo frastuono mortale che inaugura il secolo. Un secolo nuovo che è già vecchio e malato.

 

10.10.01

 

Atto primo
Togliamoci dalla testa che questa guerra sia come quelle che abbiamo conosciuto nell’ultimo mezzo secolo. Non è ancora la terza guerra mondiale che immaginavamo ma ne ha tutta la potenzialità catastrofica. La spirale terrorismo-guerra-terrorismo non lascia scampo. Anche nel 1939 era difficile capire che cosa stava succedendo e che non sarebbe stata una parentesi. Finché ci furono quaranta milioni di morti per poi ricominciare da capo. Possiamo per ora rallegrarci perché nel primo atto i morti saranno pochi e invisibili afgani e perché un’orda di affamati miserabili non è una novità. Un modesto pareggio di conti con la strage nei grattacieli e basta. Togliamocelo dalla testa. Il presidente americano ha già informato che attaccherà altri paesi e quello inglese vuole riordinare il mondo. Faranno anche da soli, la coalizione occidentale allargata a est è un supporto e la diplomazia una copertura. Le reazioni a catena nel medio-oriente e nel sud-est asiatico somiglieranno a un vulcano in perenne eruzione e questo scenario di guerra asimmetrica potrà durare quarant’anni come la guerra fredda. Non è un progetto ma un meccanismo in atto. La retorica micidiale della guerra e dei patriottismi ci assorda tra invocazioni al proprio dio e strategie da farmacia. L’obiettivo non è una pacificazione ma la vittoria. La vittoria non ha prezzo e non conosce limiti. Spetta ai più forti e noi lo siamo. L’odio si sommerà all’odio e devasterà gli animi più che le armi i corpi. Che futuro è? Un futuro senza futuro. Il terrore e la guerra non più come escrescenza ma come normalità. Mi scuso per non aver previsto il crollo di quelle torri e che la terza guerra mondiale sarebbe scoppiata in nuove forme nel 2001 invece che nel 2010. Ero un ottimista. Però ho scritto per anni della malattia mortale che grava sull’umanità in questo mondo dissestato e diseguale. Ero un pessimista. Tragedia e frivolezza convivono nei media e nella vita pubblica. Siamo lontani da una presa di coscienza di quel che accade, senza la quale non c’è speranza. Vorrei vedere mezza Italia concorde ad Assisi. Vorrei vedere le civiltà superiori e l’Onu fondare in tre mesi uno stato palestinese come hanno fondato uno stato israeliano. Non accadrà. Ma senza una presa di coscienza tempestiva e universale il futuro non ha futuro. Lo dico e non mi scuserò in avvenire per averlo detto e ripetuto.

 

20.10.01

 

Quo vadis?

Forse gli anglo-americani continueranno a bombardare per due o tre mesi l'Afganistan, facendo molte vittime che però contano poco, e poi entreranno a Kabul e insedieranno un governo amico. I profughi non moriranno di freddo e fame e bin Laden sarà preso vivo o morto o fuggirà sconfitto. Se così finisse la guerra mi starebbe anche bene. Ma un esito così semplice e lineare non mi sembra in vista, per quel poco che le farneticazioni ufficiali lasciano capire. La guerra terrestre non si fa con i volantini, i profughi non si salvano con le bombe e la vegetina, e se bin Laden è un genio del male non sarà catturato da un commando. Forse il carbonchio è solo un falso allarme o una montatura e il panico cesserà come la mucca pazza. O forse è l'opera di un altro genio del male e allora bisognerebbe capire come si può contrastarla seriamente da qui all'eternità. Con una taglia da due miliardi sui postini o con i vaccini della Bayer o bombardando l'Iran e incendiando tutta la regione? Non è la stessa cosa. Sto solo cercando di dire che la condotta di questa guerra e gli sbocchi che vengono o non vengono prospettati non sono convincenti. Non solo per noi ovviamente ma anche per i meglio disposti. Nella seconda guerra mondiale i sudditi combattenti non dubitavano dei propri governanti. Oggi non so se l'occidente extramericano o anche americano si senta in buone mani e abbia fiducia nel futuro nonostante i sondaggi. Bush, Putin e Iang Zeming sono un trio da brivido, ma anche fossero Roosevelt, Churcill e Stalin non riuscirebbero mai a imbottigliare il subbuglio di questo mondo in una Yalta. La guerra che ci dicono durerà almeno due anni è già entrata in forme nuove nelle case, nei bazar, nelle trattorie e nelle banche. Non ci mancherà la farina bianca o il riscaldamento, soprattutto se avremo il gasdotto afghano e se Sharon non rifarà la guerra dei sei giorni. Ma continueremo a vivere su un vulcano acceso e non so se ci abitueremo, anche se il nostro spirito di adattamento surclassa di gran lunga quello dei dinosauri. Abbiamo come nostri nemici e alleati del terrore la nostra stessa tecnologia e i suoi mostri. Non solo i Boeing ma i laboratori di Frankestein e la scienza imparata a Oxford, non solo i ventilatori ma le televisioni che ci mostrano o non ci mostrano cose mai viste e ci inalano ogni genere di peste. Al di là di ogni analisi e valutazione politica, la sensazione è quella di un impazzimento suicida, la vecchia favola dell'apprendista stregone che non controlla più le sue creature. Solo un dio può salvarci è una frase celebre che non vale più perché gli dei si combattono fra loro. A chi ci appelliamo, a un'Europa che ha di unico solo la moneta, al balbettio di una sinistra ufficiale paragovernativa, alla retorica patriottica presidenziale che neppure quando eravamo ragazzi, alla sfilata di Berlusconi e Ferrara a stelle e strisce? Perfino il papa, se l'avete notato, non ha più parole.

 

23.10.01

 

Cessate il fuoco

Perché ci odiano tanto? Quella bambina americana che rivolse al mondo questa domanda dopo la strage delle due torri forse oggi troverebbe una risposta se ricevesse una cartolina da un bambino di Kabul o di Betlemme. Possiamo continuare a raccontare e a raccontarci tutte le bugie che vogliamo ma non ci troviamo di fronte a un’operazione militare di legittima difesa. Quella in corso è una guerra di ritorsione che spiana al suolo case di fango e farà presto altri seimila miserabili morti. Un miliardo di dollari della Cia e la licenza di uccidere non puniranno bin Laden che di quella licenza ha già usufruito e sa di che si tratta. Ma un miliardo di bombe cieche basteranno invece a ingigantire l’odio, la paura e il dolore. Nella vicina terra santa la morte quotidiana colpisce di preferenza bambini e donne anche se non portano il chador, l’autorità palestinese è assimilata al terrorismo e quel popolo rischia la sorte che la storia ha riservato agli ebrei. Non è una delle tante astuzie della storia ma una delle sue tante follie.
No, questa guerra non merita la comprensione che Aldo Moro espresse a malincuore quando il napalm devastava il Vietnam. Il suo sbocco non è la democrazia esportata sia pure sui carri armati, la libertà duratura e prospera per l’occidente, la pax americana. Il suo sbocco non si vede perché non c’è.
Il suo sbocco è una guerra perpetua (tank invece di kant). Ma li avete visti e si sono visti, i potenti della terra in divisa cinese? Anche quella fotografia è una risposta alla bambina americana, a cui chiedono un dollaro per il fratellino afghano. Amici molto sinceri dell’America, com’eravamo da ragazzi anche noi, scrivono da quel paese che la gente non è sicura e ricorre ai cosmetici. Ci credo. Chiudono il parlamento per una disinfestazione ma l’intelligence non sa se sia colpa di un postino iracheno o di un antiabortista locale. No, la solidarietà per le vittime americane è stata e resta un sentimento comune. Ma non c’entra più nulla con lo spirito di questa guerra e i suoi funesti esiti presenti e futuri. Cessate il fuoco, anche se l’Onu non lo dice: è questo oggi il sentimento comune da rispettare, senza attendere che sia l’inverno a spegnere l’inferno.

 

27.10.01

 

Domande

Da quando è cominciata questa guerra mi sforzo di leggere con più attenzione i giornali che la sostengono e che si identificano con gli americani che la combattono e la guidano. Spero di ricavarne dei lumi, lo dico senza ironia, perché dovrebbero avere più informazioni e i migliori argomenti per convincere l'opinione pubblica che siamo sulla strada giusta. Ma, di nuovo senza ironia, mi deludono. Ieri hanno registrato tranquillamente che forse bin Laden non verrà mai catturato né vivo né morto. Ma siccome era questo uno degli obiettivi della guerra, anzi il principale nell'immaginario collettivo, speravo che mi spiegassero cosa significa questa bizzarra dichiarazione di quel ministro americano. Come si fa a sconfiggere il terrorismo senza decapitarlo? Il Pentagono ha indetto un pubblico concorso per avere risposte a questa domanda e i giornali hanno registrato anche quest'altra bizzarria senza fare una piega. Dunque Bush e la Cia non sanno bene cosa fare e questo può non sorprendere me, che ricordo l'elezione di quel presidente e che della Cia non ho mai avuto stima. Ma i giornali che sostengono e giustificano la guerra non sono preoccupati? Continueremo con i bombardamenti anche negli ospizi e anche durante il ramadan e con l'inverno i profughi moriranno di freddo oltreché di fame, questa è l'unica certezza che ricavo leggendo i giornali. E' dunque una guerra contro la popolazione civile per demoralizzarla e sconfiggere di conseguenza il regime talebano insediando chi a Kabul? Ignorante come sono di strategia e tattica a me sembra un'idea infantile oltre che feroce. Le montagne e le trincee afghane mi ricordano maledettamente le paludi vietnamite e mi par strano che questo sospetto non sfiori i nostri esperti commentatori. Non temiamo di seminare nuovo odio più che demoralizzazione? E' molto pericoloso, continuare a dire che questa guerra sarà lunga (giustizia infinita) senza farne intravedere un esito vittorioso o un esito comunque. Questo sì può essere demoralizzante, non per il nemico però ma per noi e per gli americani, anche ammesso che il carbonchio resti nei limiti. Non temiamo che l'amministrazione americana, per uscire da questo vicolo cieco, faccia di peggio e varchi ogni limite come ha già fatto Sharon? Non ci preoccupa che non ci sia un'idea, un progetto politico per il futuro, ci fidiamo della solidarietà di Putin e dei campioni cinesi dei diritti umani? Quale libertà duratura intravediamo e per chi? Se non volete saperne di cessare il fuoco e di cercare altre strade e vi pare necessario e sufficiente sfilare con le bandiere americane fatelo. Ma forse gli amici americani non hanno bisogno di incoraggiamento quanto di saggi consigli. Dategliene qualcuno, voi che avete ascoltato, partecipate al questionario del Pentagono.

 

Repubblica – 5.11.01

 

PINTOR: Cara Sinistra mia come sei caduta in basso

Esce "Politicamente scorretto"  -  NELLO AJELLO

 

Gli editoriali politici che Luigi Pintor scrive da trent'anni sul Manifesto sono, spesso, ironici fino al surreale. Somigliano ad epigrammi, a parabole laiche. Emanano una luce amara. Parlano fuori dai denti. Ma con distacco e raffinatezza. Un libro, che s'intitola Politicamente scorretto e che esce in questi giorni da Bollati Boringhieri (pagg. 294, lire 24.000), di questi editoriali ne raccoglie quasi duecento. Pintor li ha pubblicati sul quotidiano, dall'aprile 1996 al maggio di quest'anno. Si tratta dunque, come specifica il sottotitolo, di “cronache di un quinquennio”, corrispondente alla scorsa legislatura parlamentare: quella che ha visto al potere il centrosinistra e si è conclusa con il trionfo di Berlusconi. E', in una parola, il nostro ieri immediato. Qui gli umori e i furori dettati all'autore, giorno per giorno, dal calendario politico compongono un insieme unitario, come una vicenda a suo modo conclusa. La diagnosi degli eventi e la critica dei personaggi s'intrecciano in queste pagine. Ne fanno un racconto. Capita di rado alle raccolte di articoli; ma che Pintor sia ‘‘anche'' un narratore lo testimoniano altri suoi libri, da Servabo (1991) al recente Il nespolo. Pintor, il tuo ultimo libro sembra suggerire una morale: in politica, non sempre la furberia “paga”. A volte, può produrre una catastrofe. E' il caso della sinistra di casa nostra? “E' quello, infatti, il caso. L'atteggiamento della sinistra è stato sfacciatamente finalizzato ad ottenere un consenso qualsiasi. Ci si è domandati: che cosa vuole la gente? Come possiamo accontentarla? E' un modo servile di ragionare e di comportarsi. Opportunistico, si sarebbe detto un tempo”. “Politicamente scorretto è una requisitoria contro la sinistra. Di Berlusconi si dice, ovviamente, tutto il male. Ma il vero bersaglio è Massimo D'Alema. Non gli lesini gli epiteti. La “volpe di Gallipoli”. La “mosca cocchiera”. Il “venditore di tappeti”. Il “leader di se stesso”. Alla vigilia della sconfitta, prorompi in un'esclamazione: “Grazie Massimo”. Che cosa ha fatto di catastrofico? Che cosa poteva fare di diverso? “Ha scimmiottato l'avversario. Ha dimenticato, cancellato e vilipeso quei valori che sono costanti della sinistra, indipendentemente dalle circostanze in cui essa opera”. Per esempio?
“Il punto di vista delle classi subalterne. L'antagonismo sociale. La distinzione fra le funzioni di governo e le richieste del corpo sociale. Il discrimine che deve esistere fra una lobby di potere e un partito popolare. Nei cinque anni di cui stiamo parlando, la sinistra s'è invischiata in un inciucio istituzionale. Illusorio, per giunta. Partiamo dall'episodio maggiore: la Bicamerale. Si è dato prova, in quella sede, di una furberia confinante con l'insensatezza. Il furbo vero è colui che si sforza d'essere più furbo del suo antagonista. Quella volta non è stato così, e ne paghiamo ancora i danni”. Discende tutto, a tuo giudizio, da quell'errore? “Non tutto. Molto. Certe abitudini sono state contratte allora. Viviamo, per riferirci all'oggi, in un inerte attesismo governativo. Ci si limita a sperare, invano, in qualche errore dell'avversario. Si vive nell'attesa di tornare al comando, possibilmente attraverso un intreccio consociativo. E senza strumenti efficaci a disposizione. Il maggior partito della sinistra è ormai un organismo postcraxiano. Arretrato. Impresentabile. Dopo la sconfitta, non ha saputo né avviare una riflessione, né promuovere un ricambio degli uomini. Direi che c'è dell'immoralità in questo riproporsi dello stesso personale politico”. Certi atteggiamenti di D'Alema sembrano dettati da una diagnosi pessimistica: come chi sappia di muoversi in un paese dominato da pulsioni conservatrici, sordo alle questioni di principio. Non ti pare, questa, un'attenuante rispetto a certi cedimenti? “Che sia un'attenuante, non direi. Il suo compito sarebbe, semmai, cogliere e valorizzare ciò che, nel Paese, si oppone a quel conservatorismo diffuso. La resa non è, comunque, una soluzione. Andare contro corrente è quasi sempre il mestiere della sinistra. In altri tempi, e in circostanze assai diverse, per andare contro corrente si finiva in carcere. Ripeto, non è il caso di oggi. Ma oggi si approfitta delle difficoltà per facilitare il compito agli avversari”. Nella scala dei demeriti, subito dopo D'Alema ecco spuntare Violante. Gli attribuisci, a proposito della sua quasi assoluzione dei “ragazzi di Salò”, una “goethiana "affinità elettiva" con una parte invece che con un'altra”. Gli attribuisci addirittura qualche simpatia per la destra? “No. Violante non è una persona volgare. Ma qualche suo atto o dichiarazione si fa fatica a capirli. Per esempio, perché gratificare in quel modo i discendenti di Salò, i quali hanno già ottenuto un premio assai consistente andando al governo? Sarebbero da risarcire, semmai, quelli dell'altra parte, gli antifascisti, i partigiani e i loro eredi”. E Prodi? Uno dei rimproveri più severi che muovi a D'Alema è di aver lasciato languire e poi morire il governo Prodi. Quel governo, tu sembri rimpiangerlo. “Rimpiangerlo, no. Devo, però, riconoscere che allora c'era una speranza. Quel governo nasceva da un voto. C'era stata un'investitura. Si poteva pensare che l'esecutivo di Prodi avesse alle spalle una sinistra più unita. Albeggiava l'idea di un riformismo possibile. Poi, dopo l'ingresso in Europa, tutto si è svuotato. L'avvento al potere, in prima persona, della sinistra è stato il coronamento del peggio che si preannunziava”. In cinque anni di editoriali hai fatto spesso delle profezie. Alcune - riassumiamole, per brevità, nella privatizzazione dell'Italia che sarebbe seguita alla vittoria di Berlusconi, e nei "mali di pancia" della sinistra - sono azzeccate. Un vaticinio disatteso dai fatti riguarda invece Veltroni sindaco di Roma. Giusto un anno fa, definivi la sua candidatura “funeraria, catacombale, tombale”. Perché? “Esprimevo con quelle parole il disagio, l'indignazione di fronte a uno spettacolo inaudito: alla vigilia di una battaglia elettorale nazionale, il segretario del principale partito della sinistra fa le valigie. Parte. Come un Capo di stato maggiore che, in vista della battaglia campale, vada a rifugiarsi negli ozi di Capri. Era il segno di una smobilitazione. La truppa ne fu scoraggiata”.
“Poteva andare peggio”, hai commentato all'indomani del 13 giugno. Oggi ripeteresti quel giudizio?
“Ogni tanto mi prende uno strano impulso anticatastrofico. Spero nell'avvento delle nuove generazioni. Accade anche nella vita privata: qualche volta gli eredi correggono in maniera insperata i disastri compiuti dai genitori. Il degrado attuale è grave al punto che sembra impossibile non produca degli anticorpi. L'Apocalisse può essere una spinta a rigenerarsi”. Nel tuo libro si riprova nettamente l'intervento italiano nel conflitto del Kosovo, definito una “guerra terroristica”. Applicheresti quell'etichetta alla guerra attuale? Il terrorismo non è mica partito dagli Stati Uniti. “Il terrorismo è partito da Bin Laden. Ma può essere sconfitto soltanto da una revisione delle politiche occidentali. Non addentriamoci, qui, in discorsi generali: l'oceano di disuguaglianze sul quale galleggia il terrorismo. Ma è difficile tacere sulle responsabilità dell'America in merito a ciò che le è capitato. Da molti anni i gruppi dirigenti di quel paese, le sue strutture civili, i suoi servizi d' "intelligence'' si sono rivelati assai diversi dal mito americano, così come lo costruiva il nostro immaginario. Dovrebbero essere proprio gli amici americani - "l'altra faccia dell'America'', come si diceva un tempo - a capirlo. E ad esigere che si cambi strada. Occorre togliere al terrorismo le sue ragioni. Lavorare, per esempio, a una soluzione ragionevole per il Medio Oriente. Utopia? L'alternativa è battersi all'infinito contro fantasmi introvabili”.
Parlando del Manifesto, a un certo punto dici: lavoriamo “dietro l'ottimismo della volontà e sotto la maschera dell'ironia”. Dietro questa maschera ti si scorge, leggendoti. Ma quell'ottimismo della volontà lo senti davvero? “Sono un po' stanco. Un po' vecchio. Preferirei starmene sotto il nespolo, come ho scritto. Ma per deformazione professionale eccomi qui, al giornale. Servabo. Continuo a servire. Mi mantengo fedele”.

 

10.11.01

 

Uno su due

Il sequestro e l'assassinio di Aldo Moro fu un'impresa di geometrica potenza. Ma i suoi esecutori erano debolissimi e sono usciti di scena senza lasciar traccia. La strage delle due torri resterà nella storia come un evento unico. Ma io non credo che chi l'ha compiuta sia in grado di replicarla, non credo che esista una struttura terroristica capace di tenere in scacco il mondo. Non sto mettendo ridicolmente in parallelo cose imparagonabili tra loro. E neppure mi sogno di sottovalutare il terrorismo che continuerà a incombere come un'arma impropria (una guerra povera) duratura e ricorrente. Voglio solo dire (è un'opinione) che non assumerà necessariamente le proporzioni che molti paventano in buona fede ma altri agitano strumentalmente (cos'è l'antrace: una seconda ondata o una montatura?) Il rischio mortale che corre l'occidente è di altra natura, è il rischio di sollevare contro di sé la disperazione e la collera di grandi masse umane nel resto del mondo e anche nel cuore della sua superiore civiltà. Questo pericolo non può essere sventato in termini militari, sarebbe come erigere dighe e fortini costieri contro un oceano che straripa per lo scongelamento del polo nord. La via della guerra per riaffermare la supremazia globale dell'occidente ingigantisce questo pericolo. Se il dittatore pakistano implora gli alleati occidentali di fermare i bombardamenti per il ramadan ha le sue buone ragioni, chiede semplicemente di non sollevare i marosi oltre la soglia di sicurezza. Se invece la guerra continuerà e crescerà su se stessa, travolgendo la debole trama della coalizione politica che la sostiene, allora anche la sua controfaccia terroristica si gonfierà secondo le più fosche previsioni. Bisogna essere veramente incoscienti per decidere in questo momento, mentre siamo su questo crinale, di buttarsi in mare con mani e piedi legati e occhi bendati. Questa decisione avventurista dell'Italietta di Berlusconi e D'Alema può costare ben altro che 2500 miliardi. Forse i nostri governanti pensano astutamente di restare imboscati nelle retrovie ma forse no, c'è sempre chi pensa che un prezzo di sangue può essere conveniente. Quanto agli altri che si sono inchinati con reverenza non si rialzeranno più. Dico gli altri perché non hanno più nome, non sono opposizione o sinistra o centro, non sono un'entità politica riconoscibile.
L'opposizione è affidata a minoranze politiche ristrette ma anche alla coscienza pubblica nella quale crediamo. Un italiano su due, metà del paese, ha già detto di no e lo sapevamo senza bisogno di un sondaggio. E l'altra metà avrà di che ripensarci.

 

06.12.01

 

La guerra vinta

Gli Stati uniti d'America e la coalizione mondiale alleata hanno vinto in tre mesi la guerra contro l'Afghanistan e il suo regime. Il futuro di questo paese coloniale e le vittime civili della guerra hanno una importanza secondaria. Il senso comune occidentale e anche quello locale dice che la guerra è stata opportuna e vittoriosa. Manca la cattura di bin Laden, che però non è più rappresentato come il male assoluto ma come un topo in una trappola che verrà presto derattizzata. La sua organizzazione non è più uno spettro che incombe sul mondo ma una mafia schedata dalla polizia. Se morirà non sarà un martire per nessuno. La guerra potrebbe finire qui, come regalo di Natale. Invece continuerà imprevedibilmente per instaurare una libertà duratura in un nuovo ordine mondiale. Agli Stati uniti d'America, feriti nell'orgoglio ma neppure scalfiti nella potenza, è stata offerta l'occasione storica di riaffermare il loro primato su scala planetaria. Non se la faranno sfuggire. La carta geografica, il mappamondo, deve oggi apparirgli come una grande scacchiera dove ogni casella deve essere controllata dalle torri, dagli alfieri, dai pedoni dell'unico campione vivente. A cominciare dalla casella medio-orientale, naturalmente. Tutto il mondo arabo è sotto scacco, dopo la vittoria afghana, e la sua prossima mossa già annunciata (la guerra alla Somalia, all'Iraq) sarà una passeggiata. E' quello che sta accadendo in Palestina. Non credo che gli Stati uniti vogliano trattenere Israele dal fare terra bruciata e non credo che Israele si proponga di negoziare a nessuna condizione. Non rinuncerà a nessun insediamento e semmai li estenderà, come sempre fanno i vincitori. Fa la guerra al terrorismo, non al popolo palestinese, dunque ha ragione. E non temono che l'incendio divampi, perché hanno di fronte plebi disarmate e satrapie corrotte e perché già la guerra generalizzata in quell'area le ha garantito nuovi confini e supremazia indiscussa. Ci abitueremo, siamo già abituati, a convivere con questo scenario. Un senso di forza prevale sul senso di paura. Paghiamo un prezzo modesto. L'indice Nasdaq è molto più forte di al Qaeda, un dollaro vale trentaseimila afghani intesi come moneta, spenderemo per le feste mille miliardi (cinquecento milioni di euro) più del solito, le due torri sono un incubo lontano e la vittoria è sotto i nostri occhi.
La nostra civiltà non crollerà sotto l'assalto di orde barbariche, la sproporzione delle forze non ha precedenti nella storia. A parte una catastrofe naturale, cederà solo e forse dal suo interno perché è mal costruita, se e quando non piacerà più a noi stessi.

 

5.1.02

 

Meno di nulla

Sono 107, sono 32, sono 52, quei disgraziati afghani macellati dalle bombe americane? A Tora Bora o in un villaggio a sud-est? E' accaduto ieri come mi ha detto un televideo in un bar o alla vigilia di Capodanno come mi dicono qui al giornale? Non ha nessuna importanza. I giornali non avranno queste schifezze in prima pagina o useranno il condizionale. Il Pentagono non smentirà né confermerà e continuerà a bombardare come e chi gli pare finché lo riterrà necessario. L'Onu indaga. Il tribunale dell'Aia è chiuso. Questi non sono crimini di guerra, fuori dalle convenzioni internazionali e contro i diritti umani. Sono piccoli massacri, piccoli omicidi, tanto meglio se riguardano vecchi e bambini che essendo afghani non hanno età e non sono civili ma terroristi e soprattutto straccioni. Gli americani amano la pena di morte a casa loro figuriamoci contro i barbari. E noi siamo tutti americani, l'abbiamo detto chiaro e forte e ci va tutto bene. Usiamo la stessa moneta, in questo campo, abbiamo la stessa civiltà anche se l'euro non è forte come il dollaro e benefico come le bombe da sette tonnellate. Ci sono tre righe, in un diario di un mio antenato, che dicono (1940): i tedeschi hanno distrutto un altro villaggio in Boemia, non capisco come agiscono. Cosa c'entra? Nulla, però mi è tornato alla mente quando ho visto quel televideo sui 107, 32, 52 afghani fatti a pezzi. Come agivano i tedeschi? Come nazisti. Come agiscono i bombardieri americani? Come nazisti può sembrare improprio, come terroristi anche. Diciamo come macellai. Perché ci odiano tanto? Può darsi che una bambina americana si sia posta questa domanda dopo la strage delle due torri. Ma doveva essere proprio una bambina, perché tanta innocenza non si addice alla Casa Bianca. La quale non si pone affatto il problema di essere odiata o amata, civile o barbara, ma solo temuta. E ci riesce senza ritegni, senza scusarsi. Lo stillicidio di morti incolpevoli, come in Palestina, non è un effetto collaterale ma una strategia. Questi delitti resteranno impuniti e anzi premiano chi li commette. Non è vero che il sangue delle vittime ricade sulla testa dei carnefici. Ricade solo sulle vittime, quelle dei grattacieli e quelle delle spelonche. Mi ripugna scriverne. E mi ripugna che George W. Bush vada in giro con un cagnetto sotto il braccio chiedendo a un bambino americano di dare un dollaro a un bambino afghano.

 

13.01.02

 

PRIGIONIERI Out of standard

Lo "sprezzo della vita" è una formula militare molto frequente per designare un eroe caduto che merita la medaglia d'oro al valore. Si dice che i combattenti o i terroristi musulmani abbiano appunto il vantaggio di andare gioiosamente incontro alla morte. Ma allora come gli è venuto in mente, a quegli afghani e arabi finiti prigionieri, di preferire le "tiger cage" di Guantanamo al paradiso di Allah? Forse sono veramente attaccati alla vita come noi, secondo natura. Forse speravano nella clemenza dell'uomo bianco civilizzato o nelle convenzioni di Ginevra o nell'intercessione della Croce rossa. Passeranno il resto della vita a pentirsene. Sono "bad people", gente cattiva, e saranno trattati come il comandante di Guantanamo Bay dice di non augurare a nessuno. Saranno processati segretamente e presto dimenticati. A meno che non tentino una rivolta che finisca come a Mazar-i-Sharif. Ma è improbabile, se l'esercito americano ha deciso di fare prigionieri (detenuti) ci deve essere una ragione magari simbolica. Duemila "bad people" in "tiger cage" già sperimentate in Vietnam e oggi trasferite sulla costa cubana sono un simbolo. L'incappucciamento del nemico è però un'innovazione assoluta. Il trasferimento in catene va da sé, la droga (sedativo) è già un gradino sopra, ma l'incappucciamento come pratica militare è inedito. Sa di mafia, di rapina in banca, di Ku Klux Klan, ma è "fuori standard" anche rispetto ai lager più famosi, come precisa Amnesty. Cos'è che i detenuti non devono vedere dal finestrino degli aerei cisterna? I grattacieli dell'Avana? E come sono i cappucci, di plastica o di stoffa come i burqa delle donne afghane liberate? Che belle parole impariamo e che concetti elevati, nella lotta ai tagliagola per un mondo migliore e una libertà duratura. E che lingua concisa e tagliente è l'inglese. Gente cattiva, stati canaglia, gabbie per tigri. Come si traduce, sotto la bandiera americana che sventola sulla torre della Cayenna cubana, il verbo incaprettare? Tutto questo non è sorprendente, i vincitori hanno sempre infierito sui vinti. E' la disinvoltura con cui ci vengono raccontate queste cose che ancora mi sconcerta. Perché le due torri abbattute di Manhattan ci commuovono più delle trenta case palestinesi rase al suolo? E' perché contiamo le vittime o perché le torri sono alte e le case basse?

 

27.09.02

 

Formiche e cicale
Chi era Luigi Einaudi? Un economista stimato che fu anche un presidente della Repubblica discutibile, il quale mi pare sostenesse che bisogna risparmiare e che il risparmio, il piccolo risparmio in specie, è la molla dell'economia. Magari perché i governi e le banche lo rastrellavano e lo reinvestivano felicemente per il bene comune. Chi è Silvio Berlusconi? Un economista stimato soprattutto per quel che riguarda gli affari suoi, che è anche un presidente del consiglio discutibile e speriamo non sia mai un presidente della Repubblica discutibile, il quale sostiene che non bisogna risparmiare bensì spendere e consumare, essendo il consumo la molla dell'economia in quanto la domanda sostiene l'offerta e viceversa ed entrambe congiurano al bene comune. Vorrei che gli esperti di macro e micro economia mi spiegassero questo divario di opinioni, magari Galapagos, o un altro premio Nobel, il prof. Modigliani o il governatore Fazio, o il signor Schumpeter che però forse non è più in vita. Certo il mondo è in rapidissima evoluzione, gli spiriti animali del capitalismo non hanno requie, come si vede anche dall'andamento delle borse, perfino Carlo Marx si troverebbe in serio imbarazzo. Anche la matematica è un'opinione, del resto, figuriamoci l'economia. Ma che cosa vorrà mai dire, non risparmiate ma spendete e consumate? Capisco che venga detto da un mercante in fiera, in un suq, a porta portese, da un venditore di almanacchi, da un petroliere che si guadagna da vivere. Ma cosa devo comprare e perché? E tu cosa mi vendi e perché? Devo comprare un pedalino al giorno, un'automobile di cilindrata superiore, la quinta casa? Devo fare indigestione di caviale? Così pare. Quando sono crollate le due torri la preoccupazione principale è stata che lo shopping continuasse con maggior lena di prima anche tra le macerie per tenere alto il morale, ossia i consumi e la produzione, ovvero la produzione e i consumi, questa fantastica macchina autopropulsiva che se si ferma tutto è perduto. Dove va nessuno lo sa, salvo i bidoni della spazzatura. Non mi persuade. Essendo di poco appetito, quando ceno in una trattoria spreco una quantità di cibo che moltiplicata per alcuni milioni di commensali abituali basterebbe a una generazione. Non c'è dubbio che ognuno ha diritto alla felicità e che questo spreco glorioso, questa libertà duratura dal bisogno e dalla nausea, appaga esercenti, clienti, agricoltori, gastroenterologi e molta umanità. E se giova all'economia non può essere considerato immorale, perché l'homo è sapiens in quanto faber ed oeconomicus. Però non è tanto bello, non funziona già tanto bene e non si sa come andrà a finire. A occhio e croce, preferisco la parsimonia di Luigi Einaudi alla crapula di Silvio Berlusconi anche perché il primo non faceva un'orrenda televisione ma un buon vino. Ma è inutile scegliere, il difetto è nel manico. Un direttore del giornale dove lavoravo da ragazzo scrisse un articolo che finiva così: è pur bello essere comunista! Sbagliato, non è così chiaro. Ma quant'è brutto essere capitalista.

 

29.10.02

 

Uomini e topi
F orse ho sbagliato nel commentare a caldo la tragedia di Mosca e mi è rimasto in bocca un sapore amaro. Ho parlato d'altro, dello scenario mondiale di cui quella tragedia è un aspetto. Ma per guardare la foresta in modo “politicamente corretto” non ho visto l'albero nel suo orrore come ora lo vedo. L'uomo di nome Putin, che ne avrà avuto un altro nei codici della polizia segreta, non doveva chiedere scusa ai suoi sudditi perché non li ha salvati tutti ma perché non li ha ammazzati tutti. Qualcosa non ha funzionato nella gassazione mortale, concepita e attuata in un modo che non poteva e non doveva selezionare le vittime. Meglio tutti morti, colpevoli e innocenti, che un nemico vivo. Nessuno può mettermi in ginocchio, questo è stato il messaggio. Kaputt, in tedesco. Da oggi le armi chimiche o batteriologiche o quali che siano non sono più una risorsa eventuale del terrorismo ma uno strumentario in dotazione dei servizi di stato e un loro vanto. Non lacrimogeni all'aperto ma gas mortali in luogo chiuso, con iniezioni letali come variante del colpo supplementare alla nuca. Se un governo usa questo metodo contro i suoi nemici, incuriosendo la scienza e le televisioni, sarà da oggi più facile che si invertano le parti e più difficile scandalizzarsene. Ah, ma quegli ostaggi non erano destinati a morire tutti e comunque per mano di spietati carnefici? Forse, io non lo so, nessuno lo sa, quei carnefici sono morti come rapinatori inesperti. Quello che invece ora si sa per certo, quello che è accaduto realmente, è che un capo di stato ha fatto in anticipo il lavoro dei terroristi in formato neanche tanto ridotto. Quello che si sa è che un teatro affollato di una capitale europea è stato disinfestato da una ditta specializzata in materia. I topi non impietosiscono. Non c'erano, nell'operazione predisposta con tanta cura, le salmerie del caso, ambulanze e infermerie, antidoti e soccorsi, ospedali allertati. Lo ripeto, l'uomo del Kgb dovrebbe scusarsi con se stesso per l'opera incompiuta, chiedere spiegazioni ai servizi speciali che hanno lasciato in vita testimoni scomodi, e ora affrettarsi a ridurre la Cecenia a una popolazione di vedove per pareggiare il conto. Dice l'ipocrita: ma che altro poteva e potrebbe fare? Mille altre cose dovrebbe saper fare, uno che non gestisce una macelleria ma governa un paese, anche dichiararsi inetto. Ma l'ipocrita incalza: è però un uomo forte. Non abbastanza da evitare che un gruppo di disperati e di donne in nero gli invadano la capitale, ma abbastanza da vendicarsene con lo stile del suo mestiere d'origine. Dichiarò una volta di non aver mai ucciso nessuno, in carriera, ora ha colmato la lacuna. E' un capo russo, non americano, dunque non è l'antiamericanismo che mi fa stravedere. E' questa stoffa, questa pasta di cui sono fatti gli uomini di governo più importanti del mondo. Non vorrei incontrarli in un vicolo. Da loro vengono solo miserevoli messaggi. Non è sempre stato così o soltanto così. Il culto della personalità è sempre stato un male, ma il culto della non-personalità del nostro tempo è molto peggio.

 

 

 

8.11.02

 

Almanacchi
Si sa che i mezzi di comunicazione, principalmente la televisione ma anche la carta stampata, hanno nella società moderna più influenza del Papa. Sono un quarto o quinto potere, dopo i tre istituzionali e quello bancario, che condiziona tutti gli altri ed entra nel tuo letto. Un potere irresponsabile. La signora Fallaci, in quanto giornalista e scrittrice, dispone di una piccola quota di questo potere e ne fa un uso sproporzionato. Ha in odio il social forum e i suoi raduni e seminari, non tanto perché li ritiene pericolosi, come il ministro dell'interno, ma perché li giudica immorali e intimamente oltraggiosi. Di conseguenza, con minore eloquenza del Savonarola ma con pari irruenza, incita i fiorentini a ribellarsi vestendo a lutto la città. Nulla di strano, non è necessariamente un caso clinico, l'improperio è una forma della retorica, la tolleranza un'invenzione di Voltaire, l'uso della ragione un lusso cartesiano e l'esibizione di sé un bisogno umano. Alquanto strano è invece che questo opuscolo di mille righe almeno sia sparato ad altezza d'uomo su mezza prima pagina e mezza pagina interna del più diffuso quotidiano padano e nazionale. Fiorentini manifestiamo il nostro sdegno, quasi un'edizione straordinaria con strillonaggio di strada. Non credo che sia un'operazione di marketing. Fondato nel 1876 come precisa la testata, il Corriere della Sera è ancora nell'immaginario pubblico un giornale compassato e liberale a cui non conviene la volgarità. Ma siamo nel 2002, qualcosa è cambiato nel clima e nel costume della nazione e chi si ferma è perduto. Così il giornale che ci veniva additato in gioventù da Palmiro Togliatti come un modello di equilibrio è diventato, più che volgare, militante. Lo è sempre stato, in verità, ma ora si vede. Dev'esserci dell'agitazione, al suo interno, qualcuno deve sentirsi a disagio, forse si prepara un cambio di proprietà o di loggia in consonanza con i mutamenti in atto nel mondo degli affari e del sistema informativo complessivamente inteso. In conformità con il trapasso di regime, insomma un Corriere dello zar. Ma non conosco bene questi meccanismi, non ho mai lavorato in un giornale rispettabile. Se fossi un ragazzo o anche un anziano cittadino che va oggi a Firenze per un corteo o per un seminario, o anche perché ricordo con nostalgia quella città magari meno arricchita ma meno vilipesa dai pullman giapponesi globali, mi domanderei perché vengo diffidato e minacciato. Non è una libertà elementare, la mia? Mi risponderei che no, è così poco elementare che per riconquistarla ci volle una lotta armata e non è sicuro che ci siamo riusciti. Perciò ci tocca continuare a reclamarla e difenderla ogni giorno disarmati fino ai denti.

 

11.01.03

 

Mezzo milione
Si sente dire qua e là che la guerra all'Iraq farà nei primi giorni cinquecentomila vittime tra morti e feriti. Sono cifre che i giornali danno tra le righe come pettegolezzi. Salvo errori, furono seicentomila circa i morti italiani nella prima guerra mondiale. Una volta queste cifre facevano impressione e segnavano un'epoca, adesso sembrano un bilancio statistico degli incidenti stradali. Ci sono però due probabilità su un milione che questo smisurato massacro sia evitato. Fino a ieri pensavo che non ce ne fosse nessuna, ora un dubbio mi sfiora. Non perché gli ispettori dell'Onu non trovano pistole fumanti e tubi atomici o altre armi di sterminio, cosa buona ma ovvia. Neppure perché l'opinione pubblica mondiale è sfavorevole, cosa di cui le gangs di New York (film attuale) s'infischiano. Né perché le subpotenze occidentali recalcitrano, trattandosi di gnomi che dalla guerra temono qualche danno senza escludere qualche vantaggio. Ma per due considerazioni di altro genere. La prima è che la devastazione annunciata è tale che indurrà l'Iraq alla resa prima di subirla. Saddam non si ritirerà a vita privata ma forse un complotto intestino, un colpo di stato, ci annuncerà la sua deposizione e la sua fuga o dipartita. In cambio di qualcosa, una parvenza di indipendenza nazionale, o anche di nulla, una mera sopravvivenza. La seconda considerazione è che il presidente americano, se non otterrà questa resa preventiva, non si sentirà abbastanza sicuro di vincere la guerra e il dopoguerra. Se il regime di Baghdad non cadrà in questa vigilia può voler dire che è abbastanza forte da reggere anche dopo, nei primi quindici giorni che possono diventare settimane e nei diciotto mesi di colonizzazione e protettorato pianificati nella sala ovale. E gli americani, come si sa, non amano rischiare sul campo. Forse queste due ragioni, o considerazioni, o probabilità, sono concatenate. Può darsi che questa guerra annunciata e predisposta da due anni, sperimentata in Afghanistan, accompagnata da una mobilitazione militare imponente e ostentata, abbia avuto in partenza come obiettivo prioritario la resa preventiva del nemico. E se questo calcolo risulta sbagliato, può darsi che ci sia sotto un errore di valutazione più generale che sconsiglia di saltare il fosso. Cinquecentomila vittime, senza contare tutto il resto che è facile immaginare non solo nell'area mediorientale, sono decisamente troppe. Per evitare questa mostruosità, mi auguro da pacifista imbelle che basti la minaccia e che gli americani ottengano il loro scopo e il loro petrolio senza bisogno di tradurla in realtà. Dimostrerebbero che per dominare il mondo gli basta posare il dito su un bottone senza premerlo. In caso contrario, gli auguro di patirne anche loro le peggiori conseguenze.

 

19.01.03

 

La follia c'è
La demenza non è una categoria della politica e non si possono misurare con questo metro le cose del mondo. Tuttavia la sensazione di trovarsi nelle mani di gente impazzita è fortissima. Non provate questa sensazione quando gli strateghi del Pentagono pianificano e annunciano al mondo una guerra lunga trent'anni? La follia può essere lucida e metodica, come nelle tragedie shakespeariane o greche, ed essere associata a calcoli e motivazioni molto concrete. Ma resta pur sempre follia ed è spesso un prodotto e un segno di disperazione. Lo stato dell'Unione nel nuovo millennio non si presenta florido e attraente come nel secolo scorso, appare invece critico e febbrile e può conoscere in trent'anni una decadenza simile al disfacimento dell'impero inglese o dell'implosione sovietica. Questa America non è più un mito o un modello, non esporta più egemonia ma forza militare nuda e cruda.  Quando il suo capo, uomo mediocre e potente in eguale misura, dedica una cerimonia nazionale alla “santità della vita” mentre si accinge a una guerra devastante, allora compiango gli americanisti. I quali sono anch'essi dubitosi e impauriti da questo clima ma si conservano reverenti come ai tempi della guerra fredda. Noi preferiamo nettamente gli ignoti consiglieri comunali di Chicago che in nome della “santità della vita” e di altre considerazioni più mondane votano una risoluzione contro la guerra, o il governatore uscente dell'Illinois che in nome di una giustizia ritrovata svuota un braccio della morte, o i molti ragazzi americani che in nome del loro paese invocano la pace nelle strade delle loro metropoli. Che occasione di protagonismo avrebbe un'Europa politica, se esistesse, in una circostanza come questa. Non necessariamente in nome di un ideale civile, che è una pretesa eccessiva, ma più semplicemente in nome di se stessa, delle proprie convenienze in un'area geografica che la riguarda e la comprende fisicamente. Come si permette un esercito anglo-americano, sia pure alleato, di occupare l'intero Medio oriente come un cortile e di prospettare un'azione in proprio al di fuori del diritto internazionale? E che occasione avrebbe, entro i nostri confini, una sinistra italiana che assumesse la pace come una priorità assoluta, a cui subordinare ogni altro problema e su cui impegnarsi senza remore, seppellendo le sue divisioni e dispute troppo spesso meschine. Che lo facesse anche solo per opportunità politica, se non per un comune sentire, giacché dovrebbe con sé la maggioranza della pubblica opinione. Per dimostrarsi forza di governo, se così le piace. Osteggiare e scoraggiare questa guerra manifestamente impudica, oggi, è molto più facile che nel recente passato. Si può farlo non solo per principio ma per realismo, in modo “politicamente corretto”, in compagnia del Papa e di alcune cancellerie non sospette, dell'ispettore Blix e dei sentimenti della gente comune. Perché non lo fate con la dovuta energia, negando al governo e alla sua maggioranza il diritto costituzionale di oltrepassare questa soglia? L'impazzimento americano è contagioso e da noi assume la forma della soggezione e dell'inerzia. D'accordo, l'impazzimento non è una categoria storico-politica ma è difficile spiegare altrimenti questa incertezza di futuro che grava paurosamente su intere generazioni.

 

23.01.03

 

La risorsa
Ci fu un'Internazionale socialista che si suicidò nel 1914 aderendo alla prima guerra mondiale. Ora ce n'è un'altra che è come se non ci fosse, una casa di riposo per socialdemocratici decaduti, che si è riunita a Roma tra l'indifferenza generale e si è conclusa con una risoluzione che definisce la guerra “l'ultima risorsa”. Una definizione storica. Fino a ieri sapevamo che la guerra può essere necessaria, preventiva e profilattica, umanitaria e magari igienica, ma non ci avevano ancora detto che fosse una risorsa. Come l'acqua, l'energia, le ricchezze naturali, o come un conto corrente e altri beni materiali, o come l'intelletto o la fede e altre virtù immateriali. Forse è un errore di traduzione ma Giorgio Napolitano, che dell'internazionale socialista è un pioniere, poteva almeno suggerire la formula latina della extrema ratio. Il vocabolario, tuttavia, non c'entra, c'entra invece che alla vigilia di una tragedia mondiale i fantasmifici del socialismo decidono di non aderire e non sabotare secondo la loro peggiore tradizione. Si fanno ridere dietro, per dirla con Prodi, anche in un momento nel quale buona parte dell'Europa ufficiale batte dei colpi e non fa tanto ridere oltreatlantico. Il cancelliere tedesco che dice no è l'unico socialdemocratico ancora al potere, i laburisti inglesi e non solo con Blair, il presidente francese si ricorda di essere un gollista, l'opinione pubblica europea è in agitazione, ma invece l'internazionale socialista parla spagnolo come Aznar. E la guerra come risorsa sembra un'idea rubata a Berlusconi. Dal 27 gennaio in poi la guerra può scoppiare ogni giorno, il neoministro degli esteri italiano in battesimo negli Stati uniti (“ciao Franco, ciao Colin”, così ce lo racconta simpaticamente, il Corriere della Sera) dice che l'Italia farà la sua parte e si aspetta un voto bipartisan, ma il partito italiano dell'internazionale socialista dà tempo al tempo e non sappiamo ancora come reagirà all'ultima risorsa. Con cinque mesi di anticipo il capogruppo senatoriale diessino ci ha informato che voterà no al referendum di giugno, sull'articolo 18 ma non è stato altrettanto premuroso circa la guerra mediorientale di febbraio. Questo vuol dire essere lungimiranti e avere il senso delle priorità. Retropensiero: se la guerra ci dividerà mortalmente, come faremo a riallacciare il dialogo sul premierato? Abbiamo ancora contro la guerra incombente molte risorse da mettere a frutto e da far valere, l'opposizione a questa follia non è mai stata così ampia e varia e se crescerà ancora può prevalere. Bush cerca un trionfo, non è detto che rischi un'avventura che può segnare la sua fine. Abbiamo davvero molte risorse meno una, i pensionati dell'internazionale socialista.

 

25.01.03

 

Fiat
Molti gareggeranno nel tessere l'elogio funebre di Gianni Agnelli e nel rendergli onore in morte come gli hanno tributato adulazione in vita. Era un uomo potente, per privilegio di nascita o forse anche per sua virtù, che ha influenzato il destino di tante persone e di un intero paese ed è naturale che sia celebrato. Ma meglio sarebbe se fosse semplicemente rispettato come qualsiasi persona che finisce di vivere. Il rispetto non è ricevere l'estrema unzione da un cardinale in conformità alle gerarchie e non è una riunione familiare che due ore dopo formalizza la successione. Personalmente preferirei di no. Quest'uomo che tutti conosciamo da decenni, come modello positivo o negativo, ha avuto una vita invidiabile secondo i valori correnti ma una morte tragica. Così almeno ci appare, per la perfetta e quasi beffarda coincidenza tra la fine della persona e il crollo della sua opera, della “creatura produttiva” in cui ha identificato la propria esistenza. Che fallimento, che fallimento, chissà se nelle ultime ore ha pensato in questi termini e mormorato queste parole come capita facilmente quando si tirano le somme. Probabilmente no, è sempre stato o almeno è sempre apparso molto sicuro di sé anche di fronte a vicende sfortunate. O forse sì, perché per un grande proprietario dev'essere amaro non lasciare una degna eredità. La Fiat non era un bene patrimoniale ma il lavoro vivo di milioni di uomini e donne che ora finisce in un buco nero, al nord e al sud, dentro e fuori i confini nazionali. L'auto non era una merce ma un idolo e una filosofia che ora è in rottamazione. La Fiat era il capitalismo familiare italiano, che non vuol dire buono e affettuoso e che ora è all'asta. Era anche un governo ombra, un regime nei regimi, ora detronizzato e sottomesso a una repubblica delle banane. In eredità ci lascia le autostrade, grandioso monumento funebre, il traffico urbano e lo smog, uno sviluppo che ci inorgoglisce ma di cui non si può dare a Gianni Agnelli né il merito né la colpa. Ha fatto la sua parte, come si dice, ma al massimo è stato il simbolo di una storia, un simbolo “signorile” che i successori faranno magari rimpiangere. Dunque una bella vita e una tragica morte, una caduta degli dei, che ridà spazio a umane considerazioni. Anche per il fatto che non ci piacciono in generale i grandi uomini o i reputati tali non ci sentiamo “percossi e attoniti” per la scomparsa del principale azionista di una grande fabbrica ma lo vediamo un po' più piccolo e perciò più umano.

 

28.01.03

 

Choc e timore
“Sull'Iraq ottocento missili in due giorni”. Ecco un bel titolo domenicale che ha trovato spazio sul Corriere della Sera tra un necrologio e l'altro. E' l'operazione annunciata per i primi di marzo, denominata “choc e timore”. Chissà chi sono gli sceneggiatori d'oltre atlantico che inventano queste sigle garbate. Il testo precisa che “non è escluso neppure l'uso di atomiche”, come quella di Hiroshima che fu chiamata “little boy”. Quella ragazzata fu il più grande crimine della storia, secondo solo all'olocausto che in questi giorni commemoriamo. Ma non è stato mai considerato tale, tanto meno da chi lo perpetrò. Così che si può scrivere e leggere sbadatamente in due righe che non è esclusa una sua riedizione aggiornata. Ma fa lo stesso, ottocento missili bastano a fare cinquecentomila morti con minor scandalo, in due giorni invece che in un attimo. Leggo sempre questa cifra taciuta in quei titoli macellai, dovrei esserci abituato ma non ci riesco. La premeditazione, la programmazione di un evento simile è peggio dell'evento in sé. In qualche modo la guerra si è sempre presentata all'immaginazione pubblica come una fatalità e questo era vagamente consolatorio. Adesso appare orribilmente artificiale, prodotta in laboratorio o in una sala anatomica. Uno scienziato pazzo con undici assistenti reclutati (dodici paesi) procede nella vivisezione indifferente alla nausea e all'ostilità del pubblico invitato allo spettacolo. Non era mai accaduto. Palmiro Togliatti ci invitava sempre con pedanteria ad argomentare le nostre buone ragioni e in questo caso non è difficile farlo. Lo si sta facendo infatti in tutte le lingue del mondo, in francese e in tedesco, in italiano e in latino, in arabo e persino in cinese, anche in inglese, nei tribunali internazionali e nelle strade. Ma serve argomentare che una bomba atomica è troppo per neutralizzare o scacciare una mosca? Che ottocento missili sono adatti a una devastazione ma inadatti ad esportare la democrazia? Oggi anche il superbo Occidente è spaccato in due, per la prima volta da mezzo secolo, e questo dovrebbe essere il più convincente degli argomenti. Oggi perfino le borse e la banca d'Italia sono di necessità pacifiste, per così dire, e dovrebbe essere anche questo un argomento convincente. Tuttavia le teste d'uovo scadute del New York Times preferiscono infilarsi l'elmetto e non conoscono altri argomenti che quello della propria forza (o della propria debolezza). Choc e timore, forse questa formula non designa l'ecatombe irachena ma la sindrome di cui è preda il basso impero americano. Se questi malati gravi si dessero un anno di tempo, invece di un mese, forse rinsavirebbero. Bisogna fare in modo che il prossimo mese duri un anno.

 

1.02.03

 

Fino in fondo
L'on. Berlusconi è convinto di aver con sé l'opinione pubblica, la maggioranza del popolo, quando proclama il proprio diritto all'immunità come capo di governo eletto dal popolo medesimo. Forse millanta credito, forse la gente è meno credulona. Ma può anche darsi che abbia ragione, non parlate al conducente e non disturbate il manovratore c'era scritto sugli autobus e corrisponde al senso comune. Questo senso comune è stato in questi anni coltivato e teorizzato politicamente a destra e a sinistra. Stabilità ed efficienza, quindi decisionismo, quindi sistema maggioritario, quindi rappresentanza parlamentare e potere esecutivo saldati e blindati, quindi capi carismatici, quindi spirito plebiscitario. La rigidità aziendale sovrapposta all'elasticità democratica, una concentrazione di potere invece di una distinzione e di un equilibrio di poteri. E' un meccanismo intrinsecamente totalitario o totalizzante, se la parola evoca meno ricordi. Il conflitto dell'on. Berlusconi con la magistratura è personale, trattandosi di un imputato di reati penali, ma investe le istituzioni in quanto tali, compreso il Quirinale. Se questo accade oggi, cosa non accadrebbe in regime di premierato, con investitura diretta del conducente? Paradossalmente, se la sua maggioranza storcesse il naso e preferisse una diversa leadership al proprio interno l'on. Berlusconi le negherebbe legittimità. Nel futuro regime scioglierebbe il parlamento e il ricorso al giudizio del popolo sovrano non sarebbe una minaccia indiretta ma una conseguenza diretta. Andrò fino in fondo, fino in fondo, questa sua espressione autorizza a immaginare qualsiasi scenario. Di paradosso in paradosso, se seri indizi pesassero sul capo del governo chiunque fosse circa la vicenda di Cogne, finita anch'essa in Cassazione, la teoria dell'immunità avrebbe la stessa forza che ha in materia di corruzione? Ma sì, l'invocazione della sovranità popolare contro la calunnia, l'intrigo e la persecuzione politica può sempre valere, una volta che sia assunta come principio regolatore assoluto della vita pubblica e fonte di assoluzione. Se così è in condizioni di normalità e in stato di pace, cosa succederebbe in condizioni di emergenza e in stato di guerra? Non c'è dubbio, un processo penale al capo di un governo di un paese in guerra non si è mai visto e sarebbe un alto tradimento. Questo non è un paradosso, reduce dall'incontro con Blair e Bush l'on. Berlusconi è riconosciuto come il principale alleato europeo nel fronte di guerra all'Iraq, la stampa anglo-americana non dice più male di lui e dei suoi affari ma bene del suo probabile impegno militare. Continuerà a dirne male un tribunale milanese? Noi naturalmente sì, per quel che vale, ma ci sconcerta che la sinistra non raccolga di slancio il guanto di sfida. L'on. Berlusconi ha mal governato, sul terreno dell'economia e delle relazioni sociali, dei bisogni e dei diritti pubblici, delle regole istituzionali e della legalità democratica, della nostra collocazione internazionale e della pace, ed è lontano dal consenso plebiscitario a cui aspira. Ma la sinistra si ritrae perché ha dato spago al senso comune di cui ora è vittima e ha più paura che fiducia. Dovrebbe imparare dall'avversario a invertire l'ordine dei fattori e ad andare fino in fondo.

 

15.02.03

 

La nostra coscienza
E' proprio così, ovunque nel mondo. A volte sognamo e non diciamo la verità perché la confondiamo con i nostri desideri. Ma oggi non sono i pacifisti, non sono minoranze partigiane, non sono ideologie preconcette che affollano le strade di cento capitali. Sono gli abitanti della terra, i cittadini di ogni lingua e cultura, che si riconoscono e si incontrano in un'unica comunità. E' la democrazia che prende corpo, non le sue istituzioni e i suoi meccanismi ma la sua essenza. La pace e la democrazia sono oggi la stessa cosa, se perdiamo l'una perdiamo l'altra. Un'emergenza così non c'è mai stata da mezzo secolo, anche questa è una verità senza retorica. Ed è questa percezione che accomuna le persone, le singole persone, che si affollano ovunque innumerevoli. Questo è il messaggio. Se questa guerra scoppierà sarà intimamente totalitaria. Non ucciderà solo molti innocenti, non ferirà a morte solo le istituzioni internazionali, non alimenterà solo la spirale del terrore e la instabilità delle nostre economie e della nostra vita quotidiana, ma ucciderà il principio di cittadinanza e di sovranità e violenterà la coscienza pubblica. Vale anche per gli Stati uniti d'America, dove non sembra esistere più una dialettica democratica ma prende corpo un regime unipolare generato da un colpo di stato invisibile. Vale con tutta evidenza in Italia, dove un potere senza consenso fa di tutto il territorio nazionale una base di supporto militare a sostegno di una guerra unilaterale. Non siamo solo fuori dalla Costituzione ma anche dalle alleanze tradizionali. Non stiamo esportando la democrazia in Iraq ma importando i mali, i metodi e i fini, che aborriamo e vogliamo combattere ovunque. Oggi li combattiamo con una insorgenza tranquilla, con la forza naturale di una marea, che non dirò pacifica e democratica perché sono parole inadeguate. La pace e la democrazia non sono una sommatoria ma una congiunzione che riassume il senso stesso dell'esistenza. Hanno incombenti di fronte a sé la guerra e il totalitarismo ma non sono mai state così forti come si manifestano oggi. E continueranno a manifestarsi qualunque cosa accada.

 

19.02.03

 

In teoria
Il presidente Bush ha detto che non saranno i pacifisti a fermare la guerra. Non fa meraviglia. Ma che l'abbia detto è già un bel risultato. E' un sordo che ha sentito qualcosa. Vuol dire che non si aspettava quel che è successo. Giacché non si tratta di pacifisti, piccola genia disprezzata, ma dell'opinione pubblica mondiale. Neanche un'oligarchia come quella americana può far finta di niente, non per resipiscenza democratica ma perché una guerra senza consenso è un'avventura doppiamente pericolosa. Emotivamente, ideologicamente e anche militarmente. C'è un fattore imprevisto che delegittima la guerra più di un veto istituzionale o di un dettato costituzionale. Ignorarlo è rischioso e costoso. Anche in America, ma ancor più dove questo fattore umano corrisponde all'orientamento di governi insospettabili di pacifismo utopico o dove questa volontà democratica si contrappone a governi disposti alla guerra. Bush ha forse ancora con sé una limitata maggioranza della sua opinione pubblica ma Blair e Aznar e Berlusconi sono soli o male accompagnati e possono rompersi le ossa. Questa guerra non ha più dalla sua parte nessuna buona ragione, se mai ne ha avute, il disarmo di Saddam può essere ottenuto altrimenti e la lotta al terrorismo non si vince bombardando le popolazioni. La sola ragione per cui questa guerra può ancora scoppiare è solo negativa, è l'impossibilità per l'amministrazione americana di recedere senza rimettere in discussione la sua strategia complessiva e il suo primato mondiale, che non è solo sete di petrolio. E' questa ambizione di un “ordine nuovo”, o di un “nuovo ordine” che fa lo stesso, a risvegliare nella nostra memoria l'immagine della Germania degli anni `30. Per carità, nessun parallelismo tra una grande democrazia sia pure viziata e una nazione nazista. Ma questo culto della forza e questa ambizione di dominio non sono nuovi al nostro orecchio. Ma è così? Potrebbe essere che una mattina G. W. Bush si svegli scoprendo che può infine vincere senza la guerra e anzi meglio. Potrebbe anzi sostenere di avere già vinto col semplice esercizio della sua autorità, ispezionando perfino i bagni privati di un piccolo dittatore orientale, e scuotendo il mondo intero. Potrebbe restituire all'America un primato di civiltà e passare alla storia non come un cow-boy ma come un sovrano illuminato. La storia ha le sue astuzie. C'è da far quadrare un cerchio, evitare una guerra inevitabile. Se cento milioni di abitanti della terra hanno posto questo problema vuol dire che è possibile risolverlo. Vuol dire che, almeno in teoria, è già stato risolto. E che forse G. W. Bush una mattina o una notte di plenilunio non premerà un bottone ma scoprirà il teorema di Pitagora.

 

25.02.03

 

I sovversivi
La guerra non è ancora scoppiata ma già percorre fisicamente il nostro territorio. Non si tratta di basi militari circoscritte, della Maddalena o di Aviano o della celebre Sigonella, né di navi alla fonda o di spazio aereo concesso per sbrigative operazioni di polizia internazionale. Carichi di armi e munizioni corrono sui binari delle nostre ferrovie e si imbarcano nei nostri porti. Forse li incroceremo sulle autostrade. Siamo nel 1914? Nel 1940? E' da mezzo secolo che non sentivamo nell'aria di casa questo rumore di scarpe chiodate, di sciabole e baionette che però non sono armi da taglio ma da sterminio annunciato, questo odore coloniale che mi ricorda stranamente la spedizione abissina. Non è il Kosovo, non è il Kuwait, non c'entra neanche la Nato e tantomeno l'Onu. Neppure la Turchia è un avamposto così zelante di questa guerra unilaterale e così esposto come lo siamo noi. Meno di due anni fa l'onorevole Berlusconi si propose sul mercato elettorale come un presidente rassicurante che offriva al paese un percorso in discesa. L'onorevole Fini vestiva in borghese e l'onorevole Bossi non sventolava il tricolore. Escluderei che avessero in mente una militarizzazione nazionale a sostegno di una guerra guerreggiata. C'è dell'imprevisto, in questo scenario, una improvvisazione che è più allarmante di un freddo calcolo. Forse è una via di fuga dai guai della politica interna, una tentazione avventurista per partecipare in stile mussoliniano al bottino di pace. Perché si sorprendono dell'ostilità popolare? Questa forzatura e accelerazione governativa, questa importazione preventiva dell'emergenza bellica sul bel suolo italico, questa graduale promozione della penisola da retrovia ad avamposto, avvengono scavalcando la comunità internazionale e anche le istituzioni nazionali. Ma soprattutto avvengono disdegnando l'opinione dei quattro quinti della cittadinanza. Credono davvero che sia disinformazia? Un secolo fa ostacolare i convogli di armamenti era nelle tradizioni del movimento operaio e della cultura socialista o anarchica. Erano chiamati sovversivi. Ma oggi non si tratta di minoranze o di militanti aizzati (il telecomando è tutto vostro), oggi questa mobilitazione è accompagnata da un rifiuto generalizzato della guerra che lo esprime con ragionata passione. E' contro il sovversivismo delle classi dirigenti, come lo chiamava uno che ne patì le conseguenze. E' una mobilitazione civile anche contro il terrorismo che sui vagoni di armi fa il suo nido. Non è nel contratto di lavoro di un macchinista o di uno scaricatore di porto guidare un treno militare o issare mortai con le gru. Mettiamoci (metteteci) dei bravi genieri, coprite i vagoni con teli mimetici, usate le chiatte invece delle banchine. Ricorrete a dei sotterfugi adeguati, insomma, come fate con quell'altro contratto che è la Costituzione repubblicana.

 

9.03.03

 

Salto mortale
Anche i commentatori che parteggiano per gli Stati uniti, più precisamente per l'amministrazione Bush e il suo programma di guerra trentennale, sono spaventati dalla piega che hanno preso le cose ma conservano ancora un'illusione. Credevano che la guerra all'Iraq come atto inaugurale sarebbe stata facile e che alla fine avrebbe avuto il consenso dell'Occidente e di buona parte dell'opinione mondiale e ancora ci sperano magari per il day after, illudendosi che il dopoguerra incollerà i cocci e ristabilirà l'equilibrio spezzato. Lo scenario è opposto ma non si ha il coraggio di prenderne atto e di prevederne la conseguenze. Questa guerra sarà tutto meno che una parentesi che si apre e si chiude in gloria. Il suo obiettivo non è infatti il disarmo di un piccolo tiranno già indebolito, e neppure la resa e l'abbattimento del suo regime e l'annessione di un'area petrolifera. Non ha una dimensione regionale ma planetaria o geopolitica, come si dice, che implica una retrocessione dell'Europa, un ulteriore subordinazione della Russia, un preliminare accerchiamento della Cina. Non si spiega altrimenti lo schieramento internazionale (non dico i popoli dico i governi e gli stati) che si è formato in opposizione a questa guerra americana. Non si spiega se non con la percezione, da parte di tre quarti del mondo (mezzo G8, chi se ne ricorda?), che il bersaglio politico della guerra sono loro. Non è Saddam né il terrorismo e il fondamentalismo islamico, non sono i figli di Bin Laden che spuntano come marionette, ma siamo noi come periferia dell'impero da mettere in riga. E non ci sarà da sorprendersi se l'Onu, come istituzione rappresentativa nata dalla seconda guerra mondiale, farà la fine della società delle nazioni sotto un unico comando. Tra dieci giorni, salvo colpi di scena, questo scenario prospettico sarà momentaneamente sopraffatto dalla orrenda concretezza della guerra guerreggiata. Qui il discorso cessa di essere ipotetico e si fa semplice. Sarà la guerra di un titano contro un nano, di armi sofisticate contro una popolazione pressoché indifesa, una bomba al minuto per due giorni e due notti e un seguito di umana disperazione che le preghiere di Bush non allevieranno. Sarà una guerra senza aggettivi qualificativi, una guerra di aggressione allo stato puro. Non dirò un crimine contro l'umanità perché è un'espressione polemica abusata che non ha più valore. Anche questo prezzo (se una carneficina è un prezzo) non è messo nel giusto conto da chi ama troppo e troppo poco l'America. Perché ci odiano tanto? Questo famoso interrogativo sollevato dopo l'11 settembre troverà una risposta molto facile durante e dopo questa impresa. Un odio duraturo si esprimerà in molte forme e non sarà tra le conseguenze minori di questa avventura solitaria contro il mondo. Un giornale ha auspicato che nessuno speri, in segreto, che la campagna anglo-americana si impantani tra Bassora e Baghdad. Se lo sperassi lo farei in pubblico. Ma non ci credo e preferirei che rinunciassero al rischio. Che la forza non sia premiata è però in assoluto un bene che può anche risvegliare la ragione dal sonno profondo in cui versa. Domani se non oggi.

 

 

 

 

13.3.03

 

Moab
Da New York una distratta notizia dell'agenzia Ansa informa che una nuova superbomba è stata sperimentata in una base desertica della Florida. Si chiama Moab, pesa dieci tonnellate, è il più grande che esista tra gli ordigni detti convenzionali e la sua esplosione produce un fungo visibile a molti chilometri di distanza. L'agenzia aggiunge che Moab potrà essere usata dall'Air Force già a partire dal conflitto in Iraq e un portavoce del centro armamenti locale si è detto certo che “ce ne saranno alcune disponibili” se qualcuno vorrà servirsene. Eravamo rimasti indietro, ai bombardamenti della prima guerra del Golfo e all'annuncio che in questa replica saranno sganciate tremila bombe in quarantotto ore che vuol dire mediamente una al minuto. Avevamo anche sentito che non è escluso l'uso di atomiche tattiche, in caso di complicazioni, che però non sarebbero convenzionali. La tecnologia applicata allo sterminio conosce molte varianti e le Moab disponibili hanno il vantaggio di produrre un fungo di cui si conosce l'altezza e si sperimenterà sul campo il raggio d'azione. Una notizia distratta e marginale come questa passa in secondo piano mentre al palazzo di vetro le nazioni accreditate discutono e votano sulla guerra. In fondo si tratta di dettagli tecnici che riguardano essenzialmente le vittime, i carnefici fanno il loro mestiere al meglio e più sangue versano meno tempo ci mettono. Oppure si può sperare che non ci sia bisogno di un massacro programmato con armi nuove o vecchie e che basterà un lancio di paracadutisti per stremare una popolazione con maggior convenienza politica. Ma c'è una soglia che non si è disposti a varcare? No che non c'è, questa soglia è già stata oltrepassata concettualmente da tempo e la morte di massa inflitta e subita non ha più un metro di misura. A che serve tutta questa potenza di fuoco, come osservò una signora sensibile, se non viene usata? C'è un piano di investimenti astronomici per la ricostruzione dell'Iraq che presuppone appunto la sua distruzione, secondo una logica che si direbbe mostruosa se questa parola avesse un senso. E' un mostro il vice-presidente americano che ha già l'appalto dei pozzi petroliferi da riattivare? Probabilmente i morti invisibili saranno molti di più di quelli conteggiati, negli ospedali senza elettricità, nelle case senz'acqua, sui carriaggi in fuga. Ma ci sarà rimedio, arriveranno farmaci e latte che sono già disponibili come le Moab, i vincitori sanno essere becchini generosi e i titoli in borsa se ne gioveranno. Queste miscele di sangue e denaro sono più potenti delle bombe da dieci tonnellate, sono il loro effetto collaterale duraturo nel tempo. Dovrebbe esser questa una guerra impossibile, che secondo una valutazione complicata ma accurata ha il consenso del 3 per cento della popolazione mondiale. Ma è stata varcata quella soglia oltre la quale l'impossibile accade. Ci troviamo in una dimensione mai conosciuta che perciò non riusciamo a definire, una dimensione senza nome e innominabile. Si capisce che il pontefice evochi Satana, ma nei limiti della nostra ragione laica e del nostro linguaggio ci sentiamo muti. Anche un'altra cosa che sembrava impossibile però è accaduta e accade meravigliosamente. Loro sono in solitudine, il resto del mondo non è mai stato in così buona compagnia con se stesso. Se questa insorgenza umana non fermerà la guerra è però già una promessa di futuro che ci fa esistere senza vergogna.

 

25.03.03

 

Come mai?
Sembrava probabile e quasi ovvio, non solo ai fautori e sostenitori della guerra ma anche ai suoi avversari, che l'Iraq sarebbe crollato in breve tempo. Per ragioni militari, prima di tutto, data la smisurata sproporzione delle forze in campo. Ma soprattutto per ragioni politiche, essendo quello di Saddam un regime tirannico e fantoccio. Non è andata e non va così. Ci promettono che la guerra sarà lunga, ci saranno molte perdite da entrambi le parti (soprattutto da una parte, si capisce), l'invasione incontra una resistenza non sporadica ma generalizzata (Bassora è in queste ore un teatro di guerra e guerriglia e diventerà un cimitero). Perché, come mai, com'è possibile? Non è un qualsiasi errore di calcolo, è un rovesciamento di scenari su cui riflettere e da cui trarre conseguenze non superficiali. Gli americani possono essere stati abbagliati dalla loro potenza e superbia militare ma c'è molto di più. C'è al fondo di questa impresa una “ignoranza”, se così si può dire, un'ignoranza che è peggio della menzogna e che purtroppo non è solo una loro prerogativa ma è sempre esistita in occidente e resta evidentissima nell'italietta cobelligerante. E' l'ignoranza di tutto un mondo che fu e rimane, secondo questa mentalità, essenzialmente “coloniale”. Ci troviamo invece e inopinatamente di fronte a una nazione, a un territorio che appartiene a chi lo abita da sempre, a un paese di trenta milioni di anime che viene bombardato e invaso e non ci sta. Noi la chiamiamo liberazione da un tiranno, ma non c'è stata chiesta né da un partito fratello né da un governo in esilio. E per chi la subisce è intanto e semplicemente quello che è, un'aggressione e un'invasione straniera che promette cioccolata e sigarette a prezzo di una soggezione completa. Saddam il tiranno può ben fare appello non più ad Allah ma alla guerra patriottica, alla guerra di indipendenza contro un destino coloniale. Vecchio scarpone, quanto tempo è passato etc. Non c'entra ovviamente niente la guerra d'Abissinia, né le guerre d'Africa pre-fasciste, ma la televisione che in quegli anni era la copertina illustrata della Domenica del Corriere mostrava i ras etiopi scalzi e con la lancia a fronte dei caschi coloniali che con le mitragliatrici avrebbero spazzato quel deserto lastricandolo di moderne autostrade. Poi però per vincere ci sono voluti i gas asfissianti, a cui Indro Montanelli non ha mai onestamente voluto credere, perché anche il Negus Neghesti era un imperatore preferibile al maresciallo Rodolfo Graziani. Ma ora siamo in Iraq nel 2003, le guerre d'indipendenza si addicono al nostro risorgimento e non certo a un paese terzo o quarto come quello, e infatti questo scenario inatteso può benissimo rovesciarsi di nuovo. La disinformàzia ci dice contemporaneamente che gli inglesi si ritirano da Bassora, dove una volta morirono in cinquantamila, ma sono a cento chilometri da Baghdad, dove moriranno invece cinquantamila iracheni. E un altro scenario può rovesciarsi, giacché finora contiamo i morti militari e civili col pallottoliere ma un massacro può essere l'esito finale. Lo scenario che non cambierà, oggi né domani, è quello del mondo che invoca la pace come unica vittoria. Non la invoca con la retorica o con le manifestazioni ma la mantiene viva, sotto il fuoco della guerra, come sinonimo di esistenza e garanzia di futuro.

 

27.03.03

 

La vergogna
La guerra sarà lunga, siamo solo all'inizio. Se lo dicono loro possiamo crederci anche se prima dicevano il contrario. Tradotto in pratica, vuol dire che la strage al mercato di Baghdad è solo un inizio. Non è un effetto collaterale della guerra, è il suo cuore. Questi morti li conosciamo, di altri in altre città sentiamo parlare. I massacri, la macelleria, la carneficina prendono il posto che gli spetta. Siamo solo all'inizio. Sono bombe straniere, anglo-americane, non cannonate di un nemico interno su un mercato di Sarajevo. Vengono da molto in alto, dalla cima del nostro mondo civile. Se questa è una guerra di liberazione, cos'è una guerra di aggressione e di conquista? Non era stata presentata così al mondo e al suo paese da George Bush. Non era una guerra contro una popolazione ma contro un tiranno e sarebbe stata quasi indolore. Ora anche molti soldati americani, pù di cento, muoiono e moriranno senza saperlo (quelli iracheni uccisi a Najaf sono mille). Se è solo l'inizio ci si potrebbe ancora fermare prima del massacro finale. Ma l'America, che vive sotto assedio, non conosce questo scenario e non ne immagina le conseguenze. Crede a quel gelido coglione del suo ministro della difesa, al vice-presidente che ha in appalto i pozzi iracheni, al presidente che vuole essere rieletto. E ha la certezza della vittoria. Se si accorgerà prima o poi d'essere stata ingannata si infurierà ma sarà tardi. Davvero la vittoria finale, preceduta dalla sporca immagine di questa guerra, porterà in Iraq la democrazia? Indirete libere elezioni in un paese finalmente pacificato? C'è una probabilità su un milione che accada qualcosa di simile, ce ne sono molte di più che il vulcano non si spenga. Farete allora il protettorato anglo-americano che avete progettato dal 1991? O sarà una gestione pluricoloniale? Farete tutto da soli o userete un altro vassallo locale, com'è stato per voi Saddam? E' odioso essere profeti di sventura, ma qui non si tratta di essere profeti perché la sventura è sotto i nostri occhi. Lo è nell'escalation della guerra in atto e tutti i suoi connotati militari e politici prospettano un quadro delle relazioni internazionali postbelliche sconvolto e sconvolgente. Se siamo solo all'inizio, chi mal comincia è alla metà dell'opera. Non ci viene oggi da concludere che la volontà di pace che corre per il mondo è più forte di tutto questo, anche se lo ripetiamo ogni giorno non come un rituale ma per convinzione. Oggi ci viene da dire semplicemente che quel che accade è una vergogna dell'umanità.

6.04.03

 

Kamikaze
Inorridite, inorridiamo, i kamikaze sporcano la guerra irachena. Non sono necessari quattromila, bastano due, magari una donna incinta. Già quella parola giapponese è odiosa e ora è anche araba per noi. Terrore, fanatismo, il valore assoluto della vita propria e altrui negato e calpestato senza pietà. Ma com'è possibile, com'è concepibile, come può accadere? Ma allora quel giovane o quella donna non è un mio simile, è un alieno sulla terra, non un essere umano ma una bomba vivente, carne e ossa che si fanno macchina, arma che si distrugge e con sé distrugge la vita viva. Contro qualsiasi bersaglio? Non ha importanza, l'evento è inconcepibile di per sé. Un obice sparato contro un carro armato che avanza è un atto di guerra, un corpo d'uomo o donna che contro quel carro spara se stesso è tutt'altro. Se poi la morte suicida afferra la vita di innocenti su un autobus è una mostruosità assoluta che non ha paragone con niente, neppure con un asilo sventrato per caso dalla guerra all'intorno. Inorridite e inorridiamo. Non sarei un kamikaze per nessuna ragione al mondo, tra cui anche quella che non avrei il coraggio fisico. Ma pensavo anche che non avrei mai maneggiato un'arma in vita mia e invece mi è capitato anche se una sola volta. Dunque non sono sicuro che le circostanze non possano travolgerti e stravolgerti oltre ogni previsione o limite. Specialmente chi considera buona e giusta questa guerra oscena ma anche chi la avversa dubito che possa immedesimarsi con chi la subisce direttamente. Qui da noi, in occidente e in Italia, c'è ancora una generazione di nonni che ne ha fatto qualche esperienza ma non c'è per fortuna nessun altro a cui la guerra sia “venuta addosso”. Non la guerra astratta ma uno straniero in armi sotto casa e dentro casa, corpo a corpo. Al confronto, l'occupazione di Roma fu per noi una parentesi lieve. L'immedesimazione, ecco la parola impossibile, lo sforzo mentale che non si può compiere. Se fosse possibile allora si capirebbero facilmente molte cose senza il soccorso petulante di filosofie occidentali e orientali o di banalità politiche. Si capirebbe che chi patisce una violenza può rassegnarsi, ma chi si sente investito da una massima ingiustizia e non reagisce è un'anima morta. Per non esserlo reagirà in ogni fibra e ogni mezzo gli parrà lecito e ogni prezzo adeguato, anche quello della propria vita altrimenti priva di ogni valore. L'ingiustizia è una bomba umana.
Inorridite e inorridiamo. Ma di che? Dei kamikaze? Della guerra e delle sue forme? Di noi stessi?

 

10.04.03

 

Una nuova stella
La guerra all'Iraq non è durata fino all'ultimo bambino e può dirsi militarmente conclusa. Forse non ci sarà una resa formale, forse restano focolai di resistenza o forse si riaccenderanno. Hanno combattuto al di là di ogni previsione, gli iracheni, ma non hanno fatto saltare né pozzi né ponti e non hanno trasformato Baghdad in una trincea. Non hanno usato armi proibite (quelle invocate per legittimare l'invasione) e non si sono immolati quattromila kamikaze. La più grande potenza militare della storia ha avuto ragione non di un dittatore e di un regime ma di un popolo mille volte più debole. Lo ha fatto seminando il terreno di molti morti, militari e civili, senza riguardo umano. Ha sbagliato molti calcoli ma soprattutto ha infarcito la guerra, nata da una grande menzogna, di altre piccole menzogne e colpevoli silenzi. Chiamatela vittoria ma non le somiglia, la vittoria ha un altro volto. E' presto per parlare del dopoguerra, tra rovine fumanti ed effetti immediati ancora imprevedibili, ma già si annuncia gravido di mali che sono il contrario di una pacificazione democratica in Iraq, nell'area mediorientale, all'interno dell'Occidente e oltre. I nostri commentatori non sembrano rendersene conto e giocano sulle parole negli studi televisivi o nel Transatlantico di Montecitorio. Gli Stati uniti di Bush concepiscono l'Iraq come un territorio annesso, una nuova stella o striscia sulla loro bandiera. Ne affidano il governo di fatto, quali che siano le formule di transizione e i rivestimenti che escogiteranno, a un mercante di cannoni e alle compagnie petrolifere già insediate. Lasceranno all'Onu discreditata un ruolo ornamentale, anche se usano altri aggettivi per rabbonire il maggiordomo inglese. Ci sarà una pausa militare, ma l'Iran e la Siria sono già nel mirino e per il resto, sul piano diplomatico, le potenze occidentali avverse alla guerra stenteranno ad aver voce in capitolo sugli equilibri politici e sugli affari in tutta l'area. Israele resterà il più saldo retroterra di questa impresa e le probabilità che si riapra un processo di pace in Palestina sono infinitamente minori che quelle di un consolidamento del regime di occupazione israeliano che dura da quarant'anni. L'avversione dell'opinione mondiale a questo stato di cose e i movimenti che ne derivano continueranno ad avere gran peso, anche se una guerra è finita, perché la strategia che l'ha prodotta è di lunga durata. Ma questa avversione non sarà risolutiva finché non contagerà il cuore dell'impero, finché l'opinione americana non sarà capace di una rigenerazione democratica oggi affidata a una sua parte generosa e consapevole e però minoritaria. Ma questo problema, che cosa sia oggi l'America sotto gli attuali gruppi dirigenti e in generale, merita ben altra riflessione che non i pochi cenni sull'universo che si possono fare in un articolo di giornale. A me appare come una Atlantide emersa invece che sommersa, non è Occidente né Oriente, vede solo se stessa al centro del mondo con la cultura della conquista del West e della Bibbia e una breve storia compressa in due secoli. Come occidentale mi sembra più lontana della Cina.

 

24.04.03

 

Senza confini
La sinistra italiana che conosciamo è morta. Non lo ammettiamo perché si apre un vuoto che la vita politica quotidiana non ammette. Possiamo sempre consolarci con elezioni parziali o con una manifestazione rumorosa. Ma la sinistra rappresentativa, quercia rotta e margherita secca e ulivo senza tronco, è fuori scena. Non sono una opposizione e una alternativa e neppure una alternanza, per usare questo gergo. Hanno raggiunto un grado di subalternità e soggezione non solo alle politiche della destra ma al suo punto di vista e alla sua mentalità nel quadro internazionale e interno. Non credo che lo facciano per opportunismo e che sia imputabile a singoli dirigenti. Dall'89 hanno perso la loro collocazione storica e i loro riferimenti e sono passati dall'altra parte. Con qualche sfumatura. Vogliono tornare al governo senza alcuna probabilità e pensano che questo dipenda dalle relazioni con i gruppi dominanti e con l'opinione maggioritaria moderata e di destra. Considerano il loro terzo di elettorato un intralcio più che l'unica risorsa disponibile. Si sono gettati alle spalle la guerra con un voto parlamentare consensuale. Non la guerra irachena ma la guerra americana preventiva e permanente. Si fanno dell'Onu un riparo formale e non vedono lo scenario che si è aperto. Ciò vale anche per lo scenario italiano, dove il confronto è solo propagandistico. Non sono mille voci e una sola anima come dice un manifesto, l'anima non c'è da tempo e ora non c'è la faccia e una fisionomia politica credibile. E' una constatazione non una polemica. Noi facciamo molto affidamento sui movimenti dove una presenza e uno spirito della sinistra si manifestano. Ma non sono anche su scala internazionale una potenza adeguata. Le nostre idee, i nostri comportamenti, le nostre parole, sono retrodatate rispetto alla dinamica delle cose, rispetto all'attualità e alle prospettive. Non ci vuole una svolta ma un rivolgimento. Molto profondo. C'è un'umanità divisa in due, al di sopra o al di sotto delle istituzioni, divisa in due parti inconciliabili nel modo di sentire e di essere ma non ancora di agire. Niente di manicheo ma bisogna segnare un altro confine e stabilire una estraneità riguardo all'altra parte. Destra e sinistra sono formule superficiali e svanite che non segnano questo confine. Anche la pace e la convivenza civile, nostre bandiere, non possono essere un'opzione tra le altre, ma un principio assoluto che implica una concezione del mondo e dell'esistenza quotidiana. Non una bandiera e un'idealità ma una pratica di vita. Se la parte di umanità oggi dominante tornasse allo stato di natura con tutte le sue protesi moderne farebbe dell'uccisione e della soggezione di sé e dell'altro la regola e la leva della storia. Noi dobbiamo abolire ogni contiguità con questo versante inconciliabile. Una internazionale, un'altra parola antica che andrebbe anch'essa abolita ma a cui siamo affezionati. Non un'organizzazione formale ma una miriade di donne e uomini di cui non ha importanza la nazionalità, la razza, la fede, la formazione politica, religiosa. Individui ma non atomi, che si incontrano e riconoscono quasi d'istinto ed entrano in consonanza con naturalezza. Nel nostro microcosmo ci chiamavamo compagni con questa spontaneità ma in un giro circoscritto e geloso. Ora è un'area senza confini. Non deve vincere domani ma operare ogni giorno e invadere il campo. Il suo scopo è reinventare la vita in un'era che ce ne sta privando in forme mai viste.