EUGENIO SCALFARI
La Repubblica
02-01-05
Spetta dunque a me, visto che l' ho aperto, concludere questo dibattito sul laicismo che si è
sviluppato con ampiezza sulle pagine di «Repubblica» per oltre due mesi
valendosi di firme qualificate sia di laici sia di cattolici, di credenti e di
non credenti, e che ha avuto larga eco anche su altri
giornali e riviste. Non nego che l' avvio a riprendere
un tema plurisecolare ci è stato fornito dall' uso delle religioni nelle battaglie
politiche e financo nelle guerre vere e proprie,
condotte da terroristi organizzati e da eserciti regolari; un uso anch' esso
plurisecolare, anzi addirittura plurimillenario che
peraltro si sperava caduto finalmente in desuetudine. Non era così ed è infatti ripreso con nefasto vigore in questi ultimi anni e
in questi ultimi mesi. Ma quel tema, del rapporto tra
la religione e i principi della civile convivenza, tra le gerarchie che
amministrano le chiese e quelle che gestiscono la «polis», infine tra il
peccato e il reato punito dalla legge, è ben più ampio di quello delle guerre
di religione che ne radicalizzano uno dei molteplici
aspetti. Quel tema coinvolge la concezione stessa del divino, il senso della
vita, l' autonomia della coscienza individuale e
infine la crisi della modernità. Credo di non allargare indebitamente l' argomento che ci occupa se dico che in questo dibattito
c' è anche un ospite inquietante del quale non abbiamo neppure pronunciato il
nome ma la cui presenza è stata data quasi per sottintesa in tutti gli
interventi. Quel nome deve essere ora reso esplicito poiché
è con esso che dobbiamo fare i conti, laici e religiosi, credenti e non
credenti, assertori di verità assolute e relativisti. E' con il nichilismo che dobbiamo fare i conti poiché è quello il nome che riassume
la crisi della modernità. Il nichilismo, la «décadence»,
la disarticolazione dei valori, sono stati d' animo
che hanno pervaso i nostri spazi mentali e modificato profondamente i nostri
comportamenti. Hanno aggredito tutte le società - quelle occidentali in
particolare ma non esse soltanto - che siano emerse dal livello della pura
sussistenza e dell' appagamento dei soli bisogni
primari. Sono penetrati nell' arte, nella filosofia,
nella politica, nei rapporti interpersonali. Hanno capovolto i rapporti tra l' uomo e la tecnologia trasformando quest'
ultima in un fine e gli uomini in altrettanti strumenti al suo servizio. E'
dagli ultimi decenni del XIX secolo che il nichilismo
ha fatto la sua comparsa; negli anni a cavallo tra i due secoli sembrò aver
raggiunto il culmine, ma non era così. Ha continuato ad espandersi e a produrre
i suoi effetti per tutto il Novecento che ne ha trasferito la virulenza al
secolo in cui siamo appena entrati. Da questo punto di vista mi sembra dunque
sbagliato trattare il Novecento come un secolo breve che sarebbe cominciato nel
1914 con la guerra e la fine della «Belle époque» e
si sarebbe concluso con l' implosione del comunismo
sovietico nel 1989. Se infatti si guarda alla ferita
profonda che si è aperta in Occidente con l' avvio del nichilismo, le date
cambiano, il Novecento comincia a metà del XIX e non sappiamo ancora quando si
concluderà. Parliamo spesso di transizione politica forse senza renderci
pienamente conto che stiamo attraversando da 150 anni una fase di transizione
epocale che ha travolto culture, religioni, modi di vivere e di sentire. Il
dibattito sul laicismo, nelle forme in cui oggi si può e si deve condurre, non
è dunque simile a quelli che ebbero luogo ai tempi del
positivismo o, risalendo ancora più indietro, quando la società dei Lumi ne
pose i fondamenti rovesciando le culture dell' «Ancien
Régime». Dopo Auschwitz, dopo i lager, dopo
Hiroshima, tutto è cambiato. Il problema della gratuità del Male ha intaccato
la fede nella Provvidenza. Le nozioni stesse di peccato e di salvezza sono
state sconvolte. Occorre quindi avere il coraggio intellettuale di porre questo
dibattito su nuove basi, essendo ben consapevoli che non si uscirà dal
nichilismo rimettendo indietro le lancette dell' orologio
e brandendo il vessillo del Dio degli eserciti contro il vessillo di chi affida
allo stesso Dio un' appartenenza e un colore diversi. Dio è dunque una
costruzione così antropomorfica che lo si può
arruolare nella guerra santa di Al Qaeda o alla testa
dei marines seguendo l' esempio di Costantino il
grande o di re Carlo dalla barba fiorita? Chiaro che no.
* * * In questo nostro dibattito c' è un punto che merita, io credo, d' esser chiarito. Nell' articolo di apertura
ho usato il termine laicismo ma in molti degli interventi successivi al posto
di quella parola e del concetto che essa esprime è stata usata la parola
laicità. La quale esprime un concetto diverso. La
laicità appartiene sia ai credenti che ai non credenti
e distingue tutti coloro che aderiscono e praticano la distinzione tra spirito
religioso e attività politica. Il «date a Cesare ciò
che è di Cesare» con quel che segue è appunto il fondamento della laicità, la
separazione di due sfere di influenza, i due «soli» dei quali parla Dante nel
«De Monarchia» a proposito del Papato e dell' Impero.
Va da sé che l' Impero cui Dante si riferisce è pur
sempre un regno cristiano il quale rivendica una sua autonomia rispetto alla
gerarchia ecclesiastica chiamata a gestire la comunità dei fedeli in quanto
tali. La dialettica tra quei due poteri riguarda dunque i rispettivi confini e
la rispettiva legittimità; i contrasti avvengono quando
quei confini siano messi in discussione ed eventualmente violati ora dall' uno
ora dall' altro come infinite volte è storicamente accaduto. Ho già osservato
(e Pietro Scoppola nel suo intervento ha approfondito questo aspetto
della questione) che la convivenza tra i due «soli» danteschi ha favorito l'
evoluzione delle chiese cristiane, allontanandole da quel modello teocratico
che ha invece ingessato l' Islam nonostante la ricchezza originaria e l'
immenso deposito culturale di cui dispose nei primi secoli del suo fulgore.
Sorte in qualche modo analoga fu riservata alle chiese che, dopo lo scisma,
restarono sotto l' influenza bizantina e di lì
trasferirono in Russia quell' ortodossia a canone
inverso, accettando o dovendo subire una forma di teocrazia rovesciata che
aveva l' imperatore a capo della gerarchia ecclesiastica. Proprio da questi
confronti emerge la superiorità culturale delle chiese cristiane di occidente e in particolare di quella cattolica cui la
compresenza di un potere civile, prima legittimato anch' esso dall' investitura
sacra e poi da quella democratico-popolare, ha
consentito un' integrazione e un' articolazione con la modernità, con la libera
scienza, con culti e religioni diversi e quindi una sensibilità ai diritti
civili e alle libertà che vi sono connesse, che il riflusso teocratico avrebbe
impedito e spento. In questo quadro il «date a Cesare»
è diventato il fondamento di quella laicità partecipata al tempo stesso da
credenti e da non credenti che, per quanto in particolare riguarda questi
ultimi, costituisce uno degli elementi essenziali del loro laicismo. Il quale
tuttavia contiene la laicità ma non si esaurisce in
essa, così come la laicità costituisce la proiezione civile e politica dei
cristiani che rifiutano il temporalismo, coerenti con
una fede imperniata sul messaggio evangelico dell' amore, del perdono, della
dignità della persona e del suo libero arbitrio nella scelta del Bene, nel
faticoso cammino sorretto dalla grazia verso la salvezza e l' eterna
beatitudine al cospetto di Dio. * * * Nel suo notevole intervento in questo
dibattito Giuliano Amato sostiene che i credenti «hanno una marcia in più»
rispetto ai non credenti nel loro empito di fratellanza e di attivo
amore del prossimo. Concorda con lui Arrigo Levi, che pure definisce «fede
civile» quella dei laici. Scrive Levi che «l' amore
che sostanzia quella marcia in più ha una portata mille volte più pervasiva della ragione e della severità su cui si fonda l'
etica laica». Può darsi che sia così oppure può darsi
di no: quest' immagine della marcia in più appartiene
piuttosto al campo delle sensazioni non provate e non provabili. Si potrebbe
obiettare (con Kant) che un' azione
è etica solo quando non rechi beneficio a chi la compie. Mentre questo requisito manca per definizione in chi si affida alle
opere per meritarsi la salvezza. Ma discutere di marcia in più o in meno non mi
sembra inerente al tema di fondo del dibattito, a meno
di non considerare il sentimento religioso soprattutto come un elemento utile
alla coesione sociale. Il che è probabilmente vero ma
sminuisce il contributo spirituale che la fede nella trascendenza può diffondere
nella società. Ebbene, questa fede nella trascendenza
è esattamente il centro del problema. La crisi della modernità e il diffondersi
del nichilismo promanano infatti dall' affievolirsi
progressivo di quella fede. La morte di Dio, prima che un proclama, è una
constatazione. La morte di Dio (attenzione) non equivale alla morte del
sentimento religioso né all' assenza del divino; tantomeno equivale al dominio esclusivo d' una razionalità
che tutto spiegherebbe dissipando ogni mistero e illuminando ogni zona d'
ombra. I «philosophes» dell' Enciclopedia,
salvo i più grossolani tra loro come d' Holbach, non
affermarono mai questa banalità; tantomeno l' aveva
affermata Spinoza. Quanto a Nietzsche,
la sua religiosità è fuori discussione. In realtà la morte di Dio postula il
deperimento della trascendenza e quindi dell' assoluto.
Il nascere d' un nuovo tipo di metafisica, cancellata
quando si analizzano le modalità di funzionamento della «ragion pura» ma
riproposta nell' ambito della «ragion pratica» o del mondo come «volontà e
rappresentazione». E' evidente tuttavia che il deperimento della trascendenza,
quello che lo stesso Giovanni Paolo II ha definito il «ritiro di Dio dal
mondo», il suo sconsolato (o irato) allontanamento di fronte al prevalere del
Male scelto dagli uomini che hanno fatto pessimo uso della libertà di scelta
che Dio stesso ha loro concesso nel momento in cui li ha gettati nella storia;
quel deperimento è stato foriero di profonde modificazioni nei modelli mentali
e comportamentali. I più importanti e i più gravidi di conseguenze etiche,
sociali, politiche e soprattutto culturali, sono stati la filosofia dell' apparenza e il relativismo. Lascio da parte la prima
che ci porterebbe ad un discorso arduo da approfondire in questa sede; ma è il
relativismo che entra in pieno nel nostro tema. Esso è un punto di discrimine decisivo tra la coscienza moderna e i puntelli
della tradizione. Riguarda la disputa antica anzi antichissima tra oggettività
e soggettività e quella, più recente, sulla verità. Esiste una verità assoluta?
Una verità da accertare, da raggiungere passo dopo passo fino al momento in cui
saremo interamente arrivati a possederla? Avremo
allora trovato finalmente la chiave con cui potremo aprire la porta che
nasconde i segreti del mondo e il senso della vita? Le grandi religioni
monoteistiche ci hanno rivelato la strada per arrivare a quella verità; essa è
scritta nei libri sacri e nelle parole dei fondatori e dei profeti. Talvolta si
tratta di parole arcane, misteriose quanto i misteri che vorremmo penetrare;
parole dense di significati, parole ineffabili, da percepire attraverso lo
slancio mistico della fede e attraverso l' interpretazione
«autentica» delle Chiese, autoproclamatesi come il
tramite esclusivo tra la realtà visibile e la vera vita dell' oltremondo. Oppure quella verità
assoluta sarà conquistata dalla scienza nel suo graduale processo conoscitivo
che sta via via affiancando al metodo sperimentale
una sorta di religiosità non mistica ma intuitiva, un affidamento crescente ai
processi induttivi rispetto a quelli deduttivi. Che la verità assoluta sia dominio della fede religiosa oppure d' una formula
matematica capace di tradurre in numeri il divino, resta in ambedue questi
modelli mentali, un' analoga tensione di ricerca dell' assoluto ed è proprio di
lì che passa il crinale che segna la differenza con la filosofia dell'
apparenza. Essa postula la cancellazione (la morte) dell' assoluto,
il relativismo della verità, il dominio del caso rispetto ad ogni ipotesi di
destino, il riferimento all' autonomia della coscienza individuale e la
responsabilità che ogni individuo non solo si assume ma anzi rivendica come
elemento della sua nobiltà. Mentre le altre specie si distinguono secondo la
capacità di volare nell' aria o di camminare e strisciare
sulla terra o di nuotare nelle acque dei mari e dei fiumi e in mille altri
modi, la specie dell' uomo possiede una mente riflessiva capace di pensare se
stessa e una coscienza resa vigile dalla memoria di sé e responsabile verso se
stessa delle azioni che compie e degli effetti che esse producono. * * * Qui
avviene l' incontro con la morale e con il cosiddetto
diritto naturale. Per i credenti e per le chiese che li rappresentano si tratta
di due assoluti; per i laici di concetti relativi, cioè
variabili secondo i luoghi, le epoche, i risultati della scienza sperimentale,
i costumi e soprattutto i risultati delle libere decisioni della coscienza
individuale. Il cardinale Ratzinger, nello scambio di
lettere con Marcello Pera, parla a lungo sul tema della coscienza individuale e
del libero arbitrio. Si tratta infatti del nodo
centrale di controversia tra