C’è un’altra storia recente che spiega molto di quello strano oggetto che è la tv italiana. La storia della nascita e della morte in culla di La 7, la tv dei nani. Tutto parte con l’alleanza tra Roberto Colaninno, numero uno di Telecom, e Lorenzo Pellicioli, presidente di Seat-Pagine gialle. Pellicioli, che sogna di varare il terzo polo televisivo in Italia, nell’agosto 2000 compra da Vittorio Cecchi Gori Telemontecarlo, una rete che perdeva dai 70 ai 100 miliardi all’anno per fare ascolti dell’1, del 2, del 3 per cento. Con Mtv porta a casa due reti, un buon punto di partenza per un futuro in cui anche Rai e Mediaset potrebbero essere costrette a gestire solo due reti a testa.
Telemontecarlo si trasforma in La 7, si dà come simbolo un nanetto, ma non nasconde le ambizioni di sfidare i due giganti. Chiama Mario Brugola a capo della concessionaria che raccoglie la pubblicità, Roberto Giovalli a dirigere la rete, Ernesto Mauri come amministratore delegato, Fabio Fazio a inventare un programma («Fab Show») che in seconda serata faccia aperta concorrenza a Maurizio Costanzo e a Bruno Vespa. Luciana Littizzetto è pronta a inventarsi un meteo da non far rimpiangere il colonnello Bernacca. Gad Lerner è l’uomo dell’informazione. Colaninno e Pellicioli però compiono un errore fatale: invece di partire subito con la nuova rete, di buttarla nella campagna elettorale, di mettere tutti davanti al fatto compiuto, vanno al rallentatore, perdono mesi preziosi nel corteggiamento di Enrico Mentana, a cui chiedono (inutilmente) di dirigere il tg. Sarebbe stato almeno più difficile uccidere la 7 già decollata. Invece Pellicioli resta solo a sognare, Colaninno si raffredda e temporeggia: forse si rende conto che, dopo aver realizzato il suo capolavoro e vinta la scalata a Telecom, nel momento in cui ha comprato Telemontecarlo ha firmato la sua condanna. In Italia, chi tocca la tv muore.

Sta di fatto che la Pirelli di Marco Tronchetti Provera conquista la Telecom, restata orfana di quella che voci maligne, ai tempi del governo di Massimo D’Alema, avevano chiamato «la merchant bank di Palazzo Chigi». E l’11 settembre 2001, insieme alla Torri gemelle di New York, crolla anche l’ultimo sogno del terzo polo: Colaninno torna a Mantova, Pellicioli si dimette. Arriva Enrico Bondi, nuovo amministratore delegato di Telecom, e dice che i conti non tornano. Il progetto della 7 è troppo costoso e ancor più rischioso: mille miliardi in un paio d’anni, per cercare di arrivare tutt’al più al 5, forse al 7 per cento di share. E, per di più, remando contro il nuovo padrone della politica, Silvio Berlusconi, che ha vinto le elezioni e si è insediato a Palazzo Chigi.
Il nano che sognava di diventare gigante dava due volte fastidio a Berlusconi: dal punto di vista politico, perché aveva promesso di fare «tv di sinistra», tv d’opposizione; e dal punto di vista del mercato, perché avrebbe sottratto risorse alle reti Mediaset (Brugola aveva già messo insieme 250 inserzionisti, raccolto 230 miliardi per le due reti, 4 miliardi al mese solo per il programma di Fazio). Ma, via Pellicioli, il progetto della 7 muore. Il «Fab Show» viene sospeso prima della prima puntata, Littizzetto è azzerata, i progetti ridimensionati. Gad Lerner lascia il tg («Non voglio fare lo straccione che vive di elemosina», dice). La rete rinuncia alle partite di Coppa Italia, che stava comprando per 30 miliardi. Poi se ne vanno Fabio Volo e Platinette, quiz e format.
Attorno alla culla della 7 arrivano nuove baby sitter che sono, guarda i casi della vita, consulenti di Mediaset: la Booz Allen & Hamilton, società che già lavora per le reti di Milano 2 su incarico di Bruno Ermolli, il tutore aziendale di Marina Berlusconi; ma soprattutto arriva Maurizio Costanzo, l’uomo che più sarebbe stato danneggiato da un eventuale successo del «Fab Show». A chi gli fa notare che potrebbe sembrare inopportuno dirigere Canale 5 e nello stesso tempo dispensare consigli alla 7, Costanzo in un’intervista al Corriere della sera si lascia sfuggire: «Ma Confalonieri lo sa». Non gli viene neanche in mente che non il presidente di Mediaset, ma gli uomini della 7 sono semmai quelli che potrebbero avere qualcosa da ridire sulla sua presenza e sul suo conflitto d’interessi. Ora come direttore di rete è arrivato Andrea Del Canuto, trentenne, esperto in allineamento dei palinsesti, uomo legato a Costanzo. Vice direttore è Tamara Gregoretti, sorella di Sabina Gregoretti, produttrice di Maria De Filippi e della Fascino, società di produzione di Costanzo.

Fazio, Pellicioli e gli altri si sono convinti che Tronchetti Provera sia stato il killer, ma Berlusconi il mandante: nell’operazione Telecom, infatti, è entrata anche Edilnord, società immobiliare del gruppo Fininvest acquistata dalla Pirelli a caro prezzo (ben 425 miliardi). Gli uomini di Tronchetti smentiscono: nessun killeraggio per conto d’altri, non stava proprio in piedi il piano industriale, il nano non aveva alcuna speranza di crescere, nel clima del duopolio-monopolio italiano. Era un progetto debole. Ma allora pensate un po’ che cosa avrebbero fatto se fosse stato un progetto forte, ribattono Fazio Fazio e gli altri che nella 7 ci avevano creduto. E se è solo un problema industriale e non politico, perché allora Tronchetti non ha venduto? C’era chi era pronto a proseguire il sogno: la De Agostini, di cui Pellicioli è consulente. Ha i soldi (oltre 3 mila miliardi portati a casa con l’operazione Seat). E gli uomini (quel Maurizio Carlotti che ha diretto Telecinco, la tv spagnola di Berlusconi, e poi è uscito dall’orbita Mediaset). Ma niente da fare. Non vorrete mica che la facciano sul serio, la 7. Bondi preferisce fare melina, trattando con la e.Biscom di Francesco Micheli, con la Class di Paolo Panerai, con la Esselunga di Caprotti, tutti buoni amici di Berlusconi. Per poi decidere che vendere non conviene: la 7 è stata iscritta nel bilancio Telecom a un prezzo così alto che è preferibile buttare alcuni miliardi (il meno possibile, 80-100 all’anno) per alcuni anni per mantenerla, piuttosto che venderla e mostrare subito una clamorosa minusvalenza (un buco di almeno 500 miliardi). E poi non si sa mai, Telecom potrà aver bisogno di attenzione da parte del governo e per Tronchetti Provera una tv è sempre una buona pistola da mettere sul tavolo, al momento opportuno. Ma per ora la pistola deve risultare scarica: tagliato ulteriormente il budget (40 miliardi per l’informazione, 30 per i programmi); abbassate le pretese (obiettivo, uno share del 2-3 per cento: poco più del margine d’errore dichiarato dalle rilevazioni Auditel, che è del 2 per cento); via perfino Nino Rizzo Nervo, che non piaceva al ministro delle Comunicazioni Maurizio Gasparri ed è stato sostituito alla direzione del tg da Giulio Giustiniani.