Da http://www.undicom.it/canali/dossier/kosovo.html
L'invisibile
conflitto in Kosovo
La
neo-guerra viaggia sui binari linguistici della pace
di Fabio Pelagalli
I contesti bellici sono sempre stati una lente di
ingrandimento con cui osservare, meglio che in altri periodi, alcuni meccanismi
dell’informazione.
Quasi tutte le guerre di questo secolo presentano due particolari strumenti: la
censura, cioè l’occultamento dei fatti sgraditi e
sgradevoli, imposto dai poteri politico militari; la manipolazione (simile alla
propaganda) cioè la pubblicazione dei soli fatti o notizie favorevoli alla
propria parte con uso frequente di esagerazioni e forzature, fino alla vera e
propria falsificazione della realtà.
La Guerra del Golfo del 1991, ha segnato invece una svolta.
In quel conflitto, la NATO ha usato la strategia del
News Management, cioè la produzione di eventi o pseudo
eventi allo scopo di farli diventare informazione. Non è censura, non impedisce
ai giornalisti di scrivere, non è manipolazione perché non punta sull’emotività
ma alla credibilità. I vertici militari americani
hanno attuato una censura all’origine; hanno limitato la libertà di stampa alle
informazioni che loro stessi, fonte principale dei
giornalisti, passavano. Notizie e immagini, però, studiate
a tavolino, costruite, montate ad arte, ed in numero spropositato, tante da
sommergere lo spettatore e dargli l’impressione di vedere tutto ciò che accade.
Emblematica fu la foto del cormorano nel petrolio,
un’immagine di parecchi mesi prima. Nella memoria collettiva continua, però, a
vivere la convinzione di aver assistito a una diretta
televisiva costante, di essere stati informati, immagine dopo immagine,
dell’evolversi del conflitto. In realtà la Guerra del Golfo è stata la guerra
meno visibile del secolo, nonostante Peter Arnett e le immagini verdoline della CNN. E’ soprattutto in
quel conflitto, quindi, che il giornalismo di guerra ha rivelato una
particolare funzione della stampa: creare mondi virtuali e paralleli, mondi che
appaiono verosimili in cui lo spettatore si muove credendoli reali. Pochissimi
dissensi si levarono contro quella guerra.
Anche il conflitto in Kosovo, è rimasto invisibile.
Addirittura il motivo centrale dell’ingerenza, la pulizia etnica, è stato
assente. Le atrocità commesse dalle forze di Belgrado contro le popolazioni
civili del Kosovo non sono mai state riprese, non
esistono immagini; solo alla fine della guerra si è potuto filmare le fosse
comuni e le camere della tortura. All’inizio del conflitto erano le
testimonianze dei deportati, scavate nei loro volti in modo da non lasciare
dubbi, che raccontavano ciò che era successo.
Questa è stata una sconfitta per la televisione che da oltre dieci anni tentava
di persuaderci che informare era essenzialmente farci assistere all’evento. La NATO si è accreditata come unica fonte per i giornalisti,
ma questo non è mai esplicitamente detto. Negli incontri giornalieri dei
vertici militari con la stampa si parla di briefing, cioè
“istruzioni”. I media in Kosovo
hanno accumulato una serie impressionante di errori che vanno dalla verifica e
confronto delle informazioni alla molteplicità delle fonti, cioè il minimo che
viene richiesto a una matricola di giornalismo!
Guerra invisibile, quindi, con le tecniche della censura all’origine, con il
news management, ma soprattutto, ed è questa la vera novità, con una nuova
forma di manipolazione. Nel conflitto nei Balcani,
non sono più i fatti, le notizie ad essere manipolati, ma è il linguaggio, le
parole. La guerra è diventata invisibile anche perché come parola non è quasi
mai usata. “Guerra” viene soltanto al nono posto nella classifica di frequenza
d’uso da parte dei portavoce della NATO. Se in passato, i periodi bellici producevano neologismi che
poi sopravvivevano grazie al fenomeno della metafora (settore, silurare,
insabbiare, o frasi come tornare alla base, in picchiata, terra bruciata), in Kosovo è accaduto il contrario. La lingua è stata messa al
lavoro direttamente, dal suo interno, dai suoi significati, stravolgendoli,
manipolandoli, impedendone le distinzioni. In questo modo la guerra ha perso il
suo carattere di evento, di eccezionalità,
collocandosi come fatto comune dentro la normalità del linguaggio, dentro la
normalità quotidiana.
Questa è stata una guerra della lingua, una guerra nella lingua, una guerra
attraverso la lingua. Un conflitto combattuto a colpi di ossimori
e metonimie: guerra per la pace, forza per i deboli, effetti collaterali,
ordigni soft, sono solo alcune delle espressioni che ci hanno sommerso.
La manipolazione del significato semantico delle parole, ha anticipato,
veicolato e giustificato l’intervento bellico. Pochi si sono resi conto che
“ingerenza umanitaria”, vuol dire impegno civile in loco, cooperazione,
solidarietà, costruzione di nuovi rapporti sociali, e non violenza pulita,
asettica, che viene dal cielo, senza odore né sangue. La stessa ufficialità
delle dichiarazioni di guerra (…la dichiarazione di guerra è stata consegnata
agli ambasciatori di…) è stata annullata. La guerra in Kosovo,
infatti, non è mai stata dichiarata. Tutto si è svolto attraverso briefing
quotidiani condotti con estrema tranquillità, brevi dichiarazioni di una
semplicità spiazzante, conferenze stampa in cui l’angoscia, il timore, la
preoccupazione, l’indignazione non hanno trovato mai
espressione linguistica.
Parole come vincere, vittoria, sconfitta, sacrificio, patria, nemico, coraggio,
virtù, eroe, resistenza, sono quasi del tutto scomparse. Nei
briefing, le parole più usate, quelle che poi sono maggiormente comparse su
giornali e TV, sono state: profughi/rifugiati (fino a qualche giorno prima si
diceva “clandestini”), civili, campagna militare, missione, obiettivi, target,
operazioni, successo, cifre, percentuali. Il linguaggio usato
assomigliava più a quello di un consiglio di amministrazione
che a quello di uno stato maggiore! Tale decontestualizzazione
delle parole dai loro significati comporta un altro effetto: le critiche, i
dissensi appaiono fuori luogo, inutili, inefficaci.
L’uso di parole opposte alla guerra come pace, diplomazia, trattato,
resistenza, appare inutile, perché il conflitto agisce già attraverso queste
parole. “Ingerenza umanitaria”, “guerra per la pace”, sono esempi che mostrano
come il lessico bellico si sia già appropriato dei
termini opposti alla guerra.
Alla fine, quando le truppe della KFOR sono entrate in Kosovo,
si sono verificati alcuni incidenti. Combattimenti tra UCK e ultimi militari
serbi, civili serbi che fuggono dalle vendette dei kosovari,
esecuzioni sommarie, morti e feriti causati dalle mine. Sembrava che la guerra
continuasse. Ma i TG parlavano di “vittime della
pace”. Prima si moriva “per la pace”, oggi, invece, il nuovo codice linguistico
dei media impone di morire “per colpa della pace”!
La guerra in Kosovo ha aperto nuovi interrogativi su
cui bisogna riflettere per evitare di ripetere gli stessi meccanismi del
passato. Durante una guerra i mass media non devono
essere strumenti di sostegno al potere politico militare. Dovrebbero invece
svolgere una funzione di costruttori di pace. Inoltre
bisognerebbe ridefinire il ruolo dell’informazione all’interno non solo dei
conflitti futuri che all’orizzonte appaiono sempre più numerosi, ma anche nei
periodi di “pace” per evitare di rimanere incastrati nei meccanismi che i
poteri utilizzano per organizzare il consenso.
pubblicato
su Undiversità Comunicazione nel novembre 1999