ARTICOLO 11 – Come e perché è stato ignorato e svuotato il ripudio costituzionale della guerra

 

Conversazione con Domenico Gallo

 

 

Non è soltanto

un suggerimento

 

 

L’anomia, l’assenza di norme, consente cinismo nei comportamenti politici e sordità ai valori nei pronunciamenti giuridici. In questa conversazione si accenna alle tappe del declino dell’imperativo di pace scritto nella Costituzione; si constata la necessità di risalire questa china.

 

 

Nei Principi Fondamentali della Costituzione, la Repubblica Italiana, risulta «fondata sul lavoro» e si «riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro»; sono garantiti «i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali»; si «richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale», si riconosce  il «diritto d'asilo» allo «straniero, al quale sia impedito nel suo paese l'effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana»… I Principi Fondamentali parlano anche di guerra e di pace.

 

 

La pace è un bene fondamentale del popolo italiano, tanto fondamentale che appartiene allo Stato-Comunità, cioè al popolo italiano nel suo complesso. Infatti nell’art. 11 della Costituzione il soggetto che ripudia la guerra non è la Repubblica, il Governo o lo Stato, bensì l’Italia. Questa espressione compare solo due volte nella Costituzione, all’art. 1 (l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro) e all’art. 11 (l’Italia ripudia la guerra). Perciò lo Stato-ordinamento (il circuito Parlamento-Governo-Pubblica amministrazione) non dovrebbe metterlo in discussione, ma impegnarsi a servirlo ed a perseguirlo attraverso la costruzione della giustizia fra le nazioni, come richiede l'articolo 11 della Costituzione.

 

Appunto: l’articolo 11 sembra essere considerato oggi, nei fatti, un modo di dire, un consiglio di buone maniere…

 

Non solo nei fatti, anche nella dottrina o,come si dice, nella «della letteratura scientifica». A parere di alcuni studiosi (Balladore Pallieri), nessuna delle proposizioni dell'articolo 11 della Costituzione ha valore precettivo, mentre altri (Allegretti) sostengono l'esatto contrario.

Quanto ai «fatti» cui accennavi, nell'ordinamento politico (nella costituzione materiale) il principio del ripudio della guerra è stato per lungo tempo considerato vigente e (relativamente) cogente, anche perché la situazione internazionale non ha consentito di metterlo in discussione.

Purtroppo, a partire dalla guerra del Golfo, si è verificata una degradazione del principio del ripudio della guerra, poiché la guerra, con il trucco della benedizione ONU, è stata contrabbandata in azione di pace.

 

Un gioco di prestigio, passato inosservato qui da noi, per avere avuto un consenso “bipartisan”, come si dice con molto compiacimento e scarso ritegno.

 

Dall’inizio degli anni novanta il mondo politico, con l'attiva partecipazione di una parte della sinistra, e con il forsennato schieramento dei media, ha lavorato per “sdoganare" la guerra.  Ricordi l'ignobile dibattito politico-giuridico sulle vicende della Bosnia in cui le sofferenze dei bosniaci sono state strumentalizzate per legittimare l’intervento salvifico della guerra?. Nei fatti non furono i bombardamenti della NATO che posero fine alla guerra, bensì il raggiungimento di un compromesso fra le parti in conflitto.

Infine, con l'intervento del Kosovo, per il quale D'Alema si è vantato, nel suo libro-intervista, di aver infranto il tabù della guerra.

 

Aperta la stagione della “disinibizione”, il voto per partecipare alla guerra contro l’Afghanistan è parso quasi un atto dovuto.

 

Quando siamo arrivati al 7 novembre 2001, questo tabù della guerra era già stato completamente rimosso dalle istituzioni politiche: il Governo ha chiesto e ottenuto un voto (bipartisan, appunto) per partecipare ad una cosa che non veniva chiamata più operazione umanitaria, ma con il suo vero nome di guerra, «guerra contro il terrorismo».

Dulcis in fundo è arrivata un'ordinanza delle Sezioni Unite della Cassazione che ha cancellato ogni valore precettivo dell'art. 11 (semplicemente ignorandolo) ed ha completamente liberalizzato le modalità di conduzione delle ostilità belliche, crimini di guerra compresi. L’ordinanza delle Sezioni Unite, sottraendo ad ogni controllo giudiziario la conduzione delle ostilità, costituisce l’ultimo tassello che rende “gestibile” la guerra nel nostro ordinamento, in barba ai principi fondamentali.

 

Provo a capire. Non si tratta più solo dell’opinione di alcuni studiosi, né solo dei comportamenti di molti politici. Anche da un pronunciamento della Cassazione l’articolo 11 viene ridotto a un’esortazione, un consiglio che si può tranquillamente anche ignorare.

 

Nel diritto vivente il ripudio della guerra è diventato un principio «programmatico» – come tale accettabile e accettato, senza conseguenze, da tutti – perdendo il carattere di principio «precettivo», cioè vincolante. Ma, quel che è ancora più grave è che le Sezioni Unite hanno disconosciuto anche il valore precettivo  dei trattati internazionali che regolano i conflitti armati (come le Convenzioni ed i Protocolli di Ginevra), stabilendo che le relative norme non legano le mani al Governo.

 

Significa che chi si appella all’articolo 11 contro la guerra… (per intuibili ragioni di contesto rifuggo dall’immagine dell’«arma spuntata») non fa nulla più che una dichiarazione d’intenti, una manifestazione dei propri buoni sentimenti? Significa che, sotto il profilo del diritto, l’argomento è chiuso?

 

No davvero. Il «ripudio della guerra» è un bene che appartiene in dote al popolo italiano, che ha la facoltà e la responsabilità – il dovere, io penso – di ripristinarlo e di renderlo effettivo, delegittimando le scelte del Palazzo che si muovono in senso contrario.

 

Una facoltà teorica, un dovere morale, che può solo augurarsi che “i Poteri” ci ripensino, eventualmente attraverso processi, ricorsi…?

 

L'ultima cosa da fare è di aspettarsi un intervento salvifico dei giudici. Non soltanto per l'indecente pronunzia delle Sezioni Unite di cui ho detto, ma soprattutto perché, data l'importanza della posta in gioco, l'unico giudice può essere solo il popolo italiano.

 

Non è anche questo semplicemente un auspicio?

 

Il ripudio della guerra come risulta dall’articolo 11 dalla Costituzione non è una questione riservata né da riservare ai giuristi. Il problema del valore vincolante di questo «principio fondamentale» è un problema politico. È importante che la mobilitazione civile, morale e culturale contro la guerra rialzi la bandiera dell'art. 11, che i “riformatori” di casa nostra hanno buttato nel fango.

 

Un movimento per la pace diventa – deve diventare – così anche un movimento per il diritto.

 

La volontà di pace non è tensione verso un oggetto generico. La lotta per la pace deve avvalersi della superiore legittimazione che deriva da principi fondamentali, da valori  che danno un senso alla vita di un aggregato di uomini e donne organizzati in comunità.

 

Abbiamo maturato la convinzione, in Emergency, che il richiamo ai principi costituzionali possa interpretare ed esprimere l’attenzione, la generosità e la tensione morale di chi apprezza e sostiene i nostri interventi umanitari.

 

Condivido senz’altro questa impostazione. Il problema è come agire per attuarla, una volta tolta di mezzo ogni illusione demiurgica.

Dobbiamo ingegnarci – sì, «dobbiamo», perché mi considero a pieno titolo parte del «movimento per la pace » – ... dobbiamo ingegnarci di costruire canali di partecipazione, e dobbiamo incardinarli attorno a un’idea semplice e fondamentale: il superiore valore legittimante del ripudio costituzionale della guerra.

 

Il ripudio della guerra apparterrebbe dunque «al popolo», come appartiene al popolo, secondo la Costituzione, la sovranità. Un mezzo esiste per rivendicare questa “competenza”, per esercitare di persona questa sovranità, potrebbe essere una legge di iniziativa popolare che detta norme attuative del «principio». Questo mezzo potrebbe essere una legge di iniziativa popolare.

 

Sì, l’'idea della legge di iniziativa popolare va in questa direzione. C'è già stato un precedente: una legge di iniziativa popolare per l'attuazione dell'art. 11 della Costituzione fu presentata alle Camere nella XI legislatura. Ed io l'ho ripresentata, come senatore, nella XII.

 

Due tentativi che però hanno mancato l’obiettivo. Si può riprovare – forse si deve – individuando ciò che è mancato in precedenza.

 

Quel progetto è ancora attuale e io sono pronto a metterlo a disposizione di chiunque possa e voglia sostenerlo. Proprio alle forme e alle consistenze del sostegno sono affidate le possibilità di riuscita. Io credo che occorra partire dal basso ed organizzare mobilitazioni di base incentrate sul rilancio del ripudio della guerra.

Non penso solo a singoli cittadini – sempre poco ascoltati e rispettati – ma anche ad autonomie sociali ed istituzionali.

Penso a enti locali che deliberino di «ripudiare la guerra», in conformità all'articolo 11 della Costituzione e deliberino quindi di non offrire collaborazione alla eventuale guerra contro l'Iraq.

Penso a Università che deliberino di affiggere dei cartelli con scritto «questa università ripudia la guerra, in conformità all'art. 11 della Costituzione».

Penso a singole scuole che assumano una posizione analoga e la rendano pubblica; alle circoscrizioni, alle strutture sindacali di base, alle USL, alle cooperative, etc.

Mi lascia indifferente l’obiezione che queste sarebbero pure, sterili petizioni di principio, perché non si può trascurarne l’aspetto educativo.

In realtà la politica ha bisogno di posizioni di principio e di valori di riferimento per dare un senso all’agire umano. Quella che dobbiamo sconfiggere è una politica fondata sul cinismo e l’anomia.

C.G.