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30.10.2003
Se n'è andato un Galante giacobino
di Nicola Tranfaglia

La scomparsa, a novantaquattro anni (era nato a Vercelli nel settembre 1909) di Alessandro Galante Garrone costituisce per chi scrive,ma anche per i suoi lettori che non erano pochi,una perdita sul piano umano e culturale. È stato nella sua vita uno storico di grande qualità (basta ricordare le ricerche sui rivoluzionari Buonarroti e Babeuf, su Gilbert Romme, sui radicali italiani e Felice Cavallotti, su Mazzini e la Giovine Italia, su Salvemini) ma anche un magistrato dalla salda fede e pratica antifascista, un protagonista della lotta di Liberazione, uno scrittore coerente e intransigente a difesa della democrazia repubblicana e della costituzione del 1948.

In lui la storia e la politica erano insieme unite e distinte come sanno fare i grandi studiosi. Non nascondeva mai ai suoi lettori come ai suoi studenti dell’università di Torino (aveva insegnato per alcuni anni anche a Cagliari) le sue idee di fondo che si rifacevano al pensiero di Carlo Rosselli ma anche di Mazzini e di Salvemini ma, nello stesso tempo, quando scriveva di storia sulle colonne della Stampa o sulla Rivista storica italiana (legato come era all’amicizia degli anni difficili con Franco Venturi) era sempre attento alle fonti e ai risultati delle indagini che compiva sul passato e non nascondeva mai gli errori degli uomini che pure sentiva più vicini.
In questo senso era prima di tutto uno storico e quando io lo conobbi (ormai piu di trenta anni fa) seppe comunicarmi la sua passione per la ricerca e per lo studio ed apprezzare il mio entusiasmo, magari ingenuo, per le vicende dell’antifascismo degli anni venti e della formazione di uno degli uomini più importanti dell’opposizione come Carlo Rosselli incitandomi a proseguire gli studi lasciando quel lavoro giornalistico che da molti anni avevo intrapreso nei più grandi quotidiani prima del Sud e poi del Nord.
Da lui appresi la necessità del lavoro filologico negli archivi ma anche l’attenzione alla scrittura e al ritratto degli attori e dei protagonisti di quel passato che volevo ricostruire.

Galante Garrone era interessato dagli uomini che non avevano accettato l’oppressione autoritaria (e il riferimento al fascismo in cui aveva vissuto la sua giovinezza era in questo senso esplicito) e che avevano elaborato idee di democrazia, di libertà e di giustizia sociale: in questo senso i giacobini, pur con le loro contraddizioni, gli erano apparsi come l’espressione di una minoranza attiva e realizzatrice.

Allo stesso modo i radicali, di cui aveva ricostruito la storia, dedicando una brillante biografia a Cavallotti, gli sembrarono come un’eccezione positiva in un mondo politico caratterizzato dalla corruzione e dal trasformismo.
Così in Mazzini, cui aveva dedicato lunghe ricerche anche negli ultimi anni, aveva messo in luce il forte accento etico e religioso, di una religione civile che trovava assai poco presente nella società italiana anche dopo la caduta del fascismo. Non a caso aveva dedicato negli anni novanta un saggio al problema della corruzione nella storia dell’Italia contemporanea.
Di lui in una lunga intervista che gli fece Paolo Borgna una decina di anni fa si è parlato come del «mite giacobino»: espressione esatta se si pensa alla sua capacità e volontà di dialogo con i più diversi interlocutori.

Ma che non deve in nessun modo oscurare la sua straordinaria coerenza e persino intransigenza quando lo chiedevano le circostanze.
Attaccato più volte per la sua battaglia antifascista e a difesa della costituzione repubblicana, in nessun momento Galante Garrone è sceso a patti con chi lo attaccava e quando il Comune di Torino alcuni anni voleva attribuirgli il Sigillo della città e l’on. Borghezio si oppose alla decisione, ricordo ancora che non ebbe esitazione alcuna a dir di no all’onorificenza e nello stesso tempo a dichiarare che quell’opposizione non poteva che fargli piacere.

Ecco quel che suscitava la mia ammirazione e il mio affetto filiale era proprio quella sua capacità di coerenza e di apertura al nuovo e al diverso nello stesso tempo che mostrava una particolare qualità umana assai rara da trovare nel mondo universitario come in quello politico anche tra quelli che furono i suoi coetanei.

Anche per questo lo amavano gli studenti ed io ricordo, nei dieci anni in cui insegnammo insieme nella stessa Facoltà appartenendo allo stesso dipartimento di Storia, i giovani e le ragazze che facevano la fila per essere ricevuti e che gli chiedevano la tesi di laurea. Molti tra quelli che oggi sono miei colleghi hanno lavorato con lui e sono diventati a loro volta storici di qualità e tutti, per quel che posso ricordare, apprezzavano insieme le qualità culturali e scientifiche e quelle umane del professore piemontese che non aveva mai nessuna gelosia nella ricerca e aiutava tutti con grande equilibrio.

Negli ultimi dieci anni era profondamente amareggiato dagli sviluppi della politica e del giornalismo in Italia. Gli attacchi sempre più forti sia alla costituzione repubblicana sia all’autonomia e all’indipendenza della magistratura gli apparivano come i sintomi di un’involuzione che avrebbero favorito l’avvento di una nuova destra particolarmente avventurista e pericolosa.
Di qui la sua decisione di essere tra i garanti dell’associazione Libertà e Giustizia per quanto non potesse più partecipare, se non i casi eccezionali, a pubbliche manifestazioni.

Ricordo che mi diceva spesso di sentirsi come un abusivo perché continuava a vivere dopo aver superato prima gli ottanta e poi i novant’anni ma mantenne fino all’ultimo la sua lucidità intellettuale come la sua capacità di indignarsi di fronte alle contraddizioni della classe politica come del mondo intellettuale.

Il rimpianto della sua presenza per chi, come chi scrive, ha imparato tanto da lui è assai grande. Mi conforta vedere nella mia biblioteca le opere storiche che ha lasciato come l’esempio di un uomo mite ma non disposto a cedere sulle sue idee a qualsiasi costo.