11 novembre 2003
Dov´e' finita l´etica nel mondo del mercato
di Umberto Galimberti
GIULIANO Amato, nel suo rigoroso
e appassionato intervento su quel tema importante costituito da "I confusi confini tra etica e impresa", pubblicato da
Repubblica lunedì 20 ottobre, ritiene che l´economia
sia ancora e debba essere compatibile con l´etica,
mentre da parte mia non vedo quale etica possa essere all´altezza
dell´economia divenuta «globale». La
globalizzazione che, a mio parere, rende
impraticabili le etiche che, sia sul versante cristiano, sia sul versante
laico, sono state finora formulate.
In Occidente abbiamo conosciuto
fondamentalmente tre etiche: l´«etica dell´intenzione», che maturata nel solco profondo della
tradizione giudaico-cristiana, ha fatto da sfondo e
forma a tutto l´ordine giuridico europeo. Ancor oggi
i giudici, per giudicare un´azione,
indagano se questa è «volontaria», «intenzionale», «preterintenzionale», cioè
discutono dell´intenzione dell´attore.
La domanda che ci poniamo è: nell´età della tecnica e
dell´economia globale, l´etica dell´intenzione è ancora
praticabile? Direi che la risposta è no, nel senso che non è interessante
sapere che intenzioni aveva Fermi quando ha inventato la bomba atomica, molto
più importante è conoscere gli effetti della bomba
atomica.
Non sta molto meglio l´«etica laica» che qui per brevità riassumo in quella
bella frase di Kant: «L´uomo
va trattato sempre come un fine e mai come un mezzo». Si tratta di un´etica che non è ancora stata
realizzata, se è vero che oggi le merci e il denaro godono di maggior libertà
di circolazione degli uomini, per cui merci e denaro sono già concepite come
finalità superiori alla sorte dell´uomo. E tuttavia, l´etica kantiana, anche se fosse realizzata, si rivelerebbe
un´etica ancora
insufficiente perché: cosa vuol dire che l´uomo è un
fine e tutte le cose sono un mezzo? Oggi, ad esempio, l´aria
è un mezzo o è a sua volta un fine da salvaguardare? Non si dà il caso che
finora abbiamo pensato solo a etiche che regolano i
rapporti tra gli uomini, mentre oggi dobbiamo farci carico anche degli enti di
natura che nessuna etica, da noi finora elaborata, ci ha prescritto di farci
carico. Un tempo gli uomini erano pochi e tutto era
«mezzo» a servizio dell´uomo, oggi gli uomini sono
molti e i mezzi sono ridotti.
Probabilmente
quello che abbiamo concepito fin ora come semplici «mezzi» non sono più
«mezzi», ma «scopi» da salvaguardare.
Quale etica abbiamo a questo proposito?
All´inizio del secolo scorso Max Weber ha proposto l´«etica della responsabilità», poi ripresa da Hans Jonas. Un´etica che nasce da questa considerazione di Weber:
viste le modalità con cui si espande l´economia,
visto quel che sarà il futuro della nostra storia sempre più segnato dal
dominio della tecnica, dobbiamo pensare un´etica che
ci renda responsabili degli effetti delle nostre azioni. A questo punto però
Weber apre opportunamente una parentesi «finché questi effetti sono
prevedibili». Se non che è proprio della tecnica
produrre effetti imprevedibili. Chi avrebbe previsto,
ad esempio, la clonazione, gli organismi geneticamente modificati, e quant´altro i progressi della tecnoscienza
quotidianamente ci offrono? Qui l´etica diventa
«pat-etica», nel senso che, come a più riprese scrive Emanuele Severino:
«Chiede alla tecnica che può di non fare ciò che può», e, in versione
economica, chiede al mercato in espansione di contenere la sua forza espansiva
se questa danneggia le popolazioni più povere. Qui l´etica
non oltrepassa mai il livello dell´invocazione, come
risulta a chiunque abbia partecipato a un comitato bioetico.
Chiedere alla ricerca
scientifica di fermarsi a riflettere è un´invocazione,
chiedere al mercato di occuparsi del mondo povero è un´invocazione.
L´etica non ha forza. Qui allora bisognerà pensare ad
altre etiche, perché quelle che abbiamo a disposizione, quelle che sono state
pensate in Occidente, nel nostro tempo non sono efficaci, per le dimensioni che
ha assunto la tecnica e per le dimensioni che ha
assunto l´economia.
Il mutamento
qualitativo, che deriva dall´aumento quantitativo di
un fenomeno, determina quella che i filosofi chiamano «eterogenesi dei fini»,
ben illustrata da Marx, buon lettore di Hegel, là
dove dice: noi siamo abituati a considerare il denaro come un «mezzo» in vista
di quei fini che sono la soddisfazione dei bisogni e la produzione dei beni,
accade però che se il denaro diventa la «condizione universale» per soddisfare
qualsiasi bisogno e per produrre qualsiasi bene, allora il denaro non è più un
«mezzo», ma diventa il «fine», per accaparrarci il quale, si vedrà se
soddisfare i bisogni e se produrre e in che misura i beni. In questo modo ciò che antropologicamente percepiamo come «fini» (soddisfazione
dei bisogni e produzione di beni), diventano «mezzi» per produrre denaro, se il
denaro è diventato «condizione universale» per realizzare qualsiasi scopo.
Quando infatti qualcosa è «condizione universale» per
realizzare qualsiasi scopo non è più un «mezzo» ma è il primo «scopo» di ogni
attività.
è questo un ragionamento che possiamo applicare anche alla
tecnica: se tutti gli scopi possono essere realizzati solamente a partire da
una disponibilità di strumentazione tecnica, la tecnica non è più un mezzo, ma
diventa uno scopo, il «primo scopo», per realizzare il quale, subordinerò tutti
quelli che prima concepivo come scopi. Ne è un esempio
l´apparato tecnico americano che era un tempo
equipollente all´apparato tecnico sovietico. Allora
nessuno ipotizzava il crollo del comunismo, che è caduto non perché in Unione
Sovietica mancava la libertà, perché la gente stava male o per ragioni
antropologiche di questo tipo, ma perché a un certo
punto il dispositivo tecnico sovietico è risultato così inferiore al
dispositivo tecnico americano che, per la realizzazione delle finalità che il
comunismo si proponeva, non c´erano più i mezzi.
Questo un esempio che dimostra come il dispositivo tecnico, che noi siamo
sempre abituati a pensare come un «mezzo», è diventato uno «scopo», ossia ciò
senza il quale nessuno scopo si realizza.
Ora nel campo economico succede
qualcosa di analogo. Il «mezzo» che l´economia assume come suo indicatore oggi è il denaro.
Non è sempre stato così, lo è solo da quando l´economia
è divenuta, nella seconda metà del settecento, con Adam Smith,
un sistema scientifico. Prima tante erano le azioni umane, e anche di grande valore economico, che avvenivano su scenari non
necessariamente monetari, come ad esempio gli scenari simbolici, i rapporti di
gerarchia, le forme di prestigio. Basti pensare ad Aristotele per il quale il
denaro, essendo il simbolo di un bene, non può produrre beni, «pecunia non parit pecuniam». Dovessimo stare
a questo assunto, la finanza non esisterebbe.
Quando il denaro diventa la
forma unica dell´economico, e l´economico
diventa la forma del mondo, si sviluppa una qualità di pensiero, un tipo di
razionalità (non si dimentichi che la parola «ragione» nasce in ambito
economico, essendo la «ratio» la contropartita in uno scambio: redde rationem) che si limita a
far di conto, quella che Heidegger chiama «pensiero
calcolante» (Denken als Rechnen) che sa fare solo conti, che sa solo calcolare, che
sa fare solo operazioni con numeri, che guarda
vantaggi e svantaggi, profitti e perdite, che si configura esclusivamente nell´utile.
Qui è l´essenza
del «pensiero unico» dove i criteri di valutazione sono «produttività»,
«efficienza», «calcolo», accanto ai quali non ci sono pensieri alternativi o,
se ci sono, sono pensieri marginali, ciò intorno a cui non accade mondo. Penso
ai pensieri «filosofici», «teologici», «poetici». Sono pensieri possibili,
gratificanti, ma il mondo non si organizza a partire da questi pensieri. Allora
qui la prima domanda che si pone è questa: siamo consapevoli che la diffusione
anzi l´egemonia dell´economico,
indicato esclusivamente dal denaro, possa costituire l´unica
forma di pensiero a cui educare tutta l´umanità? E ancora: non è proprio qui il luogo decisivo del fallimento
etico? Se tutti pensiamo in termini economici, che
spazio c´è per un pensiero altro che non sia quello
economico? E l´etica è un
pensiero altro.
Abbiamo stabilito prima un nesso
tra tecnica ed economia e lo abbiamo individuato nel «mercato», che è divenuto
così razionale da eguagliare la tecnica che è la forma più alta della
razionalità raggiunta dall´uomo. A lei subordinata è l´economia che io considero ancora un´espressione «antropologica», perché ancora soffre
di una passione umana, da cui è esonerata la tecnica, che è la passione per il
denaro.
Mi chiedo: in un mercato
tecnicizzato è ancora consentito «agire» o non resta altro che «fare»? Colui che opera in un apparato «agisce» o «esegue»? E qui
non penso solo all´impiegato, ma anche all´imprenditore che è a sua volta
privato della possibilità di «agire» perché deve «eseguire» cioè
«seguire» azioni descritte e prescritte dal mercato. A questo punto se «agire»
vuol dire compiere delle azioni in vista di uno scopo, e «fare» vuol dire
invece eseguire azioni già descritte e prescritte dall´apparato,
che nella fattispecie è il mercato, allora come possiamo introdurre un´etica là dove nessuno più
«agisce», perché tutti si limitano a «fare» e a «eseguire»?
Mi vengono in mente quelle
risposte che i generali nazisti davano quando venivano
catturati e processati. Si chiedeva conto della loro condotta ed essi
rispondevano: «Ho eseguito ordini». Qui abbiamo un esempio di cosa vuol dire
passare dall’<<agire» al «fare». Perché colui che
fa non è responsabile dei fini ultimi. Se io lavoro in una banca e questa
banca, per ipotesi, sovvenziona la produzione delle armi e la sua esportazione
io, impiegato, non sono responsabile: primo perché non sono tenuto a conoscere i fini ultimi, secondo perché, se anche li conoscessi, non
sono autorizzato a prendere posizione. Allora qui io «faccio», ma non «agisco»
più, perché i fini mi sono sottratti.
Ecco, se per noi ormai l´»agire» si riduce a «lavorare» dove il lavorare consiste
nella pura esecuzione di azioni già descritte e
prescritte, io sinceramente per l´etica non vedo
alcuno spazio.
Non disponiamo
di un´etica all´altezza
della tecnica e dell´economia globale. Qui bisogna
incominciare a pensare.