Fino a che punto è sbagliata un’interpretazione sbagliata?

La valutazione nell’educazione letteraria

di Guido Armellini

 

 

«Agli esami gli stolti pongono domande a cui i saggi non sanno rispondere».

Oscar Wilde, Frasi e filosofie ad uso dei giovani.

 

ESAMINATORE:  «Qual è il protagonista dei Promessi sposi

STUDENTE:  «In senso stretto Renzo e Lucia;  ma ci sono altri personaggi positivi di grande rilievo:  per esempio Padre Cristoforo, o l’Innominato...  Ma forse si potrebbe dire che il vero protagonista sia il problema della Provv...».

ESAMINATORE:  «No, il protagonista è il Seicento.  Passiamo a un’altra domanda». 

Questo dialogo, svoltosi qualche anno fa nel corso degli esami di maturità di una mia classe, mostra come la logica della “risposta esatta” si attagli con fatica all’insegnamento della letteratura.  L’esaminatore si riteneva un insegnante rigoroso e competente, ed era convinto che il suo compito consistesse nel porre agli studenti domande di cui conosceva a menadito le risposte (altrimenti, come valutare “oggettivamente” le loro prestazioni?).  Ai miei tentativi di confutare la valutazione poco brillante attribuita al ragazzo interrogato, che conoscevo come un bravo e appassionato lettore, il collega rispose che non aveva dubbi sul proprio operato perché a proposito del “vero” protagonista dei Promessi sposi si era documentato scrupolosamente, leggendo un famoso saggio di Luigi Russo.  L’idea che una domanda relativa a un’interpretazione potesse avere molte risposte possibili non lo sfiorava neppure.

Il problema invece sta proprio qui. Non c’è dubbio che l’attività interpretativa  (cioè il chiedersi: che cosa significa per me?) sia il cuore dell’educazione letteraria, senza il quale la lettura di opere e autori si riduce a una noiosissima ripetizione di cose già dette o a uno sterile esercizio di smontaggio e rimontaggio di testi.  Ma come si può valutare un’interpretazione?  fino a che punto è sbagliata un’interpretazione sbagliata?

Il gioco delle “domande illegittime”[1], per le quali esiste un’unica risposta giusta prevista dall’interrogante, funziona perfettamente nel campo delle nozioni brute (quando è nato Manzoni?) e - fino a un certo punto - in quello dell’analisi testuale (quale tipo di narratore racconta la storia dei Promessi sposi?).  Il campo dell’interpretazione esige invece “domande legittime”, la cui risposta non è conosciuta in anticipo dall’esaminatore:  per evitare che il colloquio venga falsato, occorre che chi pone la domanda sia consapevole della sua temporanea ignoranza, e dell’autorevolezza che accetta implicitamente di attribuire al suo interlocutore.  Se infatti le “domande illegittime” servono a verificare la convergenza dello studente nei confronti del sapere codificato e dunque considerano le risposte impreviste come “errore” o come “rumore”, le “domande legittime” valorizzano qualità come la divergenza e l’originalità, e l’esaminatore può godersi tranquillamente lo stupore e lo spiazzamento prodotti in lui dalla risposta inattesa della ragazza e del ragazzo che sta esaminando.

Da questo punto di vista l’enfasi sulle “abilità certificabili”  che circola negli ultimi tempi nelle scuole secondarie mi sembra alquanto rischiosa. Nell’insegnamento letterario la definizione di obiettivo come “abilità misurabile con una prova” risulta particolarmente debole:  si può dire anzi che proprio le finalità fondamentali (l’acquisizione del piacere della lettura, l’elaborazione di mappe del mondo fantasiose e complesse, l’ “esperienza di sé nell’esperienza dell’altro”) non sono verificabili attraverso questionari, test, prove strutturate più o meno oggettive.  Tra le conoscenze e le competenze ragionevomente valutabili, solo alcune si prestano ad una verifica basata sulla logica dell’unica risposta esatta;  altre (sicuramente le più importanti) richiedono quesiti aperti, che consentano agli studenti di mettere in campo autonome strategie interpretative.  Per non parlare dell’effetto avvilente e demotivante prodotto su insegnati e studenti dalla riduzione di un testo letterario a mero strumento per “misurare” abilità predeterminate.

Mi pare che il tipo di interazione comunicativa  più adatto a valutare la qualità e la fondatezza di un’interpretazione letteraria sia la conversazione orale:  la bidirezionalità e la circolarità del dialogo, e anche il “calore” determinato dalla presenza fisica dell’interlocutore, aiutano l’esaminatore a vagliare la persuasività delle argomentazioni messe in campo, la maggiore o minore compatibilità con la materialità del testo, la convergenza o divergenza rispetto alle intenzioni originarie dell’autore, la capacità di gettare una luce inattesa sull’opera presa in esame, e così via.  Ma se non vogliamo ridurre le prove scritte alla banalità di un quiz, occorrerà che anch’esse lascino uno spazio rilevante all’interpretazione. 

Se si entra in questo ordine di idee,  bisognerà prestare molta attenzione alla qualità delle domande, e alla congruità dei criteri di valutazione.  Se infatti le “domande illegittime” garantiscono in partenza un alto grado di oggettività, o per lo meno di consenso intersoggettivo, le “domande legittime”, facendo appello alla soggettività delle e degli studenti, chiamano inevitabilmente in causa la soggettività di chi ha il compito di valutarli. 

Può essere interessante analizzare da questo punto di vista alcuni aspetti di un questionario sul Gelsomino notturno di Pascoli proposto dall’”Osservatorio Nazionale sugli Esami di Stato” del Cede tra i prototipi di “prima prova scritta” del nuovo esame[2].

Un primo problema riguarda la quantità e la mole delle operazioni richieste allo studente.  Gli ultimi due quesiti del questionario («Riflettete sul significato del “nido” nella poesia del Pascoli, con precisi riferimenti ad altre opere lette dell’autore»;  «Contestualizzate il testo, in rapporto con la cultura del decadentismo») appartengono inequivocabilmente al genere testuale del “tema letterario” al quale, fino all’anno scorso, si dedicava un tempo di svolgimento di sei ore.   Ora si richiedebbe agli studenti di svolgerne non uno, ma due, preceduti per di più da un’altra decina di  quesiti, alcuni dei quali esigono risposte ampie e argomentate;  il tutto nello stesso tempo che i loro colleghi degli anni precedenti dedicavano a un’unica consegna. La fretta - ha notato Milan Kundera - è nemica della memoria;  non credo che sia amica di un’operazione complessa e coinvolgente come l’interpretazione letteraria.

Un secondo problema riguarda la qualità dei quesiti proposti agli studenti.  La tipologia che segue, del tutto priva di ambizioni di scientificità,  vuole offrire qualche spunto di riflessione su quanto sia difficile l’arte di formulare domande in modo che chi deve rispondere possa farlo in modo sensato e soddisfacente, ma  si può leggere anche come un modesto invito alla cautela rivolto a coloro che avranno il compito di preparare le prove scritte per il prossimo esame di stato. 

-  Domande illegittime proprie. Un buon esempio di “domanda illegittima propria”, che non richiede voli della fantasia o ipotesi interpretative soggettive, ma un’operazione semplice e ben definita, è la seguente: «Evidenziate le sinestesie presenti nella lirica».  Lo studente deve dimostrare di conoscere la definizione di sinestesia e di saper riconoscere questa figura in un testo dato;  si tratta di un’abilità relativa alla sfera dell’analisi testuale, che si presta a una valutazione sufficientemente “oggettiva”[3].

-  Domande illegittime poste come legittime.  Altre domande non sono limpide e innocenti come quella appena esaminata.  Consideriamo per esempio la seguente:.  «La lirica comincia con una congiunzione “e”;  quale funzione assume, a tuo avviso, la congiunzione?».  L’autore del questionario fa esplicito riferimento all’«avviso» dello studente, dunque gli chiede di formulare un’ipotesi personale:  apparentemente non ci troviamo più nel campo “oggettivo” della mera ricognizione testuale ma in quello dell’interpretazione e delle “domande legittime”.  Ma in realtà la legittimità della domanda è solo apparente:  nel selezionare, fra tutte le parole del testo, proprio la “e” iniziale, l’autore del questionario ha in mente una ben precisa interpretazione, che immagina nota e condivisa dall’esaminatore che dovrà valutare la risposta, e ritiene che lo studente debba arrivarci per conto suo.  Di fronte a una domanda di questo tipo l’esaminato non è indotto a chiedersi:  «Che cosa significa per me questa “e”?», e neppure:  «Che cosa avrà voluto significare Pascoli cominciando questa poesia con una “e”?», ma: «Che cosa penserà l’esaminatore che io debba pensare a proposito di questa “e”?».

-  Domande illegittime improprie.  Un processo mentale non dissimile è sollecitato dalla domanda più sorprendente di tutto il questionario: «Quale rapporto esiste fra i primi due versi e gli altri di ogni strofa?».  Un quesito di questo genere può apparire talmente aperto da sfiorare l’insensatezza (la risposta più ragionevole e immediata è che i primi versi precedono i versi successivi: affermazione tautologica ma saldamente fondata).  Il lettore esperto di meccanismi scolastici intuisce invece che l’autore del questionario ha  in mente una chiave di lettura ben definita (riferita probabilmente alla variazione degli accenti metrici), che ritiene l’unica corretta ed accettabile.  Anche in questo caso dunque ciò che viene valutato non è la capacità di analizzare un testo, ma la capacità di indovinare l’ipotesi interpretativa presupposta da chi ha formulato la domanda.

-  Domande legittime poste come illegittime. Un’altra ingannevole combinazione di legittimità e illegittimità è contenuta nella prima domanda del questionario:  «Qual è il tema fondamentale di questa lirica, scritta in occasione del matrimonio di un amico?».  La domanda suppone che nel testo ci sia “oggettivamente” un «tema fondamentale», riconoscibile da ogni lettore, e chiede allo studente di individuarlo:  si pone dunque come una domanda che ha una e una sola risposta esatta.   A me pare invece che un giovane lettore, anche agguerrito, che si trovi per la prima volta di fronte a questa poesia di Pascoli, senza supporto di note o di guide alla lettura, possa legittimamente trovare nel testo innumerevoli «temi fondamentali» oltre a quello codificato.  Solo gli studenti già passati attraverso una lettura scolastica del Gelsomino notturno, con il consueto corredo di riferimenti alla sessualità repressa del poeta e alla sua ambivalenza nei confronti del tema delle nozze, sarebbero in grado si rispondere “bene”, cioè secondo la logica implicita nel questionario.  Quando si formulano domande di questo tipo occorrerebbe tener presente che non è affatto detto che l’intentio auctoris, l’intentio operis e l’intentio lectoris  coincidano, e che se non coincidono non è sempre per colpa del lettore.

-  Domande basate su presupposti infondati. Un altro interessante esempio di domanda che sotto un’apparenza innocente nasconde ambiguità e insidie è la seguente:  «Ci sono metafore significative?  Di che tipo?  E cosa stanno a significare?».  L’inventore della domanda dà per scontato il concetto di metafora significativa (ma esistono metafore non significative?), e presuppone che esista una tipologia codificata nella quale lo studente possa collocare esattamente il tipo di metafore selezionato.  Poiché nell’enciclopedia di un cittadino comune della repubblica delle lettere simili nozioni non sono presenti, ancora una volta l’attenzione dell’esaminato è costretta a spostarsi dal testo poetico alle enigmatiche intenzioni e presupposizioni di chi ha formulato il questionario.

Concluderò questo intervento con una pars construens, che sarà assai più breve della pars destruens;  non tanto perché distruggere è più facile di costruire, quanto perché ritengo che i rudimenti di artigianato didattico che sto per esporre siano ben presenti alla mente delle colleghe e dei colleghi che svolgono con impegno e con passione il nostro mestiere[4]:

-  credo prima di tutto che un buon questionario dovrebbe contenere poche domande:  l’accavallarsi di molti quesiti, oltre a costringere gli studenti a una frenetica rincorsa di cui non si vede il significato, riduce l’analisi e l’interpretazione letterarie a un gioco di botta-e -risposta che risulta offensivo tanto per l’intelligenza degli studenti quanto per il valore estetico e la densità semantica dei testi presi in esame;      

-  occorrerebbe poi che chi formula i questionari avesse ben chiara la distinzione fra le domande basate sulla logica dell’unica risposta esatta e le domande che hanno la funzione di stimolare l’autonoma iniziativa interpretativa degli studenti:  questi due tipi di domande dovrebbero esibire in modo inequivocabile la diversità della loro natura, in modo che l’esaminato e l’esaminatore abbiano una chiara percezione di ciò che è loro richiesto di svolgere o di valutare;

-  in particolare le domande relative all’analisi testuale non dovrebbero contenere espressioni vaghe (“quale funzione svolge?”, “che tipo di metafora è?”,  “quale valore assume?”) presentate come univoche e definite, e non dovrebbero dare per presupposti concetti o categorie che non facciano parte di un consolidato “senso comune” letterario;

-  le domande relative all’interpretazione non dovrebbero chiedere agli studenti di convergere verso un’unica ipotesi interpretativa precostituita presentata come oggettivamente deducibile dall’esame del testo, ma di esporre ed argomentare una propria tesi, attivando quei metodi di analisi e quelle caratteristiche del testo che ritengono più adatte  a sostenerla:  atti volutamente limitati, parziali e soggettivi (che non vuol dire arbitrari), come ogni operazione critica che si rispetti.

Per finire, due modesti suggerimenti a coloro che lavoreranno a un’eventuale ulteriore riforma dell’esame di stato, che mi auguro non troppo lontana nel tempo.

1)  E’ stato notato che «Gli insegnanti si comportano in modo diverso quando si tratta di insegnare e quando si tratta invece di valutare attraverso i test.  Pur essendo ossessionati dalla necessità di sradicare gli errori, spingono sempre più i ragazzi in situazioni in cui gli errori sono inevitabili.  Uno dei principali scopi dei test è allontanare i ragazzi da ciò che sanno fare per condurli in aree in cui non trovano che difficoltà e confusione.  I test vanno alla ricerca delle difficoltà così come il dentista va alla ricerca delle carie» [5].  E’ un gioco comunicativo molto simile a quello che, in un classico della psicologia transazionale[6], Eric Berne chiama “Ti ho beccato, figlio di puttana!”:  si fa di tutto per indurre qualcuno a sbagliare, in modo da potergli immediatamente rinfacciare l’errore commesso.   Per attenuare gli effetti nocivi di questa sgradevole modalità relazionale, basterebbe consentire agli studenti di consultare, nel corso della prova, i libri utilizzati e gli appunti presi durante l’anno.  Una lunga esperienza didattica dimostra che la valutazione, anziche venirne falsata, può risultare più centrata e attendibile.

2)  «Ciò che veramente conta non può essere contato», ha scritto Irwin Thompson[7].  Una tendenza molto diffusa, non solo nella scuola, si muove nella direzione opposta, con la presunzione di poter esprimere in termini quantitativi anche gli aspetti più sfumati e complessi della realtà:  ne consegue che la mole degli indicatori, dei descrittori e delle scale valutative si amplia a dismisura.  Mi sembra che l’intenzione di tradurre in un numero, oltre al «grado di preparazione complessiva» di uno studente, cose come «l’assiduità della frequenza scolastica», «la frequenza all’area di progetto», «l’interesse e l’impegno nella partecipazione attiva al dialogo educativo», «la partecipazione alle attività complementari», «le esperienze formative che ogni alunno può aver maturato al di fuori della scuola» (dalle «attività sportive» all’«aver appreso a suonare uno strumento»)[8], sia troppo ambiziosa, e persino pericolosa.  Una drastica riduzione della gamma dei voti avrebbe il duplice vantaggio di ridurre il tempo fisico e  psicologico dedicato a discussioni inutili e disamene («gli diamo 14 o 15?»;  «Merita 97, 98 o 99?»),  e di signficare con chiarezza che su un essere umano un numero può dire poche cose, e non certo le più importanti.

 

 

 

 

 



[1] I concetti di "domanda legittima" come domanda «le cui risposte ci siano ignote» e di "domanda illegittima"   come domanda «di cui si conosca già la risposta» sono di Heinz von Foerster (Sistemi che osservano, Astrolabio, Milano, 1987).  A suo parere l'uso sistematico di "domande illegittime" da parte degli insegnanti tende a ridurre lo studente a una "macchina banale", i cui comportamenti sono totalmente prevedibili:  «I test scolastici sono un mezzo per misurare il grado di banalizzazione.  Se lo studente ot­tiene il punteggio massimo, ciò è segno di una perfetta banalizza­zione:  lo studente è completamente prevedibile, e quindi può es­sere ammesso alla società.  Non sarà fonte di sorprese né di pro­blemi».

[2] Osservatorio Nazionale sugli Esami di Stato.  05 - Esempi di prima prova.  Il testo è stato estratto dall’”archivio telematico” del Cede, indicato dal Ministero come punto di riferimento per le prove d’esame (Ministero della Pubblica Istruzione, Il Nuovo Esame di Stato, istruzioni per l’uso, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, s. d., p. 10).

[3]  Si potrebbe obiettare che anche un’operazione tutto sommato banale come il riconoscimento di una figura retorica è meno “oggettiva” di quanto può sembrare a prima vista.  Un’espressione come «odore di fragole rosse», che a rigore non è una sinestesia, è costruita però in modo da produrre su lettore un evidente effetto sinestetico:  in questo caso è difficile stabilire quale sarebbe la risposta più “giusta”.

[4]  La lontanza del sapere pratico delle e degli insegnanti dalle elaborazioni astratte del ceto buro-pedagogico è uno dei temi centrali del volume di vari autori Buone notizie dalla scuola, Pratiche, Milano, 1998.

[5]  F. Smith, Insults to Intelligence:  the Bureaucratic Invasion of our Classrooms, Arbor House , New York,1986, p.17.

 

[6]  E. Berne, A che gioco giochiamo, Bompiano, Milano, 1967.

[7] W. I. Thompson, Le implicazioni culturali della nuova biologia, in W.I.Thompson (a c. di), Ecologia e autonomia, Feltrinelli, Milano, 1988, p.51.

[8] Ministero della Pubblica Istruzione, Il Nuovo Esame di Stato, istruzioni per l’uso, Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, s. d., pp. 13-14.