Ecco
chi paga il Ponte
I privati, dice Berlusconi. Bugia: i soldi li metterà
Fintecna. Così i ricavi delle privatizzazioni,
fatte per salvare i conti dello Stato, serviranno per finanziare un'opera che
indebiterà lo Stato. Per farla iniziare hanno anche truccato i conti. Ma questa volta si farà: Berlusconi
vuole la prima pietra alla vigilia delle elezioni. I lavori, però, saranno mai
terminati? Ambientalisti e imprenditori uniti contro la
cattedrale nel deserto. Intanto la 'Ndrangheta è già all'opera
di Domenico Marcello
Gli articoli sul ponte dello Stretto di Messina sono un genere giornalistico. I
cronisti fingono di credere alle notizie che scrivono su un progetto di cui si
parla da oltre trent’anni e che, a quanto pare, non
si realizzerà mai per mancanza di soldi. Perciò è giusto incominciare questa inchiesta dalla grande novità: a quanto pare,
stavolta si farà. Non importa che nessuno ne senta la mancanza. Non importa che
il progetto finanziario sia basato su dati falsi e che l’impatto ambientale sia
colossale persino per una zona abituata a sismi e maremoti. Non importa che gli
industriali siano contro e, in anteprima mondiale, alleati nella battaglia con
gli ambientalisti. Non importa che le stesse imprese edili vedano con
preoccupazione un appalto localizzato nel presidio dell’associazione criminale
meglio organizzata del mondo.
Il ponte parte perché così
vuole l’Uomo Solo al Comando. Silvio Berlusconi ha
firmato la delibera il primo di agosto e vuole posare
la prima pietra nel maggio 2005. Secondo una strategia sperimentata, il
presidente del Consiglio lascia trasparire qualche dubbio negli incontri più
riservati, quelli con il governatore siciliano Udc
Totò Cuffaro, con il presidente calabrese Giuseppe Chiaravalloti o con il sindaco di Messina Giuseppe Buzzanca, tutti pontisti in via di raffreddamento. Ma la decisone è presa.
Berlusconi ha messo in conto anche qualche mese di ritardo per i
ricorsi amministrativi già annunciati. L’importante è arrivare alle politiche
del 2006 con i lavori avviati. Se poi al gennaio del
2012 lo stretto di Messina sarà davvero ornato del ponte autoferroviario
più lungo del mondo, è un altro paio di maniche. Si sa che le grandi
infrastrutture in Italia, e soprattutto al Sud, partono, poi rallentano,
infine, si fermano quando i soldi dello Stato finiscono oppure quando arriva la
polizia giudiziaria e sequestra i cantieri, come è
accaduto alla fine del 2002 con la Salerno-Reggio
Calabria. Politicamente, del resto, non è affatto necessario che il ponte entri
in funzione e comunque il 2012 è un orizzonte lontano.
L’importante è partire con spirito garibaldino. E,
certo, con i soldi.
I soldi, ha detto Berlusconi alla Fiera del Levante,
non ci sono. Ma per il ponte sì, tantissimi, sufficienti a coprire quasi
l’intero costo dell’opera che, inflazione e interessi sul
debito inclusi, è stimato in 6 miliardi di euro. Dov’è
il trucco? In via Veneto a Roma.
IL TRUCCO DEL PONTE. Una volta,
oltre ai paparazzi, in via Veneto c’era l’Iri, l’istituto per la ricostruzione industriale creato da
Alberto Beneduce durante il fascismo con capitali
pubblici. Quando lo Stato imprenditore è passato di
moda, l’Iri ha perso fascino, potere e aziende. Le
imprese pubbliche sono state privatizzate e i soldi sono finiti a tappare i
buchi di bilancio.
Ma non tutti i soldi. Nello scorso novembre, quando l’Iri ha chiuso i battenti, in cassa avanzava ancora la
liquidità di alcune cessioni. I tre liquidatori
dell’ente di Stato, il professor Piero Gnudi di
Bologna e due allievi dell’ex ministro prodiano
Enrico Micheli, hanno preso questa somma e l’hanno
versata in Fintecna, una società controllata al 100
per cento dal ministero dell’Economia. Sull’ultimo bilancio di Fintecna figura un attivo patrimoniale totale di 8,2
miliardi di euro. Di questi, 5 miliardi e 400 milioni
sono liquidi con appena 636 milioni di debiti. Una situazione
senza uguali fra le imprese italiane e rara anche a livello internazionale.
Con il contenuto di questa
cassaforte sarà iniziato il ponte. Fintecna, infatti,
è l’azionista principale della Stretto di Messina, la
società per azioni incaricata dell’opera. I due manager chiave sono gli ex liquidatori Iri:
Maurizio Prato comanda a Fintecna, Pietro Ciucci è
amministratore delegato di Ponte sullo Stretto. Gli altri azionisti sono Rete
ferroviaria italiana, cioè le Fs,
l’Anas, e le due regioni interessate, Sicilia e
Calabria. Sono quattro partner problematici, con
importanti problemi di bilancio e dubbi di opportunità politica crescente. Chiaravalloti, schiaffeggiato in pubblico per l’audace
statuto regionale, è in asse con Mario Tassone,
polemico vice del ministro delle Infrastrutture Pietro Lunardi
e ras dell’Udc in Calabria. «Il peggio è successo in
agosto», dice Alberto Ziparo dei comitati no ponte e coautore de Il ponte insostenibile, «quando il sindaco messinese Buzzanca di An, un ultras del ponte, si è
reso conto dell’impatto dei lavori sulla sua città e la sua giunta ha votato
una delibera molto critica».
Anche se gli enti locali si defilano, sarà Fintecna
a pagare il 40 per cento delle opere che spettano alla parte pubblica. In altre
parole, i ricavi delle privatizzazioni, eseguite per
migliorare i conti dello Stato, serviranno per finanziare un’opera che
indebiterà lo Stato. Per carità, questo lo dice Diario. La
Ponte sullo Stretto sostiene invece nel suo studio di fattibilità
finanziaria che il ponte, oltre a legare Scilla e Cariddi,
a realizzare un ponte con il Maghreb e tante altre
cose bellissime, farà guadagnare soldi a palate. Negli studi previsionali, scrive Ciucci, «il valore attuale netto
economico risulta sempre positivo (i benefici superano
i costi), da un minimo di 1,3 miliardi di euro fino a un massimo di 4,7
miliardi».
E non basta. Alla fine della prima concessione (annus domini 2042) lo Stato potrà rimettere in gara la sua
parte e ricavare 12,8 miliardi, se va bene, o 6,2 miliardi, nello scenario a
crescita bassa. Com’è possibile tutto questo? Ovvio, con il project financing. da cheope
a berlusconi. Il project financing
è una leggenda metropolitana applicata all’economia. Afferma che sia possibile
costruire una grande infrastruttura in partnership fra lo Stato e i privati
abbattendo le spese dello Stato e facendo guadagnare i privati con lo
sfruttamento della concessione. Pedaggi e biglietti, in sostanza. Al mondo non
esiste un solo caso di grandi dimensioni in cui questo schema abbia funzionato. Come ai tempi di Cheope,
le infrastrutture sono un bagno di sangue. Per informazioni maggiori si può
chiedere ai piccoli azionisti o ai gestori di Eurotunnel che, peraltro, è un’opera utile come il Canale
di Suez (altra catastrofe finanziaria).
In Italia il maggiore esempio di project financing è
quello dell’alta velocità ferroviaria. L’architettura finanziaria era identica
a quella del ponte: lo Stato mette 40, i privati 60. Ecco
com’è andata. I privati, per lo più banche,
hanno comprato un gettone di ingresso da 1 miliardo di lire in Tav spa e poi si sono rifiutati
di aderire ai successivi aumenti di capitale. Alla fine, la Tav
se l’è ricomprata tutta lo Stato e l’ha affidata a
Infrastrutture, una spa pubblica al 100 per cento
guidata dal reggino Andrea Monorchio.
Ai cittadini il supertreno
doveva costare 16 mila miliardi di lire con fine lavori
nel 2001. Poi la cifra è un po’ salita e i tempi sono un po’ slittati: 40 mila
miliardi di lire e fine lavori al 2003-2004. Oggi si
parla di 52 mila miliardi e fine lavori nel 2007-2008. Un successone.
E, dato che la meritocrazia dilaga, l’amministratore
delegato della Tav ai tempi di Lorenzo Necci, Ercole Incalza, è stato mandato da Lunardi a Bruxelles per convincere l’Ue
che il ponte andava messo fra le opere con priorità 1, le più urgenti. «Le
pressioni del governo italiano a livello europeo sono state enormi», racconta
la senatrice dei Verdi Anna Donati. «La commissaria ai
Trasporti Loyola de Palacio,
peraltro, è rimasta allibita quando le ho fatto notare
che il ponte è in priorità 1, mentre la ferrovia che porta al ponte è in
priorità 3».
L’inserimento del ponte nella
lista delle opere europee strategiche è di sicuro il risultato
migliore della diplomazia berlusconiana. In cambio, la Stretto di Messina potrà ricevere un finanziamento del 10
per cento. «E stanno lavorando», aggiunge Donati, «per
portare questa cifra al 20 per cento». Fino a qui, europei o italiani, gli euro
del ponte sono sempre pubblici. E i privati?
Lo schema di finanziamento
recita testualmente: «L’infrastruttura non prevede l’erogazione di contributi a
fondo perduto da parte dello Stato. La fattibilità finanziaria dell’opera
sarebbe infatti assicurata da un aumento di capitale
di Stretto di Messina nell’ordine di 2,5 miliardi di euro. Il capitale di
rischio verrebbe adeguatamente remunerato e,
naturalmente, recuperato durante il periodo di gestione». In
quanto al 60 per cento privato, sarà coperto «attraverso finanziamenti
tipo project finance contratti in più tranche sul
mercato intrernazionale dei capitali garantiti
unicamente dai flussi di cassa attesi per il progetto. In tale ambito è inoltre
certamente auspicabile il coinvolgimento nell’iniziativa di Infrastruttture spa, considerato
il suo elevato rating e la possibilità di concedere finanziamenti per durate
più lunghe rispetto a quelle normalmente praticate dal sistema creditizio».
Traduzione. Lo Stato,
travestito da società per azioni, mette il 40 per cento. Il resto lo chiediamo
alle banche italiane ed estere, come ai tempi della Tav.
In caso le banche abbiano dubbi sul fatto di
recuperare «naturalmente» l’investimento con i pedaggi, lo Stato, travestito da
un’altra spa (la Infrastrutture dell’ex ragioniere
generale Monorchio), offrirà alle banche una garanzia
solida: se stesso.
PREVISIONI FALSE. La diffidenza
insultante degli istituti di credito si fonda sull’analisi dei pochissimi dati
messi a disposizione dalla Stretto di Messina. Le due
cifre principali, quelle che fanno pensare al ponte come a
una macchina da soldi, sono le previsioni di crescita del prodotto interno
lordo meridionale e le previsioni sui flussi di traffico. Le previsioni, per
definizione, non possono essere false. Ma le proiezioni sul pil
sono, come minimo, ottimistiche. Il documento propone
due modelli di crescita. Nell’ipotesi più carina il pil
al Sud aumenterà del 3,8 per cento fino al 2012, quando il ponte dovrebbe essere completato. Nell’ipotesi prudenziale il pil salirà dell’1,8 per cento.
Ottimismo o mistificazione?
Ecco i dati reali. Secondo l’Istat, nel 2002 il Sud è
cresciuto dello 0,7 per cento. Sono i livelli più alti degli ultimi dieci anni
contro un andamento recente intorno allo 0,2-0,3 per cento. Anche
i flussi di traffico si stanno contraendo, soprattutto grazie all’aumento del
cabotaggio tanto caro al commissario de Palacio,
perché toglie i trasporti pesanti dalle strade. Ma il
porto di Gioia Tauro non è l’unico concorrente del
ponte. Ci sono i concessionari dei traghetti di Caronte
e Tourist ferry boat, rispettivamente la famiglia Matacena e la famiglia Mondello.
Già adesso i
loro prezzi (16 euro andata e ritorno) sono inferiori a quelli previsti
per il passaggio di un’auto sul ponte (10 euro solo andata) e possono scendere
ancora. Nel canale della Manica i gestori di trasporti via mare stanno facendo
affari d’oro togliendo clienti all’Eurotunnel. Per
evitare che sul ponte, a parte i dieci giorni critici di agosto,
ci vadano solo i gabbiani, la soluzione proposta dai pontisti è di limitare le
concessioni attuali e togliere di mezzo il ferribotte.
Per niente facile. Qualcuno, prima o poi, dovrà spiegare al commissario europeo per la
concorrenza come mai un imprenditore statale sbatte fuori mercato imprenditori
privati utilizzando una clava da 5,4 miliardi di euro pubblici. E visto che il liberismo è diventato di sinistra, Elio Matacena, fratello di quell’Amedeo
scomparso in estate che sosteneva i boia chi molla nonché zio del forzista dissidente Amedeo junior, si è messo ad appoggiare
la lotta e i ricorsi degli ambientalisti. Accanto a Matacena,
del resto, si sono schierati compatti tutti gli industriali calabresi che
chiedono strade e ferrovie funzionanti invece della classica cattedrale nel
deserto.
GRANDE OPERA,
GRANDE RISCHIO. Eppure
almeno i costruttori dovrebbero essere contenti. Non si sputa su 6 miliardi di
commesse. Ma anche qui la faccenda è più complicata di
quanto sembra. Intanto, bisogna fare una gara. Il decreto legislativo del 24
aprile 2003 ha dovuto accogliere le obiezioni del commissario
Mario Monti. La strada più probabile, caldeggiata
da Giuseppe Zamberletti ex ministro dc di lunghissimo corso e presidente della Stretto di
Messina, prevede la gara per la scelta di un general contractor e una gara per la gestione dei raccordi
(svincoli, nodi ferroviari eccetera). Lo suggeriscono anche i consulenti di PricewaterhouseCoopers Consulting
per «non concentrare i rischi in capo al concessionario».
I rischi, appunto. Il ponte
sullo Stretto che dovrebbe fare guadagnare allo Stato 17,5 miliardi di euro da qui al 2042 comporta un rischio di impresa
elevatissimo. Chi parteciperà alla gara dovrà impegnarsi, sulla
base di un progetto molto vago, a completare l’opera a determinate
condizioni. Che succederà se i tempi e i costi
risulteranno superiori?
Lo spiegano i due nuovi commi
dell’articolo 4 del decreto. «All’entrata in esercizio del collegamento sullo
Stretto sarà accertato il costo aggiornato dei lavori e stabilito l’eventuale contributoi integrativo da corrispondere alla società
concessionaria per gli aumenti di costo derivanti da forza maggiore, sorpresa
geologica o comunque derivanti da richieste del
concedente. Ai relativi oneri si farà fronte con le risorse stanziate
annualmente per le infrastrutture strategiche» (comma elle).
In altre parole, se l’opera
costerà più di 6 miliardi, la differenza ce la mette lo Stato. Ma questa
ventata di ottimismo per le imprese è stroncata dal
comma u. «Negli atti contrattuali di affidamento
dell’opera a terzi la Stretto di Messina ha facoltà di recedere dal contratto
ove il progetto comporti sostanziali modifiche alle opere ovvero aumenti di
prezzo». Questo vuol dire che se i subappalti fanno impazzire i costi, lo Stato non paga e la patata bollente se la tiene
il concessionario. La differenza è sostanziale. Il general
contractor deve subappaltare. Quindi
trasferirà il rischio sulle piccole imprese. Più d’una è fallita nei lavori
dell’alta velocità. Altre, come quelle che lavoravano sui cantieri della Salerno-Reggio Calabria, sono in mano alla criminalità e si
sono organizzate risparmiando sui materiali, dato che
troppo cemento fa male.
ALLARME MAFIA. Il
governo ha pensato anche all’allarme ’Ndrangheta. Nel sito web della Stretto di Messina si danno riferimenti precisi
all’impegno dell’esecutivo e del ministro Lunardi
(quello che due anni fa diceva che con mafia e camorra bisogna convivere). Ecco
il catalogo.
Nell’aprile 2002 Lunardi istituisce un «Servizio di alta sorveglianza» sugli appalti al Sud. Nell’ottobre
2002 Giuseppe Pisanu, ministro dell’Interno, crea un
gruppo di lavoro per monitorare i lavori sul ponte. Nell’aprile 2003 Piero
Luigi Vigna, capo della Direzione nazionale antimafia, crea un pool
investigativo. A fine maggio, Gianni De Gennaro, capo della polizia, istituisce
un Comitato di coordinamento per l’Alta sorveglianza delle Grandi opere. Il 17
luglio Lunardi e la Guardia di finanza firmano un protocollo di intesa contro le infiltrazioni
della criminalità negli appalti pubblici.
A dispetto di tutte queste iniziative, l’8 luglio il Sisde,
servizio segreto del ministero dell’Interno, scrive nel suo rapporto semestrale
che «la ’Ndrangheta si concentra sempre più sugli ingenti finanziamenti
collegati alle iniziative di rilancio della Calabria e sulle risorse per la
realizzazione delle centrali elettriche, ma soprattutto sulla costruzione del
ponte di Messina». Mentre Cosa nostra, secondo il Sisde,
è in parte bloccata dallo strappo fra l’ala stragista e l’ala «del basso
profilo», le ’ndrine calabresi
vanno d’amore e d’accordo. Quando ci sono in ballo i
soldi per un porticciolo o un’altra struttura da poco, si contano i morti per
strada. Con il ponte ce n’è davvero per tutti.