Stazione di Firenze.

Giovedì 20 agosto 1942

 

Emanuele approfittò della sosta del wagon-lit per Roma. Le tre del mattino. Non riusciva a prendere sonno. Per via dell’afa e del tanfo del formaggio con i vermi del compagno di scompartimento,  addormentato nella cuccetta superiore. Scese per rinfrescarsi. Zoppicava un poco per una poliomielite infantile. Si chinò su una fontanella tra i binari.

Un convoglio merci si arrestò alle sue spalle con una  frenata silenziosa. Nessuno salì, nessuno scese. Al giovane giornalista della Gazzetta dello Sport parve un vascello fantasma.

Si sciacquò il viso con l’acqua fresca, bevve, tornò sui suoi passi, aprì il portello della carrozza. In quel preciso momento, udì dei lamenti nella stazione deserta. Come un canto senza parole.

Emanuele smontò dal predellino. Passeggiò incuriosito sotto le vetture sigillate del treno merci.

Gli si parò di fronte un vagone aperto con le sbarre. Decine e decine di volti lo fissavano imploranti.

Era un convoglio di deportati ebrei destinati ai campi di sterminio in Austria.

In quel convoglio i nazisti avevano rinchiuso tutti gli zingari destinati al campo di lavoro di Salzburg – Leopoldskron.

Una piccola gitana protese una tazza di latta attraverso le sbarre. “Ti prego”, sussurrò. Disse soltanto questo: “Ti prego.”Aveva grandi occhi neri, raccontò il nonno, e l’accento di Napoli.

“E tu le hai portato da bere?” chiese Speranza.

Emanuele si appoggiò al bastone, abbassò lo sguardo sul fornello spento della pipa.

“No”, confessò alla nipotina. “Il mio treno stava ripartendo.”

 

La professoressa Adiamoli scrutò i suoi ragazzi uno per uno. La storia li aveva sedotti.

“La mia generazione ha chiesto conto ai propri vecchi dei loro errori. I miei nonni, come quasi tutti, accorrevano a Piazza Venezia alle adunate del Duce. Che vi era successo? – chiedevo – per prendere sul serio quelle ridicole smorfie, le battute roboanti sull’impero, l’esaltazione della guerra, la supremazia di una razza su tutte le altre?”

Involontariamente si era punteggiata i fianchi con i pugni, come Mussolini. Se ne accorse, rise con la classe. “Visto? E’ facile fare i professori dopo. Lo sapete quanti sono i professori italiani che si rifiutarono di giurare fedeltà al fascismo?”

“Seimila”, provò Battistelli

“Duemilatrecentotrentatré” gli fece il verso Oriani, quello che imitava tutti.

“Soltanto dodici”, spiegò Speranza, “non firmarono un giuramento considerato dagli altri una pura formalità. Non giurarono per una questione di coerenza, anche di stile, pagando un prezzo altissimo. Soltanto dodici eroi del no.”

“Lei avrebbe firmato, prof ?”

“Sì, credo che avrei firmato.”

“Perché?”

“Per paura di finire in esilio.”

“E avrebbe portato l’acqua alla zingarella napoletana?”

Speranza attraversò il corridoio tra i banchi senza rispondere. Si fermò, con le spalle al muro.

“Il passato è il principio del futuro” disse. “Proviamo adesso a immaginarci che cosa penseranno di noi i nostri nipoti. Siamo apatici e inermi di fronte agli stessi eccidi. In Afghanistan, Jugoslavia, Africa. Anche noi distogliamo lo sguardo. I nostri treni stanno ripartendo.”

“Non dovevamo fare l’analisi logica?” l’interruppe Giada con un sorrisino.

“L’unica differenza”, proseguì Speranza,”è che allora potevi scegliere da quale parte stare. Il mostro in noi era manifesto. Si chiamava nazismo o fascismo e aveva arbitrariamente occupato dei paesi liberi. Commetteva stragi a cielo aperto. C’erano i lager, le kapò, i cani lupo. Gli stessi orrori li perpetuò il comunismo sovietico deportando i dissidenti in Siberia. Oggi il nemico si è fatto furbo. Le stragi si chiamano affari. Gli eserciti con cui si combattono mere guerre di soldi, li chiamano multinazionali. I corpi degli oppressi non sono più relegati nei lager. E’ sufficiente il controllo delle menti. Un filo spinato invisibile ha accerchiato il mondo, sospeso da un’antenna all’altra della T. Quasi nessuno protesta. Sembra un cocktail universale. Ogni tanto sparisce qualcuno, ma alle feste è normale. Probabilmente ha mangiato troppo. Ci hanno vinto e gli abbiamo detto grazie.  Ci hanno ridotto all’impotenza e l’abbiamo scambiata per benessere aggiunto. Ci hanno comprato uno per uno e nemmeno ce ne siamo accorti.”

I ragazzi le fissarono sconcertati.

Solo Normanni, dall’ultimo banco, lanciò con l’elastico il cappuccio di una biro. Levrieri, colpito sulla guancia, non reagì per l’unica volta nell’anno.

Speranza sorrise a Giada al primo banco:

“Analisi logica?…Analisi logica.”

 

Sul divano azzurro del villino di famiglia, la professoressa sciolse le dita da quelle del compagno:

“Vuoi sapere la verità? Mio nonno non l’ho mai perdonato.”

Paolo trasse un sospiro: “Sono più imperdonabili oggi, perché tutto questo era già accaduto”

 

 

 

Diego Cugia

NO

Bompiani  2002

pp. 77 -80