… à chacun se refuse aussi la ruse

d’un savoir qui, à divenir absolu,

s’abolirait dam la silence ...

 

Pierre Clastres (1934-1977), une ethographie Sauvage

 

 

De ethnocidio

 

Etnocidio : il vocabolo solo pochi anni or sono non esisteva. Oggi, per il favore capriccioso della moda, ma molto anche per una obiettiva attitudine del termine a rispondere a una esigenza di precisione terminologica, etnocidio è parola rapidamente dilagata, uscendo dall’ambito dove fu tenuta a battesimo l’etnologia, per entrare nell’uso comune. Ma la repentina diffusione di un vocabolo garantisce l’idea che ha la funzione di veicolare, nel rigore e coerenza auspicabili? Non necessariamente la comprensione si avvantaggia con la verbosità: tutti abbiamo perfettamente chiaro il referente del vocabolo etnocidio. Nelle intenzioni di chi l’ha coniata, la parola doveva esprimere una realtà finora mai chiaramente individuata. Se si è sentita la necessità di questo nuovo vocabolo, un pensiero nuovo urgeva, o meglio, un qualche cosa di antico, e finora irrilevato, si faceva pensiero. Un vocabolo che fino a ora aveva, nel giudizio degli uomini, adeguatamente rappresentato e significato il fenomeno: il vocabolo genocidio, sembrava ormai inadeguato al compito. Non si può quindi tentare una seria riflessione sul termine etnocidio, senza tentare prima di capire in che cosa si distingue il fenomeno così designato dalla realtà che il vocabolo genocidio designa.

 

Prodotto dal processo di Norimberga ai criminali nazisti, il concetto giuridico di genocidio è la registrazione, entro la norma giuridica, di un tipo di crimine fino ad allora irrilevato. Più precisamente, rimanda alla prima manifestazione giuridicamente registrata di questo crimine: lo sterminio sistematico degli ebrei in Europa, ad opera dei nazisti. Il delitto giuridicamente definito di “genocidio” origina dal razzismo, ne è il logico, e necessario prodotto. Là dove il razzismo si sviluppa liberamente, come appunto nella Germania nazista, si deve parlare di genocidio. Le guerre coloniali che, dopo il 1945 hanno sconvolto il terzo mondo, e che ancora durano, hanno spesso sollevato, contro le potenze coloniali, l’accusa di genocidio, ma problemi di politica internazionale e la relativa indifferenza dell’opinione pubblica, hanno impedito una azione giuridica come quella di Norimberga.

 

Se il genocidio nazista è stato il primo ad essere giudicato, non è però stato il primo genocidio perpetrato. La storia dell’espansione coloniale del XIX secolo – che ha portato alla creazione di grandi imperi coloniali da parte dei maggiori e più potenti stati nazionali europei -, è innanzitutto una catena di sistematici massacri di popolazioni aborigene. Per le dimensioni continentali, per la drammaticità e vastità della caduta demografica, il più evidente è però il genocidio delle popolazioni amerinde. Dal 1492, anno del loro arrivo in America, i bianchi mettono in essere una autentica macchina di distruzione degli aborigeni che continua ancora oggi a funzionare là dove ancora sopravvivono, come nelle grandi foreste amazzoniche, tribù selvagge. Anche negli ultimi anni sono state documentatamene denunciati massacri di indios in Brasile, Colombia, Paraguay: sempre invano. Proprio dalle loro esperienze americane gli etnologi – soprattutto Robert Jaulin – sono stati indotti a formulare il concetto di etnocidio: il referente di questa idea sono gli indios del sud America.

 

Abbiamo dunque a disposizione un terreno tristemente privilegiato per una ricerca circa la differenza tra genocidio ed etnocidio, poiché le ultime popolazioni libere del continente sono simultaneamente vittime di entrambi i crimini. Se il termine genocidio rimanda all’idea di razza, e alla volontà di sterminare una minoranza razziale, l’etnocidio si propone non la distruzione degli individui (nel qual caso cadremmo nel genocidio) ma l’annientamento della loro cultura.

 

L’tenocidio è la distruzione sistematica dei modi di vita e di pensiero di un popolo da parte di un altro popolo. Mentre il genocida uccide fisicamente, l’etnocida uccide lo spirito. In entrambi i casi è la morte, ma una morte differente: la soppressione fisica immediata è altra cosa rispetto alla oppressione culturale; che ha effetto solo sui tempi lunghi e in modo diverso, a secondo delle congiunture e capacità di resistenza degli oppressi. Non si tratta qui di scegliere il minore tra due mali: è fin troppo evidente che in ogni caso è sempre da preferire la minor barbarie.

 

(…)

 

Identica è la visione del diverso nel genocidio e nell’etnocidio: il diverso è la differenza, ma soprattutto la cattiva differenza; però seguono vie e visioni divergenti circa la terapia della “cattiva differenza”. La volontà genicidaria aspira puramente e semplicemente all’annientamento della differenza. Si stermina gli altri perché sono irrimediabilmente malvagi. La volontà etnocida ammette invece una relatività nel male della cattiva differenza: gli altri sono malvagi, ma possono essere riscattati, obbligandoli a trasformarsi, fino a renderli, se possibile, identici a un modello che loro si propone, e infine si impone brutalmente.

 

La negazione etnocida del diverso conduce a una assimilazione dell’altro a sé, in una necessità di totale identificazione, volgendo il due in uno.

 

(…)

 

Chi pratica l’etnocidio? Chi aggredisce l’anima dei popoli? Etnocidari di prima classe, nell’America del Sud, ma anche in altri continenti, si segnalano soprattutto i missionari. Propagandisti militanti della fede cristiana, il loro scopo unico ed esclusivo è di sostituire alle credenze pagane la religione del monoteismo evangelico. La posizione evangelica comporta due certezze:

»         La differenza: il paganesimo, è inaccettabile e deve essere respinta;

»         La cattiva differenza può essere sovrastata e, infine, cancellata …

 

Per questa seconda convinzione ogni cultura etnocidante inclina all’ottimismo: riconosce, come il cristianesimo, al diverso, i mezzi per elevarsi, attraverso un processo di identificazione, fino alla propria assoluta perfezione gaudiosa. Distruggere la forza delle convinzioni pagane, è distruggere la sostanza stessa della socialità tribale. Ma appunto questo è il risultato scientemente cercato dai missionari: sola via per condurre l’indios alla vera fede, è farlo passare dalla sua cultura selvaggia, al qualitativo dei rapporti che vigono tra occidentali.

 

(…)

 

L’orizzonte sul quale si determina e lo spirito e la pratica dell’etnocidio è individuato dai seguenti assiomi:

 

  1. la gerarchia delle culture: ce n’è di inferiori e superiori;
  2. però una e una soltanto è al somma: la nostra!

 

per cui è evidente che la nostra cultura: bianca occidentale. Potrà avere con le altre culture, e segnatamente quelle selvagge, solo un rapporto di tipo negativo. Però si tratta di una negazione positiva, perché qui si vuol sopprimere l’inferiore solo in quel che ha di interiore, per elevarlo. Si sopprime l’indianità indios per farne un cittadino brasiliano. Nella logica convinta degli agenti dell’etnocidio, esso non è mai vissuto come un puro atto distruttivo: questa sua realtà è sempre occultata alle loro coscienze, dove invece è vissuto come un momento necessario che l’umanitarismo – cuore della tradizione culturale occidentale – assolutamente

impone. (…)”

 

cfr. Pierre Clastres – Archeologia della violenza e altri scritti di antropologia politica – La Salamandra Editrice, Milano, 1980, pagg. 45 e successive.