2. L’utopia del tempo
Qual’è
quindi, dopo una così lunga analisi, il segnale da cogliere? E’ cambiata la
concezione della morte o, meglio ancora, sono cambiati gli atteggiamenti umani
davanti alla morte, o è mutato solo l’uso che ne facciamo e la maniera in cui
tendiamo a rappresentarla? Sembrerebbe che, paradossalmente, le sole costanti
concretamente identificabili siano da ricercare entro e non fuori dall’uomo,
nella maniera diversa in cui egli utilizza, per rappresentarla in un tempo ed
in uno spazio dati, una concezione della morte che nella sostanza non muta.
In
realtà, nonostante gli sforzi fatti, non ci sono studiosi in grado di
identificare una concezione della vita e della morte “proprie” di una società:
uomo e morte non hanno tra loro lo stesso rapporto che si riscontra, ad
esempio, tra uomo ed arte. Se il gotico è figlio di un tempo, non esiste un
tempo della morte gotica e, posto davanti alla morte, l’uomo prova gli stessi
sentimenti da sempre: pochi in verità e legati tra loro da nessi insondabili.
Ma i sentimenti non possono essere strutture. La morte di Ettore che ha appena
salutato Andromaca ed Astianatte alle Porte Scee è concepita da un greco al
tempo d’una guerra per il controllo della via del metallo, è “prestata” ad un
troiano, “letta” attraverso metri e ritmi rinascimentali da un uomo del
Cinquecento, e giunge a noi, uomini del Duemila, che la sentiamo come nostra.
E’ la morte “eroica”, strutturata storicamente su valori umani di amor patrio,
pietà religiosa, affetti familiari, ma è anche la ferocia della morte prodotta
dal cozzo degli interessi economici, la violenza della morte, l’uso della
morte, in quanto “eroica”, uso di chi muore, uso di chi uccide. Ed è una
concezione che passa lungo il filo del tempo, corre trasversalmente di spazio
in spazio e di tempo in tempo, è l’intreccio di morte e mistero, morte e
religione, morte e fede, morte e potere. Attorno alla morte dell’uomo ruotano e
mutano fatti; e sono i fatti, ed il modo in cui si verificano, ad influenzare
la percezione che abbiamo della morte; sono ragioni contingenti a spingersi
verso questa o quella percezione. Così la morte “eroica” sembra cancellare
persino la paura della “fine” e del dolore, si fa morte “solenne” ed
emblematica. Di Ernesto Che Guevara freddato in Bolivia, e della sua morte, ciò
che in me sopravvive è la dimensione rivoluzionaria, che è dimensione storica e
vince il sentimento angosciato della separazione definitiva, della scomparsa,
dell’indefinito e dell’infinito, in cui le cose si rimpiccioliscono fino a
sparire; mi rimane dentro la dimensione immediata del dolore mio e suo, ma non
so ancora separare il dolore dall’ammirazione stupefatta e da un’ira sorda che
sembra ancora nascere da un bisogno feroce di vendetta. Se penso a Che Guevara
la morte non è morte. E’ ancora oggi un dito puntato contro gli aguzzini, un
invito a morire, un incitamento a lottare e, paradossalmente qualcosa di assai
più vivo di quanto non sia la vita stessa che sopravvive in me come nella
stragrande maggioranza degli uomini che conosco: la morte è mito si chiude alla
dimensione del tempo. Se penso a Che Guevara ucciso in Bolivia penso ad un uomo
vivo ed a me non invecchiato. Se per assurdo la morte avesse le sue colonne d’Ercole,
direi “Guevara mi ha condotto con lui oltre quelle colonne”: quando ci
penso, la morte, quella morte, non ha nulla della morte. Altro sentire, altra
dimensione, altra natura percepisco nella fine di uno sventurato morto per
strada, di fame e di freddo. E’ un sentire la morte che mi conduce alle
condizioni materiali del morto: condizioni di classe, condizioni economiche o
quant’altro si voglia. La morte che conosco può essere tutto, meno che
“concezione”: si fa immagine, sogno, incubo, passione, tutto, ripeto, tranne
che concezione o mentalità. E’ un momento entro un percorso umano. Un percorso
sempre uguale per i confini nei quali si realizza e sempre diverso per la sua
umanità.
Il
punto è che forse Levi-Strass non ha torto a cercare un’essenza dell’uomo. Essa
probabilmente esiste: è l’uomo–umanità, la struttura essenziale, quella che
passa oltre le barriere del tempo lungo, medio e breve e giunge sino a noi
modificando l’ambiente in un rapporto che non è né alla pari, né sbilanciato a
favore dell’ambiente, che, in realtà, conserva un suo primato solo in una
visione della storia di tipo trascendente. Un rapporto che è, al contrario,
tutto a favore dell’uomo. Non ci sono strutture che “ingabbiano” l’umanità
senza esserne ingabbiate; nessuna struttura, meno che mai strutture di potere,
le quali, certo, possono privare della vita uomini e popoli, ma non possono
ridurli davvero in cattività. Il potere e le sue strutture possono derubarci
del nostro tempo, sottrarcene tutto o parte, incarcerarci o ucciderci, questo
possono, sì, ma siamo noi che li induciamo a decidere di farlo, noi che non ne
accettiamo il peso e l’imposizione: intendevano piegarci e sono così piegati.
Attorno
alla struttura dell’uomo, attorno all’umanità, ruota l’ambiente, la cui
nascita, dal punto di vista storico, coincide evidentemente con la nascita
dell’uomo. Storicamente, prima e dopo dell’uomo è il nulla. Siamo noi che
storicizziamo e, di conseguenza, liberamente produciamo o creiamo, dal
presente, ciò che era senza sapere di essere, prima di noi, nel passato. Come
facciamo, del resto, col passato stesso. Geologia e fisica, astronomia e
botanica, tutte le scienze - e la materia stessa - hanno una vita
esclusivamente storica e mutano quando l’uomo ne coglie – o, se si vuole, ne
“pensa” - il cambiamento. Nulla c’è di più falso e lontano dall’uomo di una
storia intesa come scienza esatta, di una umanità che si “misuri” o racconti se
stessa “contando”, piuttosto che raccontando. Checché ne pensi Mc Clelland, non
è il “quanto” a fare la storia: un milione di libri stampati raccolti e
catalogati in una biblioteca senza essere stati mai letti da nessuno, non
valgono infatti un solo libro, nemmeno eccelso, ma letto e studiato.
In
quanto ad una storiografia che pretenderebbe di spiegare i fatti storici con
astrazioni elaborate dai teorici della “nuova storia economica”, che pensano di
“quantificare” i campi della ricerca storica per verificare empiricamente
ipotetici “scenari controfattuali”, essa potrà anche produrre un’ipotesi di
sviluppo economico dello stato romano nel primo secolo a.C., fondato sulla
scomparsa del latifondo e del lavoro servile – come, del resto, ha provato a
valutare un’ipotesi di sviluppo degli Usa nell’Ottocento senza le ferrovie.
Nulla aggiungerà o toglierà alla conoscenza che abbiamo della Roma di Giulio
Cesare, come nulla ha aggiunto o tolto a ciò che già conosciamo dell’America
del West.
L’idea
di imporre al corso del tempo il ritmo dei se e dei ma e di
trasformare la storia dell’uomo in un percorso regolato dalle leggi essenziali
e primordiali dell’economia di mercato – nella sostanza costi e profitto – che
si collocano fuori del tempo, è probabilmente figlia di un’operazione
ideologica, di un tentativo, in verità nato asfittico, di escludere dalla
storia cultura e politica, di trasformare i valori ideali in valori di scambio
e fare delle sole leggi economiche, che oggi sono le leggi del capitale, la
chiave di lettura della vicenda umana per cui l’umanità, costretta a pensare in
termini di crescita economica o di recessione, mette fuori dalla storia ideali
e sentimenti, poiché non rientrano nella sfera dei rapporti economici. In un
panorama scientifico nel quale, come scrive Feyereband “le idee di cui gli
scienziati si servono per avanzare nell’ignoto solo raramente sono in accordo
con le rigorose ingiunzioni della logica e della matematica pura” [P.
K. Feyerabend, Contro il metodo. Abbozzo di una teoria anarchica della
conoscenza, riportato da Macry, p. 47] è impensabile che la
storia postuli una sua “scientificità”.
In questo senso, basta ben poco per accorgersi di quanto sia complesso,
problematico e soprattutto molto meno tranquillizzante di quanto appaia a prima
vista, la definizione di coordinate spaziali e temporali entro cui collocare la
vicenda umana. Complessa e poco tranquillizzante, anche e soprattutto perché
non si tratta evidentemente di un “collocare” statico, di un definire
stabilmente, di un ancorare solidamente ad un momento e ad un luogo su di una
“linea del tempo” che si configura come una retta disegnata su di un piano; ciò
che occorre probabilmente è avere in mente una linea orizzontale, tagliata da
rette disposte su più piani che si intersechino tra loro. In questo modo, il
tempo, tutto il tempo, si pone così avanti a noi come un fiume maestoso. Esso,
tuttavia, non ha e non potrebbe avere “corrente” e non ha direzione. A muovere
fatti e idee, a dar corso alle cose, a spingerle ed a farle navigare in un
senso o nell’altro, senza che questo voglia dire “camminare verso una foce”, a
dar vita di volta in volta al passato, siamo noi, che ci portiamo dentro il
cammino della storia e lo elaboriamo, noi per i quali hanno un senso il
presente, il passato e il futuro. Un tempo ed uno spazio intesi come il
retorico “fiume degli eventi” sono un’astrazione. E’ l’uomo che dà vita reale
alle coordinate dello spazio e del tempo, e lo fa, dall’unica prospettiva
possibile: quella della realtà in cui opera e agisce: il suo tempo ed il suo
spazio. Lo facciamo noi oggi, lo hanno fatto i nostri antenati, lo faranno
domani, le generazioni che verranno dopo di noi. Dirò eresie, ma è così che
sento il passato. La storia che conduce i fatti alla foce non mi riguarda e non
mi interessa. La leggo, la studio, la
ricostruisco alla luce di un interesse prevalente: gli uomini e le donne del
mondo in cui vivo. Me li porto appresso, miei compagni di viaggio nelle
scorrerie in archivio, nelle letture, nelle riflessioni. Sono con me mentre
parlo agli studenti, le metto al centro, tra me ed i fatti, mi fanno da cartina
di tornasole quando azzardo interpretazioni. Il tempo non esiste, mi dico e con
questo non fingo d’ignorare Galilei e Newton. Dico semplicemente che da un
punto di vista squisitamente storico, il fatto che esso non sia generato dalla
coscienza dell’uomo come intuizione interiore, ma abbia una dimensione reale
oggettiva, misurabile con lo spazio, in rapporto al “movimento”, non ha alcun
senso. Dal punto di vista della storia, che è scienza umana, il tempo rimane
una convenzione strumentale, che accettiamo per questioni ”organizzative”. Le
epoche della storia sono stagioni dell'uomo. Ce le portiamo dentro a livelli
diversi di consapevolezza e partecipazione, ma convivono entro di noi e nei
gruppi sociali nei quali consumiamo il nostro tempo. L'unico del quale abbiamo
percezione chiara. Ci accomunano bisogni, ci separano modi di soddisfarli, ma
non è questione di "tempo". La preistoria è tutta ancora davanti a
noi: uomini vivono oggi con noi, che non usano metalli, non scrivono e
accendono il fuoco strofinando rami secchi o pietre focaie. Essi sono qua e là
sparsi per il mondo e noi stessi viviamo stagioni "primitive":
l'infanzia è la nostra preistoria. Me la porto dentro, tempo contemporaneo
fattosi passato, di cui ho traccia in un altro tempo contemporaneo: quello che
vivo oggi, adulto, senza che l’uno possa cancellare l’altro. Del futuro non so
e non voglio sapere e faccio tesoro di ciò che molto laicamente ebbe animo di
dire Santa Caterina: “chi fosse savio non perderebbe il tempo che ha per quello
che non ha”.
Tutto ciò che nel tempo della
storia mi aiuta a dare dimensione politica a ciò che vivo è per me
contemporaneo e le mie incursioni in archivio smettono di apparirmi strampalate
ed illogiche, tutte le volte che faccio intervenire gli uomini e le donne che
porto con me e li metto davanti alle mie carte. Quegli uomini e quelle donne mi
sono indispensabili: consentono il confronto. Non esistono vecchio e nuovo,
passato e presente: ci sono uomini che pensano, decidono e agiscono. La storia
è la ricostruzione dell'agire e del pensare nel tempo in cui vivo, in rapporto
all'agire e al pensare di altri uomini in altri contesti temporali e spaziali.
Immagino certo un passato, ma non riesco mai a separarlo da una consapevolezza:
è stato prima futuro, poi si è fatto presente. Ogni tempo conserva in sé queste
dimensioni diverse: siamo noi che ci collochiamo diversamente rispetto al
tempo: il presente di mio padre è il mio passato ed il mio futuro prima o poi
sarà presente. Lo sarà, se il filo della mia vita non si spezzerà. Il mio filo
che è per me ora quello di tutti. Togliamo di mezzo gli uomini ed avremo
cancellato il tempo o, quantomeno la percezione della sua esistenza. Ecco, in
questo mondo senza storia si collocano gli uomini e sono essi che "fanno
il tempo". Il tempo e la storia. Abbiamo dentro.tutte le stagioni
dell'uomo, le idee e gli ideali, i fatti e gli eventi. Se mi chiedessero di
definire il tempo contemporaneo, toglierei contemporaneo, direi la storia, e
intenderei il presente, che volutamente e strumentalmente mettiamo al bando. Perché
lo facciamo? Forse perché non c'è cosa più difficile che mettersi in
discussione. Lo so, è una spiegazione insufficiente, ma non so trovarne altre.
Engels diceva che gli uomini sono così "piccoli" e timorosi, che, per
ribellarsi, devono essere messi spalle al muro. Una rivoluzione nasce solo per
disperazione. La debolezza, l'impreparazione, l'ignoranza fanno serve le masse:
è l'esatto contrario di ciò che accade alle élites che hanno in pugno - o
ritengono di averlo - il mondo. L'arroganza però acceca e la disperazione
risveglia: nessuno può dire di essere proprietario del tempo solo perché
possiede uno spazio.