1. Dal passato al
presente
Nell’opinione
comune, la storia si riduce soprattutto ad una “successione di fatti” legati
tra loro da un più o meno evidente rapporto di casualità. La materia su cui
lavora lo storico è costituita quindi da “avvenimenti” accaduti in un tempo
diverso dal suo, ad opera di uomini che li hanno prodotti e vissuti. Attraverso
documenti e testimonianze, lo studioso “cerca” e riordina i fatti, li pone in
rapporto tra loro contestualizzandoli, li interroga ed offre infine una lettura
del passato.
In
realtà, il lavoro dello storico è decisamente più complesso, il suo rapporto
coi fatti molto meno “subordinato“ e il risultato delle sue ricerche non si
riduce mai ad una semplice “ricostruzione” del passato che, ad ogni buon conto,
è sempre parziale. Tale, infatti, è la conoscenza che egli ha dei fatti che
racconta, soggettivo l’angolo visuale dal quale li osserva, legata al suo mondo
di valori ne è infine l’interpretazione. Al di là delle apparenze, delle
intenzioni e delle tentazioni di molti studiosi che, ansiosi di una malintesa
legittimazione scientifica, identificano la storia col fatto - e di conseguenza
col passato - il vero interesse dello
storico non è mai esclusivamente rivolto a “ciò che è stato” ed a quanto vi è
di definitivo e rigorosamente valutabile - posto che esista un passato
definitivo ed una valutazione conclusiva e decisiva - bensì la capacità che
riconosce al passato di far luce sul tempo in cui egli si muove e pensa e da
cui non sa e non può assolutamente prescindere. Il significato profondo di ogni
ricerca storica, anche quando si esercita su realtà lontane nel tempo e nello
spazio da quelle in cui vive lo studioso, è sempre intimamente legato al
presente. Forse ci riflettiamo poco ed invece sarebbe utile tenerne conto: il
passato che lo studioso ricostruisce è stato
il presente di uomini che lo hanno preceduto. Ricostruirlo significa
saper mettere in qualche modo in relazione tra loro due “presenti”, uno dei
quali è “storico” perché non ne abbiamo alcuna esperienza diretta sicché, per
averne una qualche conoscenza, è necessario ricostruirne gli eventi attraverso
i documenti di cui disponiamo. Questi ultimi a loro volta, per quanti sforzi
faremo, nel corso dei nostri studi ci porranno sempre di fronte a tre problemi:
a) non avremo mai
una documentazione capace di raccontarci tutti i fatti accaduti;
b) non riusciremo a
dare pari importanza ai documenti ritrovati;
c) tra i fatti
accertati - che sono evidentemente una parte di quelli accaduti - racconteremo
solo quelli che ci appariranno storicamente rilevanti.
Ci studieremo di inserire in un contesto di spazio e di
tempo quelli scelti, torneremo più volte sul nostro lavoro, decideremo di
riflettere più volte su parte dei fatti accertati e dei documenti disponibili,
altri ci appariranno inutili e li elimineremo. Di questi ultimi, alla fine del
lavoro, recupereremo una parte e più volte recuperati. Lo vogliamo o meno,
opereremo inevitabilmente una selezione. Così hanno fatto e faranno persino
empiristi convinti come Ranke e Roskill, In realtà, anche i sacerdoti della
storia intesa come scienza dei fatti.
non sono in grado di andare al di là della enunciazione di una teoria
che si rivela sistematicamente impossibile da realizzare. Parziale risulta
infatti nel lavoro dello storico non solo com’è naturale l’interpretazione, ma
la stessa scelta del fatto inteso come “evento di rilevanza storica”. Sembra
un’eresia, ma è una verità facile da verificare. Da un punto di vista
rigorosamente tecnico, per fare un esempio, l’uccisione di Cesare alle idi di
marzo è anzitutto un volgare e comune delitto e - come tale - non ha
significato storico. Certo, identificato in Cesare un uomo politico, occorrerà
capire se l’omicidio è un delitto politico.
Dato per scontato che lo sia, nessuno
sosterrà comunque che ogni reato politico abbia di per sé particolare
significato storico. L’assassinio di Cicerone sulla spiaggia di Anzio conclude
la vicenda personale di un grande oratore che fu anche un uomo politico, ma non
ha, per se stesso, alcun peso sugli sviluppi successivi della vicenda storica
dell’agonizzante repubblica romana. Nel caso di Cesare, invece, l’omicidio
elimina fisicamente dalla scena un protagonista della terribile crisi allo
scopo di modificare il corso degli eventi. Riuscito o meno, esso è lo strumento
scelto dai congiurati per paralizzare un processo politico. Lo storico che a
questo punto se ne occupa, si ferma su questo elemento e, impossibilitato ad
occuparsi di tutti i fatti, decide di trascurarne mille altri. I numerosi
congiurati si riducono, ad esempio, essenzialmente a due: Bruto e Cassio; come si sia giunti all’omicidio, dove e
quando sia maturata l’idea, chi ebbe a proporla e cosa pensasse di ottenere,
sembra non avere importanza. Questa polarizzazione dell’interesse è legata alla
qualità e quantità della documentazione disponibile o, al contrario, disponiamo
solo di questi documenti perché questi e solo questi sono apparsi da subito
interessanti agli storici e la selezione iniziata nel 44 a.C. altro non ci ha lasciato?
Sappiamo tutto quanto serve o conosciamo solo quanto altri studiosi, conservano
e selezionando, hanno deciso che fosse necessario sapere? Come che sia, è certo
che ci muoviamo su binari “dati” dalle conoscenze acquisite e che, a nostra
volta, facciamo immediatamente ulteriori selezioni. A chi, in età di forte
passione repubblicana, sarà capitato di riflettere sull’evento, per sondare l’animo del tiranno ed accertarne la
volontà, molto avranno detto i documenti volti a definire la personalità di Cesare
ed in quella direzione avrà spinto la sua ricerca. Altri, in tempo di “ordine
imperiale”, si saranno interrogati sulla figura del regicida e avranno indagato
sull’animo esaltato e sulla sostanziale pochezza di Bruto e Cassio. Studiosi di
storia politica, si interrogano e si interrogheranno ancora sulle conseguenze
che i fatti ebbero sulla crisi istituzionale della repubblica: morì un tiranno
o un uomo che era riuscito a guardare così lontano da aver immaginato, in
anticipo sui tempi, lo sbocco fatale della crisi? La fine miserevole di Bruto
risponde alla logica ferrea della storia e non offre scampo a chi le si para
davanti nell’illusione fatale di condurla fuori dalla strada che le hanno
aperto gli eventi, Esiste un’etica della storia che trascenda i fatti ed i
tempi in cui essi si verificano e consenta di collocare al suo interno i
comportamenti degli uomini, fino al punto da legittimare il tirannicidio di
fronte a diritti ed aspirazioni che hanno avuto ed avranno cittadinanza in ogni
momento della vicenda umana?
Su questi grandi
temi gli studiosi di ogni tempo si impegnano sui due fronti - ma sarebbe meglio
dire “livelli”- di un dibattito ampio ed inesausto:
-
quello sui particolari
della ricostruzione e della sua lettura, che non consente di andare con lo
sguardo oltre le idee, i valori, le regole e i principi filosofici che
costituiscono i caratteri distintivi di dell’epoca di cui ogni studioso è
naturalmente - e sarei per dire fatalmente – espressione;
-
l’altro, più complesso e
faticoso, ma anche più elevato e se così si può dire “scientificamente” più
qualificato, che cerca i motivi ricorrenti nella costante trasformazione, gli
elementi comuni ad ogni tempo nella diversità dei tempi, un filo rosso che lega
tra loro le generazioni, l’uomo di ogni tempo nell’uomo delle singole epoche.
Se
esiste è questa - ben più che quella dei fatti - la sola oggettività della
storia: quella che si costruisce sul
significato che i fatti, ripetendosi, assumono per gli uomini di tutti i tempi.
In questo quadro, la semplice
verità del “fatto” - che non dovrebbe del resto essere in discussione: lo
storico lavora solo su
dati certi e veri - appare di per sé incapace di garantire la verità della storia.