Capitolo 3°

 

I fatti e la storia

 

 

1.     Dal passato al presente

 

Nell’opinione comune, la storia si riduce soprattutto ad una “successione di fatti” legati tra loro da un più o meno evidente rapporto di casualità. La materia su cui lavora lo storico è costituita quindi da “avvenimenti” accaduti in un tempo diverso dal suo, ad opera di uomini che li hanno prodotti e vissuti. Attraverso documenti e testimonianze, lo studioso “cerca” e riordina i fatti, li pone in rapporto tra loro contestualizzandoli, li interroga ed offre infine una lettura del passato.

In realtà, il lavoro dello storico è decisamente più complesso, il suo rapporto coi fatti molto meno “subordinato“ e il risultato delle sue ricerche non si riduce mai ad una semplice “ricostru­zione” del passato che, ad ogni buon conto, è sempre parziale. Tale, infatti, è la conoscenza che egli ha dei fatti che racconta, soggettivo l’angolo visuale dal quale li osserva, legata al suo mondo di valori ne è infine l’interpretazione. Al di là delle apparenze, delle intenzioni e delle tentazioni di molti studiosi che, ansiosi di una malintesa legittimazione scientifica, identificano la storia col fatto - e di conseguenza col passato -  il vero interesse dello storico non è mai esclusivamente rivolto a “ciò che è stato” ed a quanto vi è di definitivo e rigorosa­mente valutabile - posto che esista un passato definitivo ed una valutazione conclusiva e decisiva - bensì la capacità che riconosce al passato di far luce sul tempo in cui egli si muove e pensa e da cui non sa e non può assolutamente prescindere. Il significato profondo di ogni ricerca storica, anche quando si esercita su realtà lontane nel tempo e nello spazio da quelle in cui vive lo studioso, è sempre inti­mamente legato al presente. Forse ci riflettiamo poco ed invece sarebbe utile tenerne conto: il passato che lo studioso ricostruisce è stato  il presente di uomini che lo hanno preceduto. Ricostruirlo significa saper mettere in qualche modo in relazione tra loro due “presenti”, uno dei quali è “storico” perché non ne abbiamo alcuna esperienza diretta sicché, per averne una qualche conoscenza, è necessario ricostruirne gli eventi attraverso i documenti di cui disponiamo. Questi ultimi a loro volta, per quanti sforzi faremo, nel corso dei nostri studi ci porranno sempre di fronte a tre pro­blemi:

a)       non avremo mai una documentazione capace di raccontarci tutti i fatti accaduti;

b)       non riu­sciremo a dare pari importanza ai documenti ritrovati;

c)       tra i fatti accertati - che sono evidentemente una parte di quelli accaduti - racconteremo solo quelli che ci appariranno storicamente rilevanti.

Ci studieremo di inserire in un contesto di spazio e di tempo quelli scelti, torneremo più volte sul nostro lavoro, decideremo di riflettere più volte su parte dei fatti accertati e dei documenti disponibili, altri ci appariranno inutili e li elimineremo. Di questi ultimi, alla fine del lavoro, recupereremo una parte e più volte recuperati. Lo vogliamo o meno, opereremo inevitabilmente una selezione. Così hanno fatto e faranno per­sino empiristi convinti come Ranke e Roskill, In realtà, anche i sacerdoti della storia intesa come scienza dei fatti.  non sono in grado di andare al di là della enunciazione di una teoria che si rivela sistematicamente impossibile da realizzare. Parziale risulta infatti nel lavoro dello storico non solo com’è naturale l’interpretazione, ma la stessa scelta del fatto inteso come “evento di rilevanza storica”. Sembra un’eresia, ma è una verità facile da verificare. Da un punto di vista rigorosamente tecnico, per fare un esempio, l’uccisione di Cesare alle idi di marzo è anzitutto un volgare e comune delitto e - come tale - non ha significato storico. Certo, identificato in Cesare un uomo politico, occorrerà capire  se l’omicidio è un delitto politico. Dato per scontato che lo sia,  nessuno sosterrà comunque che ogni reato po­litico abbia di per sé particolare significato storico. L’assassinio di Cicerone sulla spiaggia di Anzio conclude la vicenda personale di un grande oratore che fu anche un uomo politico, ma non ha, per se stesso, alcun peso sugli sviluppi successivi della vicenda storica dell’agonizzante repubblica romana. Nel caso di Cesare, invece, l’omicidio elimina fisicamente dalla scena un protagonista della terribile crisi allo scopo di modificare il corso degli eventi. Riuscito o meno, esso è lo strumento scelto dai congiurati per paralizzare un processo politico. Lo storico che a questo punto se ne occupa, si ferma su questo elemento e, impossibilitato ad occuparsi di tutti i fatti, decide di trascurarne mille altri. I numerosi congiurati si riducono, ad esempio, es­senzialmente a due: Bruto e Cassio;  come si sia giunti all’omicidio, dove e quando sia maturata l’idea, chi ebbe a proporla e cosa pensasse di ottenere, sembra non avere importanza. Questa polarizzazione dell’interesse è legata alla qualità e quantità della documentazione disponibile o, al contrario, disponiamo solo di questi documenti perché questi e solo questi sono apparsi da subito interessanti agli storici e la selezione iniziata nel 44 a.C. altro non ci ha lasciato? Sappiamo tutto quanto serve o conosciamo solo quanto altri studiosi, conservano e selezionando, hanno deciso che fosse necessario sapere? Come che sia, è certo che ci muoviamo su binari “dati” dalle conoscenze acquisite e che, a nostra volta, facciamo immediatamente ulteriori selezioni. A chi, in età di forte passione repubblicana, sarà capitato di riflettere sull’evento, per  sondare l’animo del tiranno ed accertarne la volontà, molto avranno detto i documenti volti a definire la personalità di Cesare ed in quella direzione avrà spinto la sua ricerca. Altri, in tempo di “ordine imperiale”, si saranno interrogati sulla figura del regicida e avranno indagato sull’animo esaltato e sulla sostanziale pochezza di Bruto e Cassio. Studiosi di storia politica, si interrogano e si interrogheranno ancora sulle conseguenze che i fatti ebbero sulla crisi istituzionale della repubblica: morì un tiranno o un uomo che era riu­scito a guardare così lontano da aver immaginato, in anticipo sui tempi, lo sbocco fatale della crisi? La fine miserevole di Bruto risponde alla logica ferrea della storia e non offre scampo a chi le si para davanti nell’illusione fatale di condurla fuori dalla strada che le hanno aperto gli eventi, Esiste un’etica della storia che trascenda i fatti ed i tempi in cui essi si verificano e consenta di collocare al suo interno i comportamenti degli uomini, fino al punto da legittimare il tirannicidio di fronte a diritti ed aspirazioni che hanno avuto ed avranno cittadinanza in ogni momento della vicenda umana?

 Su questi grandi temi gli studiosi di ogni tempo si impegnano sui due fronti - ma sarebbe meglio dire “livelli”- di un dibattito ampio ed inesausto:

-         quello sui particolari della rico­struzione e della sua lettura, che non consente di andare con lo sguardo oltre le idee, i valori, le re­gole e i principi filosofici che costituiscono i caratteri distintivi di dell’epoca di cui ogni studioso è naturalmente - e sarei per dire fatalmente – espressione;

-         l’altro, più complesso e faticoso, ma anche più elevato e se così si può dire “scientificamente” più qualificato, che cerca i motivi ricorrenti nella costante trasformazione, gli elementi comuni ad ogni tempo nella diversità dei tempi, un filo rosso che lega tra loro le generazioni, l’uomo di ogni tempo nell’uomo delle singole epoche.

Se esiste è questa - ben più che quella dei fatti - la sola oggettività della storia: quella che si costruisce  sul significato che i fatti, ripetendosi, assumono per gli uomini di tutti i tempi.

 

In questo quadro, la semplice verità del “fatto” - che non dovrebbe del resto essere in discussione: lo storico lavora solo su

 

dati certi e veri - appare di per sé incapace di garantire la verità della storia.