Capitolo 3°

 

I fatti e la storia

 

 

2. Verità del fatto e relatività del linguaggio

 

Scienza umana, la storia si fa empirica solo quando conviene sulla verità di alcuni fatti intesi come “definizione” e sulla possibilità di indicare alcuni fenomeni che si ri­petono ricorrendo alla stessa definizione. Non si tratta però, come potrebbe apparire, di una semplice operazione linguistica, ed in ogni caso la cautela. Se, per esser chiari, due popoli si sono affrontati armi in pugno, lo storico dirà che c’è stata una guerra, e se cittadini di uno stesso popolo si sono combattuti tra loro aggiungerà che la guerra è stata “ci­vile”. Sembra tutto chiaro – banale persino -  ma in realtà il terreno è minato. Ci sono, per fare un esempio, almeno due buoni motivi, per dubitare che la lotta tra partigiani e fascisti sia stata guerra civile: intanto perché la resistenza italiana è parte di un fenomeno dalle dimensioni molto più ampie - i popoli eu­ropei lottano tutti contro gli occupanti nazifascisti, molti italiani combattono nelle formazioni parti­giane in Belgio, Francia, Grecia e Jugoslavia e nelle nostre brigate non mancano tedeschi che hanno abbandonato il campo nazista, militari anglo americani e slavi fuggiti dai campi di prigionia – e in se­condo luogo perché i partigiani non combattono solo coi fascisti, ma anche con i nazisti. Che guerra civile può essere quella che si combatte contro uno straniero? Quale che sia la risposta, è difficile negare che mentre i sol­dati di Salò militano in un esercito che si batte nella patria invasa al fianco degli invasori, fanno perciò una guerra senza onore – se in guerra c’è onore - e percepiscono se stessi come soldati di una guerra civile, al­tra è ben più elevata è la percezioni che i partigiani, e chi oggi ne scrive la storia, hanno della guerra che combattono: guerra di liberazione si è scritto, quella che, sia detto per inciso, per sua natura, non può essere condotta “per supplenza” da eserciti stranieri, ma è lotta di popolo per la libertà contro un invasore. E’ per intenderci, la guerra che combattono oggi i Ceceni contro i russi, i palestinesi contro gli Israeliani e gli Iracheni contro gli anglo americani i quali, per loro conto, tendono a dare alla loro guerra di aggres­sione l’etichetta strumentale di “guerra di liberazione”.

In realtà, se la verifica del “fatto” e la necessità di costatarne l’autenticità impegnano a fondo lo sto­rico, la difficoltà che egli incontra nel definire un linguaggio imparziale dimostra quanto sia avventuroso dare valore definitivo ad una interpretazione dei fatti storici. Una difficoltà evidente, che si incontra di continuo, persino discutendo del linguaggio specifico della storia. Si prenda, ad esempio la parola terrorismo, o pratica del terrore, che definisce genericamente sia lo strumento cui ricorre un governo per mantenersi al potere – classico, se così si può dire il periodo, della ditta­tura del Comitato di salute pubblica instaurata tra il 1793 e il 1794 da Robespierre e Saint-Just du­rante la Rivoluzione Francese – sia il metodo di lotta teso a rovesciare con la violenza organizzata un assetto politico-sociale. Una genericità che accomuna motivazioni morali praticamente antiteti­che: quelle di chi usa la violenza per impedire ad altri di ottenere con mezzi legali un mutamento dell’assetto politico; di chi, viceversa, vedendosi preclusa le via legale, ricorre alla violenza; e di chi, infine, sceglie la via della violenza, pur avendo aperta quella della lotta politica legalitaria. Se ed in che mi­sura, la violenza del potere sia necessaria alla conservazione, come sosteneva Machiavelli ricor­dando al Principe che per “ripigliare lo Stato” occorre di tanto in tanto “mettere quel terrore e quella paura negli uomini che vi aveva(no) messo per pigliarlo” [Discorsi sulla prima deca di Tito Livio, III, I], o salvaguardi le conquiste della rivoluzione come sosteneva Trotzky [Terrorismo e comuni­smo. Anti Kautskj, cap II], è questione che ci condurrebbe lontani. Più interessante per il nostro di­scorso è, al contrario, una breve annotazione che l’analisi linguistica propone sul rapporto che corre tra l’intrinseca “verità del fatto" e l’evidente “relatività del linguaggio”. Al di là del diverso rilievo storico, e delle indiscutibili esigenze della “contestualizzazione”, infatti, è impossibile igno­rare la carica ideologica che sottende l’esaltazione revisionistica della verità del fatto, quando, utilizzando strumentalmente le parole, si pretende di collocare seccamente nella categoria degli attentati terroristici la bomba partigiana di via Rasella e quella stragista di Piazza Fontana.

In realtà, la lettura della vicenda storica nasce da un intreccio così inestricabile di elementi oggettivi e soggettivi, di passato e presente, che è difficile dissentire da Bloch quando riconosce al passato la qualità di dato non modificabile, la cui conoscenza costituisce, tuttavia, un patrimonio “in fieri che si trasforma e si perfeziona incessantemente” [M. Bloch, Apologia della storia, Einaudi, Torino, 1969, p. 65]. Per quanto mi riguarda, penso  che uno storico non faccia altro che raccontare, e mi stupisce che ci sia chi ritenga ragionevole pretendere che i suoi “racconti” siano ritenuti “verità scientifica”. Non può esserlo, come ben sapevano gli antichi annalisti che pure producevano solo elenchi di avvenimenti, come sapeva Ero­doto, che spinse il suo relativismo al punto di individuare una giustificazione morale – la funzione svolta nelle guerre persiane – nella supremazia di Atene, la sapeva Tucidide, che applicò per primo la filosofia allo studio dei fatti, riconoscendone evidentemente la natura di “pensiero” e negando così alla radice la pretesa “verità” che gli storici dovrebbero limitarsi a registrare, mettendo semplicemente assieme i fatti con accuratezza e imparzialità rigorosa, lo sapeva Vico, che distingueva la certezza dalla verità, indi­cando in ciò che è certo un dato di coscienza – e perciò “individuato” e “particolarizzato” – ed in ciò che è vero l’elemento scientifico e quindi “comune” e “generale” [G. B. Vico, La scienza nuova, a cura di B. Nicolini, Bari 1967, libro 1°, sezione 2°, pp. 74 e 112], lo riconobbe infine anni fa lucidamente Le Goff, ricordando le continue “nuove letture del passato”, le “perdite, le resurre­zioni, i vuoti di memoria e le revisioni. Lo ignorano, o fingono di ignorarlo – i nuovi “revisionisti”, sacerdoti di una storia che ricostruisce ma non interpreta, che hanno sulla loro tavolozza null’altro che le gradazioni del grigio: quelle di una storia figlia di uomini che non pensano". [Storia, in Enciclopedia Einaudi, Einaudi, Torino, 1977-1984, vol. 13° p. 573].

Eppure, chi ha dimestichezza con carte d’archivio sa che comunque si guardi, il fatto storico si pone muto e solenne davanti allo studioso: parla se lo storico lo interroga, dà risposte solo alle domande che gli vengono poste, si illumina là dove si indirizza la curiosità di chi lo osserva, ha la valenza, le origini e le conseguenze che lo studioso vi trova. Così, la conquista di Roma nel 1870 è una tappa fondamentale nella costruzione dello stato unitario, ma è anche il punto di rottura più profonda cui giungono i rapporti tra Stato e Chiesa nell’Italia postunita­ria. Lo studioso di storia della Chiesa ricostruirà i fatti politici, diplomatici e militari da un angolo visuale che non è – e non potrebbe essere quello dello storico del Risorgimento. L’uno e l’altro, tut­tavia, tenteranno ricostruzioni e interpretazioni provvisorie - ne sono consapevoli - destinate a mutare col mutare dell’atmosfera cultu­rale, del sistema di valori nel quale si formano. Come osserva giustamente Macry, i  “paradigmi sto­riografici nascono, si affermano e muoiono”. Così la concezione teologica della storia, diffusa nel Medio­evo, è stata negata dalla storiografia umanistica, la storia idealistica di metà Ottocento è stata smentita dalla storia sociologica di un secolo dopo, così cambieranno domani, stanno già cambiando “le categorie di analisi, le tecniche di lavoro, le fonti documentarie” [P. Macry, La società contemporanea. Una in­troduzione storica, Il Mulino, Bologna 1995, p. 17]. E’ così, anche se, quando non intervengono fatti trauma­tici di particolare rilievo, nessun paradigma storiografico è tanto “contemporaneo” e “isolato” da non lasciare spazio dentro di sé a processi graduali e costanti di invecchiamento e ringiovanimento. Processi di ricambio: il passaggio dal vecchio al nuovo e, in rapida successione, dal nuovo che invecchia a quello che nasce.

In questo quadro di “contemporaneità” o, se si vuole, nel paradigma epocale predominante, lo storico seleziona ed ordina i fatti, secondo criteri individuali che costituiscono di per sé una forma di inter­pretazione, “senza la quale – scrive acutamente Carr – il passato si trasforma in un guazzabuglio di avvenimenti casuali sconnessi e insignificanti e diventa impossibile fare storia”. Appare chiaro a questo punto, che la “storia dei fatti”, quella “oggettiva e scientifica”, che aspira a “fotografare” gli avvenimenti per descriverli “così come sono andati” e batte in breccia le pretese deformazioni ideologiche degli storici militanti, è paradossalmente un’astrazione teorica fondata su una conce­zione singolarmente ideologica del fatto storico, inteso come dato reale, esterno alla coscienza dello studioso che ne prende atto, lo assume passivamente e lo rielabora, sicché, come accade per i dati dell’esperienza, il fatto resta rigorosamente separato dalle interpretazioni che se ne possono dare.

La storia non è mai questo e, per quanto possa apparire strano, sono proprio i fatti, privati del sostegno dell’interpretazione, a renderla parziale. Non occorre molto per verificarlo. Si prenda, a esempio, l’episodio di Bronte e lo si affidi alla sola rigorosa ricostruzione degli eventi. Visto così, con i contadini che occupano le terre e i garibaldini che li fucilano, esso si riduce ad un problema di ordine pubblico. Certo, in tempo di passione patriottica e di epopea nazionale, così lo ha letto inevitabilmente - senza alcuna intenzione di minimizzarlo - lo storico borghese dell’Italia unita. Lo ha letto così però non perché ha lasciato che fossero semplicemente i fatti a parlare. Tutt’altro. Preso da altri eventi, espressioni di altri valori, ha scelto e selezionato quelli per lui più rilevanti. Al contrario, nelle ricostruzioni più recenti, in cui la sensibilità sociale si è fatta più acuta e la questione meridionale è diventata questione nazionale, l’episodio ha assunto rilevanza storica, perché gli studiosi marxisti vi hanno visto il marchio borghese che segna la vicende dell’unificazione nazionale. Il fatto rimane lo stesso - nella sostanza, un problema di ordine pubblico - ed in quanto tale molto non dice. Tuttavia, se lo storico, violando la santità del fatto, lo interroga, emergono immediatamente da una parte le grandi speranze e l’eccitamento degli animi in un clima rivoluzionario, dall’altra il timore dei garibaldini, che, dopo aver acceso gli animi delle masse, temono di esserne travolti. Violata la consegna, il racconto si fa  più complesso ed attuale e le domande si moltiplicano; la pena di morte eseguita sul campo, scuote la coscienza contemporanea, la “fame di terra” si fa filo rosso che passa per le frequenti stragi proletarie, richiama alla mente la questione sociale e conduce ad altre occupazioni di terre, quelle che precedono e accompagnano la riforma agraria. Siamo ai primi anni della repubblica e gli avvenimenti del passato suggeriscono nuove ipotesi di ricerca domande inquietanti. Il “fatto”, certo, non muta: nella sostanza è ancora problema di ordine pubblico. Ma è, tuttavia, uno dei testimoni di un processo di unificazione nazionale al quale le masse contadine del Sud restano estranee, annuncia la nascita precoce delle “due Italie”, la formazione di un blocco sociale destinato a cementarsi e lo spettro di una guerra civile - il brigantaggio - che stenterà a trovare la dimensione di evento storico e per oltre un secolo sembrerà anch’esso un eccezionale problema di ordine pubblico: militari che presidiano le terre del Sud per stanare sbandati e banditi. Il prezzo altissimo - più caduti di quanti non ne registrano nel loro insieme le guerre d’indipendenza - la presenza ingombrante di una classe dirigente che ignora i bisogni delle masse meridionali, mettono in discussione sul piano linguistico prima ancora che storico la verità del fatto. Basta sostituire i briganti con ribelli e legittimisti, e il fatto assume una dimensione storica del tutto diversa. Briganti o ribelli, ordine pubblico o guerra ci­vile, un dato è evidente: la scelta della parola che definisce un evento basta a modificarne la natura. Checché ne pensino i difensori dell’empirismo, senza un linguaggio che lo definisca, il fatto sembra non esi­stere. E poiché il linguaggio è inevitabilmente ideologico, alla fine, la certezza del fatto si riduce paradossal­mente alla verità della parola.

Contemporanei del nostro tempo, abbiamo un nostro Cesare, una nostra Settimana Rossa, un nostro movimento operaio. La storia che scriviamo è il presente. Mondo Antico, Medio Evo, Età Moderna, Novecento, tutto raccontiamo secondo le emozioni, le passioni, le idee che ci fanno uomini del nostro tempo. Ciò non vuol dire forzare la natura originaria dei fatti, ma separare ciò che appare definitivamente e irrimediabilmente passato da ciò che in qualche modo è vivo. Per farlo teniamo la via di mezzo: il fatto non determina l’interpretazione e quest’ultima non prescinde dal fatto. Ciò che cerchiamo è uno dei possibili punti di equilibrio tra teoria e prassi, particolare e generale, individuale e collettivo, oggettivo e soggettivo. Se, esaminando il senso che l’Editto di Costantino ebbe nella storia del mondo antico, non intravvedessi le radici profonde d’una trasformazione che annunzia il Medio Evo, lo riconosco: sarei singolarmente miope. Mi sentirei però completamente cieco, se non riuscissi a inserire la scelta dell’antico imperatore nell’eterna vicenda della “ragion di Stato”, se non ascoltassi le inquiete domande che  pone alle coscienze religiose sul ruolo delle gerarchie nella storia della chiesa, sui rapporti tra fede e politica, conservazione e rivoluzione, sull’inganno dottrinale – questo sì ideologico - che fa del perseguitato di ieri il persecutore di oggi. Cieco ancor più se non mi accorgessi dell’impossibilità di leggere l’evento con gli “occhi dell’uomo del tempo”. “L’uomo del tempo” non esiste: esistono uomini. Moltissimi uomini: gli schiavi definitivamente emancipati, i sacerdoti dei diversi ordini posti irrimediabilmente fuori gioco, le classi dirigenti che affidano al nuovo volto dell’Impero il futuro della società romana, che intanto sposta a Bisanzio il centro de suoi interessi, i militari che combattono e muoiono a Ponte Milvio, ad Adrianopoli e a Ceisopolis, alcuni in nome del passato, altri del futuro, gli ebrei che Costantino priva di una parte dei diritti riconosciuti agli altri cittadini. Un solo fatto, per uomini diversi tra loro e diversamente collocati nel tempo, e un filo rosso che lo conduce fino a noi attraverso la storia della chiesa, che è storia degli oscuri rapporti tra religione e potere, le regole che governano l’avvicendarsi delle classi dominanti, il peso doloroso del cambiamento, l’ininterrotta vicenda della discriminazione razziale. Questioni etiche e politiche, sociali ed economiche, attorno alle quali gli uomini di ogni epoca, riconoscendosi e negandosi, si uniscono e si dividono, si perdono e si ritrovano.