I fatti e la
storia
2. Verità del fatto e relatività del
linguaggio
Scienza
umana, la storia si fa empirica solo quando conviene sulla verità di alcuni
fatti intesi come “definizione” e sulla possibilità di indicare alcuni fenomeni
che si ripetono ricorrendo alla stessa definizione. Non si tratta però, come
potrebbe apparire, di una semplice operazione linguistica, ed in ogni caso la
cautela. Se, per esser chiari, due popoli si sono affrontati armi in pugno, lo
storico dirà che c’è stata una guerra, e se cittadini di uno stesso popolo si
sono combattuti tra loro aggiungerà che la guerra è stata “civile”. Sembra
tutto chiaro – banale persino - ma in
realtà il terreno è minato. Ci sono, per fare un esempio, almeno due buoni
motivi, per dubitare che la lotta tra partigiani e fascisti sia stata guerra
civile: intanto perché la resistenza italiana è parte di un fenomeno dalle
dimensioni molto più ampie - i popoli europei lottano tutti contro gli
occupanti nazifascisti, molti italiani combattono nelle formazioni partigiane
in Belgio, Francia, Grecia e Jugoslavia e nelle nostre brigate non mancano
tedeschi che hanno abbandonato il campo nazista, militari anglo americani e
slavi fuggiti dai campi di prigionia – e in secondo luogo perché i partigiani
non combattono solo coi fascisti, ma anche con i nazisti. Che guerra civile può
essere quella che si combatte contro uno straniero? Quale che sia la risposta,
è difficile negare che mentre i soldati di Salò militano in un esercito che si
batte nella patria invasa al fianco degli invasori, fanno perciò una guerra
senza onore – se in guerra c’è onore - e percepiscono se stessi come soldati di
una guerra civile, altra è ben più elevata è la percezioni che i partigiani, e
chi oggi ne scrive la storia, hanno della guerra che combattono: guerra di
liberazione si è scritto, quella che, sia detto per inciso, per sua natura, non
può essere condotta “per supplenza” da eserciti stranieri, ma è lotta di popolo
per la libertà contro un invasore. E’ per intenderci, la guerra che combattono
oggi i Ceceni contro i russi, i palestinesi contro gli Israeliani e gli Iracheni
contro gli anglo americani i quali, per loro conto, tendono a dare alla loro
guerra di aggressione l’etichetta strumentale di “guerra di liberazione”.
In
realtà, se la verifica del “fatto” e la necessità di costatarne l’autenticità
impegnano a fondo lo storico, la difficoltà che egli incontra nel definire un
linguaggio imparziale dimostra quanto sia avventuroso dare valore definitivo ad
una interpretazione dei fatti storici. Una difficoltà evidente, che si incontra
di continuo, persino discutendo del linguaggio specifico della storia. Si
prenda, ad esempio la parola terrorismo, o pratica del terrore, che definisce
genericamente sia lo strumento cui ricorre un governo per mantenersi al potere
– classico, se così si può dire il periodo, della dittatura del Comitato di
salute pubblica instaurata tra il 1793 e il 1794 da Robespierre e Saint-Just durante
la Rivoluzione Francese – sia il metodo di lotta teso a rovesciare con la
violenza organizzata un assetto politico-sociale. Una genericità che accomuna
motivazioni morali praticamente antitetiche: quelle di chi usa la violenza per
impedire ad altri di ottenere con mezzi legali un mutamento dell’assetto
politico; di chi, viceversa, vedendosi preclusa le via legale, ricorre alla
violenza; e di chi, infine, sceglie la via della violenza, pur avendo aperta
quella della lotta politica legalitaria. Se ed in che misura, la violenza del
potere sia necessaria alla conservazione, come sosteneva Machiavelli ricordando
al Principe che per “ripigliare lo Stato” occorre di tanto in tanto “mettere
quel terrore e quella paura negli uomini che vi aveva(no) messo per pigliarlo”
[Discorsi sulla prima deca di Tito Livio, III, I], o salvaguardi le conquiste
della rivoluzione come sosteneva Trotzky [Terrorismo e comunismo. Anti
Kautskj, cap II], è questione che ci condurrebbe lontani. Più interessante per
il nostro discorso è, al contrario, una breve annotazione che l’analisi
linguistica propone sul rapporto che corre tra l’intrinseca “verità del
fatto" e l’evidente “relatività del linguaggio”. Al di là del diverso
rilievo storico, e delle indiscutibili esigenze della “contestualizzazione”,
infatti, è impossibile ignorare la carica ideologica che sottende
l’esaltazione revisionistica della verità del fatto, quando, utilizzando
strumentalmente le parole, si pretende di collocare seccamente nella categoria
degli attentati terroristici la bomba partigiana di via Rasella e quella
stragista di Piazza Fontana.
In
realtà, la lettura della vicenda storica nasce da un intreccio così
inestricabile di elementi oggettivi e soggettivi, di passato e presente, che è
difficile dissentire da Bloch quando riconosce al passato la qualità di dato
non modificabile, la cui conoscenza costituisce, tuttavia, un patrimonio “in
fieri che si trasforma e si perfeziona incessantemente” [M. Bloch, Apologia
della storia, Einaudi, Torino, 1969, p. 65]. Per quanto mi riguarda, penso che uno storico non faccia altro che
raccontare, e mi stupisce che ci sia chi ritenga ragionevole pretendere che i
suoi “racconti” siano ritenuti “verità scientifica”. Non può esserlo, come ben
sapevano gli antichi annalisti che pure producevano solo elenchi di
avvenimenti, come sapeva Erodoto, che spinse il suo relativismo al punto di
individuare una giustificazione morale – la funzione svolta nelle guerre
persiane – nella supremazia di Atene, la sapeva Tucidide, che applicò per primo
la filosofia allo studio dei fatti, riconoscendone evidentemente la natura di
“pensiero” e negando così alla radice la pretesa “verità” che gli storici
dovrebbero limitarsi a registrare, mettendo semplicemente assieme i fatti con
accuratezza e imparzialità rigorosa, lo sapeva Vico, che distingueva la
certezza dalla verità, indicando in ciò che è certo un dato di coscienza – e
perciò “individuato” e “particolarizzato” – ed in ciò che è vero l’elemento
scientifico e quindi “comune” e “generale” [G. B. Vico, La scienza nuova, a
cura di B. Nicolini, Bari 1967, libro 1°, sezione 2°, pp. 74 e 112], lo
riconobbe infine anni fa lucidamente Le Goff, ricordando le continue “nuove
letture del passato”, le “perdite, le resurrezioni, i vuoti di memoria e le
revisioni. Lo ignorano, o fingono di ignorarlo – i nuovi “revisionisti”,
sacerdoti di una storia che ricostruisce ma non interpreta, che hanno sulla
loro tavolozza null’altro che le gradazioni del grigio: quelle di una storia
figlia di uomini che non pensano". [Storia, in Enciclopedia Einaudi,
Einaudi, Torino, 1977-1984, vol. 13° p. 573].
Eppure,
chi ha dimestichezza con carte d’archivio sa che comunque si guardi, il fatto
storico si pone muto e solenne davanti allo studioso: parla se lo storico lo
interroga, dà risposte solo alle domande che gli vengono poste, si illumina là
dove si indirizza la curiosità di chi lo osserva, ha la valenza, le origini e
le conseguenze che lo studioso vi trova. Così, la conquista di Roma nel 1870 è
una tappa fondamentale nella costruzione dello stato unitario, ma è anche il
punto di rottura più profonda cui giungono i rapporti tra Stato e Chiesa
nell’Italia postunitaria. Lo studioso di storia della Chiesa ricostruirà i
fatti politici, diplomatici e militari da un angolo visuale che non è – e non
potrebbe essere quello dello storico del Risorgimento. L’uno e l’altro, tuttavia,
tenteranno ricostruzioni e interpretazioni provvisorie - ne sono consapevoli -
destinate a mutare col mutare dell’atmosfera culturale, del sistema di valori
nel quale si formano. Come osserva giustamente Macry, i “paradigmi storiografici nascono, si
affermano e muoiono”. Così la concezione teologica della storia, diffusa nel
Medioevo, è stata negata dalla storiografia umanistica, la storia idealistica
di metà Ottocento è stata smentita dalla storia sociologica di un secolo dopo,
così cambieranno domani, stanno già cambiando “le categorie di analisi, le tecniche
di lavoro, le fonti documentarie” [P. Macry, La società contemporanea. Una introduzione
storica, Il Mulino, Bologna 1995, p. 17]. E’ così, anche se, quando non
intervengono fatti traumatici di particolare rilievo, nessun paradigma
storiografico è tanto “contemporaneo” e “isolato” da non lasciare spazio dentro
di sé a processi graduali e costanti di invecchiamento e ringiovanimento.
Processi di ricambio: il passaggio dal vecchio al nuovo e, in rapida
successione, dal nuovo che invecchia a quello che nasce.
In
questo quadro di “contemporaneità” o, se si vuole, nel paradigma epocale
predominante, lo storico seleziona ed ordina i fatti, secondo criteri
individuali che costituiscono di per sé una forma di interpretazione, “senza
la quale – scrive acutamente Carr – il passato si trasforma in un guazzabuglio
di avvenimenti casuali sconnessi e insignificanti e diventa impossibile fare
storia”. Appare chiaro a questo punto, che la “storia dei fatti”, quella
“oggettiva e scientifica”, che aspira a “fotografare” gli avvenimenti per
descriverli “così come sono andati” e batte in breccia le pretese deformazioni
ideologiche degli storici militanti, è paradossalmente un’astrazione teorica
fondata su una concezione singolarmente ideologica del fatto storico, inteso
come dato reale, esterno alla coscienza dello studioso che ne prende atto, lo
assume passivamente e lo rielabora, sicché, come accade per i dati
dell’esperienza, il fatto resta rigorosamente separato dalle interpretazioni
che se ne possono dare.
La
storia non è mai questo e, per quanto possa apparire strano, sono proprio i
fatti, privati del sostegno dell’interpretazione, a renderla parziale. Non
occorre molto per verificarlo. Si prenda, a esempio, l’episodio di Bronte e lo
si affidi alla sola rigorosa ricostruzione degli eventi. Visto così, con i
contadini che occupano le terre e i garibaldini che li fucilano, esso si riduce
ad un problema di ordine pubblico. Certo, in tempo di passione patriottica e di
epopea nazionale, così lo ha letto inevitabilmente - senza alcuna intenzione di
minimizzarlo - lo storico borghese dell’Italia unita. Lo ha letto così però non
perché ha lasciato che fossero semplicemente i fatti a parlare. Tutt’altro.
Preso da altri eventi, espressioni di altri valori, ha scelto e selezionato
quelli per lui più rilevanti. Al contrario, nelle ricostruzioni più recenti, in
cui la sensibilità sociale si è fatta più acuta e la questione meridionale è
diventata questione nazionale, l’episodio ha assunto rilevanza storica, perché
gli studiosi marxisti vi hanno visto il marchio borghese che segna la vicende
dell’unificazione nazionale. Il fatto rimane lo stesso - nella sostanza, un
problema di ordine pubblico - ed in quanto tale molto non dice. Tuttavia, se lo
storico, violando la santità del fatto, lo interroga, emergono immediatamente
da una parte le grandi speranze e l’eccitamento degli animi in un clima
rivoluzionario, dall’altra il timore dei garibaldini, che, dopo aver acceso gli
animi delle masse, temono di esserne travolti. Violata la consegna, il racconto
si fa più complesso ed attuale e le
domande si moltiplicano; la pena di morte eseguita sul campo, scuote la
coscienza contemporanea, la “fame di terra” si fa filo rosso che passa per le
frequenti stragi proletarie, richiama alla mente la questione sociale e conduce
ad altre occupazioni di terre, quelle che precedono e accompagnano la riforma
agraria. Siamo ai primi anni della repubblica e gli avvenimenti del passato
suggeriscono nuove ipotesi di ricerca domande inquietanti. Il “fatto”, certo,
non muta: nella sostanza è ancora problema di ordine pubblico. Ma è, tuttavia,
uno dei testimoni di un processo di unificazione nazionale al quale le masse
contadine del Sud restano estranee, annuncia la nascita precoce delle “due
Italie”, la formazione di un blocco sociale destinato a cementarsi e lo spettro
di una guerra civile - il brigantaggio - che stenterà a trovare la dimensione
di evento storico e per oltre un secolo sembrerà anch’esso un eccezionale
problema di ordine pubblico: militari che presidiano le terre del Sud per
stanare sbandati e banditi. Il prezzo altissimo - più caduti di quanti non ne
registrano nel loro insieme le guerre d’indipendenza - la presenza ingombrante
di una classe dirigente che ignora i bisogni delle masse meridionali, mettono
in discussione sul piano linguistico prima ancora che storico la verità del
fatto. Basta sostituire i briganti con ribelli e legittimisti, e il fatto
assume una dimensione storica del tutto diversa. Briganti o ribelli, ordine
pubblico o guerra civile, un dato è evidente: la scelta della parola che
definisce un evento basta a modificarne la natura. Checché ne pensino i
difensori dell’empirismo, senza un linguaggio che lo definisca, il fatto sembra
non esistere. E poiché il linguaggio è inevitabilmente ideologico, alla fine,
la certezza del fatto si riduce paradossalmente alla verità della parola.