Capitolo 2°

 

Una lezione “classica”.

 

1. Linee di confine tra storia moderna e storia contemporanea

 

Abbiamo impostato un ragionamento sulla storia che ha il sapore d’uno studio per così dire “tecnico”. Occorrerà però chiarire almeno due cose:

 

1)  il nostro sforzo principale non sarà né quello di aprire un discorso critico sulla interpretazione storiografica di questo o quell’avvenimento della storia, né di ripercorrere metodicamente le vicende di quel lungo e complesso periodo sto­rico che definiamo “contemporaneo”;

2)   proveremo più semplicemente ad esaminare in maniera possibilmente organica la natura dei protagonisti, gli interessi in gioco, l’evoluzione del quadro d’assieme di alcuni momenti di una vicenda molto complessa, scelti tra quelli che meglio si adattino a farci riconoscere le radici ideali e materiali di alcuni dei problemi che ci troviamo ad affrontare oggi, nella nostra realtà economica e sociale.

 

Se questa premessa è chiara, voi capirete anche che, prima di avventurarci per un sentiero così difficoltoso, sarà bene fissare in un concetto generale, che prove­remo a far nascere da una discussione comune, una definizione dei fini della ricerca storica. Anche questo è linguaggio specifico della disciplina. Se una scienza non si sforza di produrre una definizione che chiarisca i suoi campi d’interesse, rischia di brancolare continuamente nel buio. E nel buio ci ritroveremmo a maggior ragione noi, che su di essa concentriamo il nostro interesse.

 

Partiamo da una riflessione di Hajo Holborn tratta dalla Storia dell’Europa Contemporanea, Bologna 1970, III edizione, pp. 3.4:

 

“L’indagine storica ha uno scopo duplice. Il suo compito più immediato è quello di raccogliere e registrare gli avvenimenti: ma il lavoro dello storico deve ne­cessariamente mirare anche ad interpretarli. Se della storia non si dà un’interpretazione, la ricerca storica rimane priva di qualsiasi diretta influenza sulle decisioni di ordine ideologico e politico che la generazione vivente deve prendere. Tali decisioni non scaturiscono sic et simpliciter dalla storia: ciascuna generazione fronteggia problemi nuovi, e li tratta con le sue particolari forze e con le sue parti­colari inclinazioni. Ma i problemi che si propongono all’umanità possono venire sol­tanto se li si concepisce come parte di un processo storico senza fine a cui tutti noi dobbiamo sottostare. Il moto della storia non ha origine in un punto del passato de­terminato dagli storici in base al fatto che essi non sono in grado di trovare alcun dato accertato anteriormente ad una certa data. Non può esservi alcun dubbio sul fatto che il carattere delle fonti storiche a nostra disposizione determina il carattere della nostra conoscenza e comprensione della storia; ma è altrettanto indubbio che questa deve essere interpretata come un processo evolutivo, di cui l’età presente non costituisce che una frazione. Se così è, come è, dobbiamo fare ogni sforzo per met­tere in relazione la storia del passato con i fondamentali problemi di oggi ed in parti­colare per tentare di ritrovare quella conoscenza intorno agli eventi di avant’ieri che è scivolata fuori dalla memoria viva degli uomini e non  è stata colta dallo storico di professione”.

Si tratta, come vedete, di una riflessione articolata e profonda, che, per quanto ci riguarda, pone anzitutto un problema di datazione della storia contempo­ranea e quello del valore che la scelta di una data può avere, in prospettiva, sul la­voro dello storico. Scegliere una data tradizionale -  quale può essere, ad esempio, il 1815 - vuol dire necessariamente guardare al presente seguendo una linea–forza, una  di­rettrice più o meno rettilinea, orientata dal passato verso il presente, o lascia spazio ad una visione retrospettiva, che consenta anche di prendere in esame il passato dal punto di vista del presente? In altri termini, significa seguire un ragionamento pro­gressivo, fondato sul rapporto causa-effetto, che proietta il passato in avanti sino al presente, al “contemporaneo” e che perciò resta decisamente legato ad una linea di continuità, o lascia spazio ad un percorso inverso, che consenta di determinate la causa attraverso l’effetto? Tradotta in termini grafici, la domanda impone una scelta: la rappresentazione ideale dello svolgersi degli avvenimenti storici è costituita da un fiume che scorre più o meno rettilineo verso la foce (continuità legata all’idea di un processo progressivo, al principio di causalità) o piuttosto da un corso d’acqua in cui anse e gomiti improvvisi rompono la continuità e segnano con una certa nitidezza le soluzioni di continuità che indicano le grandi svolte della storia, quel tanto d’imprevedibile e casuale, di occasionale e dinamico che contraddistingue i grandi mutamenti di rotta?

Premesso che d’imprevedibile e casuale nell’esame di un evento, allorché esso si può ormai definire “storico”, c’è tutto sommato ben poco e che, tutt’al più, tali ca­ratteristiche gli appartengono quando è sottoposto alle regole della politica, ossia nel momento in cui esiste come fatto concreto, fa parte d’una vicenda in atto e si colloca perciò nella cronaca - mi torna di nuovo alla mente il viaggio di Colombo e l’equivoco India, ma non mi ci fermo perché sarei noioso - vorrei che voi rinunciaste per ora a trarre delle conclusioni. Proveremo insieme, a dare una risposta a queste domande. Prima occorre aprire fino in fondo il ventaglio delle ipotesi e dei dubbi, per avere un quadro quanto più possibile chiaro della molteplicità dei temi che stiamo affrontando: il problema della datazione dei periodi della storia, quello della defini­zione del concetto di contemporaneità, la necessità di individuare una metodologia della ricerca che si adatti particolarmente alla storia contemporanea che, com’è stato osservato, dovrebbe, per la sua stessa natura, ritenere più significative le differenze che le somiglianze, i punti di rottura e le cesure rispetto al passato, piuttosto che gli elementi di continuità. A proposito della necessità metodologica di badare alle differenze più che alla continuità, che sarebbe connaturata al concetto di “storia contemporanea”, si osserva spesso che la realtà di cui essa si occupa ha dimensioni planetarie e, di conseguenza, non può essere ristretta, come si è tradizionalmente abituati a fare, all’angolo visuale europeo, né ci si può contentare di un semplice allargamento del discorso alla storia dei paesi extraeuro­pei: le vicende dell’America, dell’Asia e dell’Africa sono elementi centrali della con­temporaneità e rendono pertanto una realtà a se stante dal punto di vista quantitativo e qualitativo la storia contemporanea. E qui è il caso di ricordare ciò che scrive in proposito Geoffrey Barraclough: “Lo storico […] che prenda come punto di partenza il 1815, tenderà inevitabilmente a occuparsi soprattutto dell’Europa, perché i pro­blemi sorti dagli accordi del 1815 furono essenzialmente problemi europei. Tra gli effetti principali, vedrà l’annessione del Lombardo-Veneto all’Austria, la cosiddetta “Questione d’Oriente”, l’esplosione del nazionalismo in particolar modo nell’Impero degli Asburgo e in quello Ottomano, e forse anche il panslavismo – problemi che, at­traverso le reciproche interazioni, culminarono, se considerati da questo punto di vi­sta) nella guerra del 1914 – mentre tenderà a considerare gli eventi delle altre parti del mondo come periferici, ad eccezione di quelli che possono recare l’etichetta di <<espansione europea>>. Lo storico che prenda posizione non nel 1815 ma nel pre­sente, vedrà lo stesso periodo da una diversa prospettiva. Suo punto di partenza sarà il sistema globale della politica internazionale in cui viviamo e la sua maggiore pre­occupazione sarà di spiegarne la nascita. Così sarà interessato allo stesso modo dell’Oregon e dell’Amur, dell’Erzegovina e del Reno, della ferrovia transiberiana e della linea Berlino-Baghdad. Entrambi prenderanno in esame lo stesso periodo ma con diversi intendimenti e metro di valutazione” [G. Barracluogh, Guida alla storia contemporanea, Bari, 1972, pp. 15-16].

Per quali motivi Barraclough, che pure pone con forza l’accento sui rischi connessi all’eurocentrismo,  faccia poi riferi­mento alla ferrovia transiberiana ed a quella Berlino-Baghdad, ad una realtà comunque eurasiatica, dimenticando le grandi strade ferrate extraeuropee, che negli USA si espandono e uniscono l’Atlantico al Pacifico, e riduca ad un problema solo europeo la “Questione d’Oriente”, che invece coinvolge stati e popoli asiatici, come l’impero ottomano e quello russo, non è facile dire. Probabilmente - Barraclough non se ne avvede, ma la considerazione ha un suo fondamento - chiamare in causa l’occidentalizzazione e la prospettiva eurocentrica, discutendo degli USA, non ha alcun senso. Non a caso, del resto, “eurocentrico” diventa fatalmente anche chi, come Barraclough, si pone, per scelta metodologica, in posizione volutamente estranea a questa prospettiva. In realtà, per quanto forte sia stato il peso della scienza e dello sviluppo tecnologico dell’Europa nel mondo, è evidente che, se quel peso si misura in rapporto a civiltà che hanno una marcata identità culturale ed un’antica tradizione storica, essi non risultano mai tanto schiaccianti, da annullare le differenze. Il sogno espresso da  Leopolde Ranke nel 1879 di uno spirito occidentale che “irresistibilmente, in più modi, invincibilmente […] provvisto delle armi e della scienza sottomette il mondo” non si è mai tradotto in realtà. Russia, Turchia, India, Indonesia e Cina non sono state mai davvero “occidentalizzate”, se con questa parola si intende trasformazione di valori umani e morali. Più che unità, il tentativo occidentale di omologare il pianeta ad un modello “atlantico”, ha provocato irreparabili separazioni, antitesi mai sanate e oggi più gravi: arabi, indiani e cinesi offrono un panorama culturale ed un modello di vita materiale e spirituale che sarebbe stolto paragonare a quello occidentale. Subire, peraltro, non è accettare. Il solo paese “occidentalizzato”, ma sarebbe meglio dire auto-occidentalizzatosi, è la Russia. Ma c’è qualcuno disposto a sostenere che la Russia sia un paese europeo o atlantico? C’è qualcuno che possa ignorare la specificità culturale d’una terra eurasiatica da sempre, le cui truppe, sia detto per inciso, diedero nel 1945 il colpo di grazia al tentativo tedesco di conservare la supremazia politica e militare europea sul pianeta?   

Piuttosto, è il caso di fermarsi a riflettere sulla presunta europeizzazione degli Usa - che dal punto di vista metodologico è questione centrale – per verificare la tesi di una “occidentalizzazione” che non tiene conto della sorte toccata alle popolazioni indigene e sembra ignorare  che esse non furono occidentalizzate, bensì sterminate. Non si tratta, come potrebbe apparire a prima vista, di una questione marginale, dal momento che lo sterminio riconduce immediatamente dal “nuovo” al “vecchio” mondo e pone l’accento sul destino delle minoranze battute e disperse, sulle mille diaspore e sui genocidi, che appartengono evidentemente ad ogni epoca e sono europei come asiatici ed americani: pensate ai provenzali, ai curdi, agli armeni, ai palestinesi, che vedete così spesso nei telegiornali lottare con gli ebrei, che pure incarnano paradossalmente la diaspora nello spazio e nel tempo del nostro pianeta, in uno scontro disperato “pro aris et focis”, per la casa e la fede o, se volete, per la sopravvivenza fisica e culturale, in quanto uomini ed in quanto popolo. Ora, se porre l’accento sul rapido stermino degli indigeni vuol dire, di fatto, riconoscere che l’America non è mai stata occidentalizzata, ma è nata “occidentale” ed è stata immediatamente Europa, ha senso collocare la nascita della storia “contemporanea” alla data di una presunta preponderanza assunta dal ruolo politico svolto dagli USA rispetto all’Europa? In realtà, un’epoca storica in cui l’Europa abbia avuto un totale ed indiscusso predominio politico e culturale non è mai esistita: essa non è mai stata infatti così unita contro il resto del mondo da poter costituire un “insieme” politico e sociale in grado di produrre un “modello unico”, né ha mai esercitato una completa egemonia culturale sull’intero pianeta. Non è privo di rilievo, mi pare, che un nordamericano sia da sempre più vicino ad un nordeuropeo che ad un americano del centrosud e che un latino americano sia più vicino all’europeo mediterraneo che non ad un nordamericano o ad   abitante dell’Europa settentrionale. D’altro canto, la sola unità vera dell’Europa, quella religiosa, fu spezzata dalle tesi esposte nel 1517 da Lutero alle porte del duomo di Wittemberg. Ed è particolarmente significativo che, nel corso del lungo conflitto tra la Francia e l’Impero, nel 1532, il cattolico Francesco I di Francia stringa alleanza con la Turchia maomettana contro l’Impero retto dal pio Carlo V, e che spesso i francesi abbiano contato sull’amicizia coi turchi per indebolire gli Asburgo, paladini del mondo cattolico. L’unità che più resistette, la sola concretamente possibile,  fu quella che si andò infine consolidando attorno ad un principio politico: quello dell’equilibrio. Un principio che, affermatosi non a caso mentreemergeva la potenza russa e declinava quella turca, a partire dai primi anni del XVIII secolo offriva due garanzie: impediva la nascita d’una superpotenza e garantiva l’esistenza a ciascuna delle grandi nazioni.

Quali sostanziali mutamenti nel quadro sin qui delineato e quali contributi ad una diversa conoscenza del presente possano derivare da una approfondita analisi delle vicende che nella prima metà dell’Ottocento ebbero a prota­gonisti l’Amur e l’Oregon è difficile dire, ma ignorare le sollecitazioni di Barraclough non gioverebbe alla chiarezza delle nostre riflessioni.

Per buona parte dell’Ottocento la politica estera russa è condizionata dalla ne­cessità di trovare uno sbocco al mare verso porti liberi dai ghiacci, e di raggiungere un confine meglio definito dal punto di vista geografico nell’Asia Centrale in dire­zione della Persia, dell’India e della Cina. Nell’ambito di questa politica rientrano sia i numerosi tentativi di assicurarsi porti volti verso il Mediterraneo attraverso il Vi­cino Oriente, falliti per l’opposizione dell’Inghilterra e dell’Austria, che l’acquisizione, nel 1858, della regione cinese dell’Amur, che consente ai russi di rag­giungere di lì a poco le coste prospicienti il Giappone. In questo quadro, che costi­tuisce il polo orientale della politica estera degli zar ed ha gli stessi obiettivi e le stesse motivazioni economiche di quello occidentale, si inseriscono la fondazione del porto di Vladivostok nel 1860, la vendita dell’Alaska agli USA nel 1867 e l’acquisto di Shakalin in cambio delle isole Kurili, cedute al Giappone nel 1875.          

In quanto all’Oregon, regione che si affaccia sul Pacifico, stendendosi lungo il confine col Canada, esso entra a far parte degli USA nel 1859 ed ospita ben presto il terminale occidentale della Ferrovia del Nord Pacifico. Per l’Unione sono gli anni dello sterminio dei pellerossa, dell’arrivo al Pacifico, della caccia all’oro e della resa dei conti con i piantatori degli Stati del Sud. Gli anni, soprattutto, dell’espansione “interna”. In questo senso si potrebbe perciò parlare dell’Oregon come del Missouri, dell’Arkansas, del Michigan, del West e del suo mito. Certo, nel 1823 gli USA sono già in grado di affermare e sostenere un principio politico – la cosiddetta “dottrina di Monroe” - che, nei tempi lunghi, si rivelerà determinante per la costruzione della re­altà che è giunta sino a noi. Sta di fatto, però, che proprio in quegli anni essi sono così rivolti su se stessi, che occorre un accordo (Compromesso del Missouri, 1820) per evitare fratture fra gli Stati dell’Unione, che si dividono, comunque, in abolizio­nisti e schiavisti. Una divisione che sarà per decenni un innegabile elemento di debo­lezza e condurrà infine ad una tragica guerra civile.

Prestata, come chiede Barraclough, la necessaria attenzione all’Amur e all’Oregon, viene spontaneo domandarsi se, ed in che misura, gli avvenimenti de­scritti siano tali da modificare l’angolo visuale ed il punto di vista da cui prendere in esame l’insieme delle questioni che sono sul tappeto a Vienna nel 1815, le decisioni che vi si adottano ed il loro peso nella costruzione di una realtà che si lascia alle spalle un’epoca e ne apre un’altra: quella in cui in genere si ritiene che affondi le sue radici il mondo nel quale viviamo. Li si guardi in rapporto alla sola Europa, o si allarghi lo sguardo all’Asia, all’Africa e all’America, le lotte per l’indipendenza nazionale – che spesso degenerano nel nazionalismo e nel razzismo - l’intimo rapporto tra gli sviluppi del colonialismo e dell’imperialismo, la contrapposizione tra la concezione dello Stato sostenuta da liberali e liberisti da un lato, socialisti dall’altro, hanno comunque dimensioni planetarie e la loro interpretazione è legata non tanto alla particolare attenzione che lo studioso de­dica a questa o quella particolare parte del mondo, quanto alla sua capacità di co­gliere gli elementi di continuità e quelli di rottura che è dato individuare negli eventi esaminati. In questo senso, è evidente che nulla vi fu di più contemporaneo delle guerre persiane, per i Greci che si trovarono a combatterle. Per me, che le guardo in­vece a distanza di millenni, esse rientrano solo nell’ambito di una categoria della co­stanti storiche: la politica di espansione. Ciò che di nuovo, e pertanto di “contempo­raneo”, v’era per i Greci – ma essi non seppero coglierlo –  era la lezione che da quelle guerre derivava: l’indipendenza della Grecia era legata alla sua capacità di su­perare la logica della “polis” per costruire uno stato. Una lezione che non è priva di una sua evidente attualità: non c’è libertà che possa essere difesa senza che gli inte­ressi particolari cedano in qualche modo il passo a quelli generali. Di troppa libertà si può morire, mentre spesso si sopravvive ad una sua privazione anche estrema.        

Che c’è dunque di diverso – per tornare al nostro discorso – tra l’espansione statunitense verso il Pacifico e verso l’America latina, da quella russa verso il mar di Giappone, la Cina, l’India e la Persia o da quella inglese, francese, e presto italiana e tedesca verso l’Africa e l’Asia? Poco o niente, dal momento che tutte si inquadrano nella crescita del capitalismo, che tende a realizzarsi in ognuno di questi Stati, per quanto essi siano diversi tra loro e per quanto diversi siano i tempi ed i ritmi dello sviluppo, e della progressiva nascita di ceti imprenditoriali, di classi operaie e bracciantili, di ceti produttivi generati da processi di industrializzazione o da questi ridotti in miseria. In realtà, sia che lo storico adotti la prospettiva eurocentrica della storia moderna, che quella “mondiale” della storia contemporanea, non ci sarà nessuno che guardi agli avvenimenti narrati dal punto di vista degli africani depredati e dei musulmani umiliati. Eppure nella realtà contemporanea ciò che forse c’è di ve­ramente nuovo e caratterizzante non è tanto la centralità di questa o quella grande potenza, quanto il protagonismo dei “paesi terzi”, la dimensione di massa assunta dalla maggior parte degli avvenimenti e dei fenomeni. In fondo, se ci penso, io rico­nosco il tempo della mia storia, che è in parte quello della mia vita e in parte quello del mondo ideale della mia generazione e di quella dei miei genitori e dei miei nonni, per lo sfaldamento della “istituzione famiglia”, minata dalla crescente difficoltà di conciliare ruoli essenziali e sempre più lontani tra loro - padre e madre, marito e moglie - spesso ridotta ad un vero e proprio simulacro praticamente svuotato di contenuti dalla crisi d’identità dei suoi componenti-chiave; una crisi determinata so­prattutto dalle trasformazioni sociali prodotte dalle leggi ferree dello sviluppo eco­nomico, dalla crescente presenza della donna nella realtà lavorativa, nei luoghi della formazione culturale, nella vita politica, una presenza che non è riscontrabile in nessun’altra epoca della storia. Riconosco il mio tempo nella dimensione totale assunta dalla tra­gedia della guerra, nella degenerazione estrema cui è giunto il razzismo nella follia nazista, e in verità non solo in essa, nella sensibilissima riduzione delle distanze spa­ziali e temporali tra i popoli, determinata da uno sviluppo prodigioso dei più diversi mezzi di comunicazione di massa, con tutto ciò che tale sviluppo ha comportato e comporta, sia sul piano della crescita culturale che su quello della insidiosa possibi­lità di condizionare - se non determinare - l’orientamento della pubblica opinione. Una riduzione delle distanze spaziali e temporali cui corrisponde l’abissale distanza di sviluppo anzitutto economico che separa il cosiddetto “mondo occidentale” dall’immensa parte del pianeta che vive in condizioni d’indicibile miseria. Una mise­ria che - mai come oggi forse - è la condizione base dello sviluppo dei paesi ricchi, al cui interno, tuttavia, non è sparita, ed anzi esiste e si fa sempre più consistente una povertà che si tende a celare, ma che è accresciuta di continuo dalla sempre più massiccia presenza di disperati provenienti dall’Africa e dall’Asia, che si sommano ai disperati indigeni. Riconosco il mio tempo, infine, nelle grandi speranze suscitate dal socialismo e nella sua dramma­tica sconfitta, cui corrisponde l’inarrestabile affermazione della “società dei con­sumi”, lo strapotere delle lobby, la diffusione della droga tra una gioventù che ha il più grande bagaglio di nozioni mai posseduta da ragazzi di altre epoche della storia e soffre del più terribile analfabetismo di valori che si sia mai visto.

Se questa è la percezione che io ho del mio tempo e della sua contemporaneità rispetto alla sensibilità delle generazioni che mi sono più vicine, e se questa perce­zione non è solo segno di una precoce senilità, allora nulla davvero mi aiuterà a ca­pire la natura dei problemi che mi circondano – e capire, in qualche misura, è già risolvere e superare - se non andare alla radice del presente. Ciò che evidentemente vuol dire riflettere sul passato. Il punto, quindi, con tutta probabilità, non è se io debba o meno interes­sarmi del passato in quanto strumento di decodificazione del mio mondo. Il punto è in che modo io debba interessarmene. Se l’immagine del “contemporaneo” che ab­biamo provato a descrivere corrisponde alla realtà, così come essa mi appare attra­verso lo specchio deformante dell’esperienza più o meno personale, delle emozioni che non hanno avuto ancora il conforto della “mediazione” del tempo che è tra­scorso, della stessa “passione” con cui bene o male tutti in fondo viviamo il nostro tempo, se questo ha per noi davvero un senso, si farà storia contemporanea solo per­ché si avrà l’occhio più attento alla crisi europea ed all’emergere delle grandi po­tenze extraeuropee, ignorando l’integralismo arabo, il terrorismo, la tragedia palesti­nese, gli ebrei israeliani che da pecore si fanno lupi, le costosissime armi atomiche in mano a soldati di Paesi poveri come l’India, la morte per fame nelle terre del sotto­sviluppo? Contemporaneo, in altri termini, significa più vicino alla nostra esperienza e sensibilità di uomini di un tempo naturalmente – e fatalmente – diverso da tutti gli altri “tempi”, o si riduce ad una questione di prospettive e di bilance da farmacista sul ruolo e sul peso di questa o quella potenza? A ma pare che il carattere peculiare della “contemporaneità” sia da ricercare soprattutto nella naturale e ad un tempo fa­tale diversità del nostro tempo, così come noi lo percepiamo, rispetto a tutti gli altri tempi. Tuttavia, se in questa percezione di diversità riposa il nostro senso del “con­temporaneo” ed in essa, per quanto diverse, si integrano e giungono a sintesi le no­stre individualità, con tutto ciò che di soggettivo le segna, se, per esser chiari, è at­torno a tale diversità che ci troviamo uniti, ciò non comporta solo il riconoscimento di una specificità del “contemporaneo”, ma la consapevolezza che essa co­stituisce un carattere costante del “tempo storico”: la sua “contemporaneità” rispetto agli uomini che l’hanno vissuto. In questo senso, probabilmente non sbaglia, chi, come Barraclough, guardando agli USA come ad una parte integrante, anzi, ad uno dei protagonisti del nostro tempo, ritiene “assurdo pretendere di capire l’odierna po­litica degli Stati Uniti, trascurandone la storia passata, precedente al 1890, con le guerre alle Filippine e a Cuba, fino alle primissime fasi dell’imperialismo americano” [Così scrive Barraclough alla pagina 17 del suo citato lavoro]. L’affermazione, tuttavia, è di quelle , scontate, e, tra l’altro, salta a pie’ pari, igno­randolo, il problema, posto peraltro dallo stesso Barraclough, della occasionale ca­sualità degli eventi e della loro sia pur rara irrazionalità. Meglio, quindi, molto me­glio davvero, sarebbe provare a capire anzitutto se e quanto il primo imperialismo USA assomigli a quello europeo che lo precede e lo segue e quali siano gli eventuali punti d’incontro, gli elementi condivisi dai due fenomeni. Qualora poi tali punti d’incontro e tali condivisioni esistano, ed è difficile pensare che non sia così, perché non provare a verificare se, a loro volta, essi abbiano elementi in comune con fenomeni dello stesso tipo che si collochino in un tempo storico che non sia quello contemporaneo? Fatte le debite proporzioni, è da ritenersi tutt’altro che improbabile – e non sarebbe poi così sorprendente - se, per fare un esempio, le cause profonde, le manovre diplomatiche, le giustificazioni ideologiche ed etiche, le decisioni strategi­che e tattiche che nel 1895 giustificano la partecipazione di “volontari” statunitensi alla rivoluzione cubana, che nel 1898 conduce gli Stati Uniti alla guerra con la Spa­gna, all’acquisto di Guam e Portorico ed al possesso di basi navali a Cuba, o le cam­pagne siberiane e la sbalorditiva avanzata verso l’Asia di esploratori ed avventurieri russi che verso il 1649 giungono fino alle coste del Pacifico, non differiscano sostan­zialmente da quelle che accompagnarono il primo balzo Romano nel mar Mediterra­neo a danno dei Cartaginesi.

Se così fosse, e nulla vieta di pensare che sia proprio così, noi non avremmo da discutere su opinabili problemi di datazione e sulla natura mutevole della sfug­gente “contemporaneità”, ma su fenomeni che percorrono trasversalmente, le epoche della storia, e si configurano come “costanti” della vicenda umana e, in quanto tali, attuali piuttosto che contemporanee. Pensate, per fare un esempio, alla storia dell’egemonia economica e politica, del colonialismo e dell’imperialismo ed immagi­nate gli spazi immensi che si aprono alla ricerca storica applicata alla trasformazione e all’evoluzione di forme e tecniche di asservimento e di sfruttamento, che viaggiano sui remi fenici, sulle navi achee che salpano verso Troia – condannata a perire nello scontro mortale per il controllo della “via del metallo” – sui vascelli che solcano il canale di Sicilia ed impongono la “pax romana” alle recalcitranti città puniche rase al suolo e cosparse di sale – è la sorte che tocca a chiunque abbia l’arroganza di difen­dere sino in fondo la propria libertà dall’aquila di Roma – sulle agili barche musul­mane che mettono a ferro e fuoco le coste del Mediterraneo, e sbarcano in Europa i loro guerrieri sino a quando armi cristiane non piegano quelle di Maometto insanguinando i campi di Poitiers - sulle ignare caravelle di Colombo dirette verso l’America centro meridionale, che appena scoperta è già “latina”, con le sue belle chiese subito erette, perché i pochi indigeni sopravvissuti al genocidio imparino presto la rassegnazione predicata dal nuovo Dio ed imposta dai sermoni dei missionari, dalle terrificanti armi da fuoco usate dai coloni e dagli innumerevoli roghi accesi sotto i piedi di quanti - tentati dal demonio? - hanno difeso terra e libertà dai conquistatori venuti dal mare. Un viaggio che non si ferma, coi padroni che cambiano nome ma sono sempre uguali e gli sventurati che crescono solo per numero e miseria; un viaggio che prose­gue e si modernizza, sino a giungere alle cannoniere dei primi del Novecento, alle portaerei del secondo conflitto mondiale, che annienta la follia nazista ma spezza in due il pianeta e avvia un processo di decolonizzazione politica cui corrisponde un più atroce asservimento economico dei paesi terzi, “liberi”, infine, ma come può esserlo un disgraziato che non ha altro se non la vita da buttare, un cane rifiutato persino dal padrone. E’ la storia continua di un “ordine” che si definisce di volta in volta “nuovo”, ma somiglia invariabilmente a quello che lo ha preceduto. Oggi la pax è quella americana, ma siamo al limite tra cronaca e storia e non è facile quindi dire se sia nuova davvero o si travesta come quelle passate. In ogni caso, non è più clemente di quella romana e non ne possiede la civiltà giuridica. Figlia del suo tempo, non s’affida né ai remi né al vapore. Viaggia, in un turbinio di traccianti che incrociano la scia dei missili nella luce verderame di notti violate da raggi infrarossi, a cavallo di “bombe intelligenti”, che scaricano micidiali radiazioni di uranio depotenziato sul “ti­ranno” di turno e fanno vittime innocenti tra il popolo oppresso. Ma la colpa – tutti ne sono certi, anzitutto gli “oppressi” - è solo del dittatore. Come i popoli massa­crati dai romani in cambio del “dono” della civiltà latina, così, sotto i colpi benedetti, attesi come si attende la pioggia durante la siccità, la gente si inquadra subito stu­pendamente, con impeto sincronico, in masse esaltate dalla libertà donata che viene giù dal cielo con le bombe che a tratti smarriscono la loro delicata intelligenza ed esplodono sulle case e sulle masse indomite, che tuttavia non si arrendono decise a morire per la “democrazia”. E’ questo forse il nuovo, questo, di certo, il contempo­raneo: l’altro bombardamento, quello destinato all’opinione pubblica dei paesi libe­ratori, che è, se possibile, ancor più efficace di quello scatenato sugli sventurati da liberare. Sono le interminabili schiere di poliziotti che lanciano gas e prodotti chimici sui giovani dissenzienti picchiati coi calci dei fucili, fermati e trattenuti senza badare troppo alle leggi, perché non si rassegnano e oppongono la disobbedienza civile alla verità virtuale. Sono le bombe scientificamente tirate su chi guarda. Ondate incal­zanti, pronte a colpire la coscienza individuale e collettiva per confonderla, stravol­gerla, manipolarla con l’uso tempestivo e sapiente d’una tecnologia flessibile, che compone, scompone, costruisce, falsifica, deforma e stravolge immagini e parole. E’ l’uomo ad una dimensione, quello che pennaioli, pennivendoli, passaparola, chiosa­tori di notizie false, esperti di scenari militari inesistenti, specialisti del revisionismo storico, lacchè e servi sciocchi si sforzano di costruire dai terminali del più sofisti­cato sistema di disinformazione programmata mai visto all’opera in quella parte del pianeta che si definisce civile.

In questo quadro, i cui contorni più netti  rappresentano evidentemente il nostro quotidiano, inteso soprattutto nel senso di “contemporaneo”, si collocano agevolmente, movendosi lungo il filo rosso che li collega al presente, logiche di po­tere, comportamenti ed elementi di fatto caratteristici di ogni epoca della storia, di quella del potere e dell’egemonia soprattutto, sicché, se ci pensate bene, vi accor­gete che in fondo importa davvero ben poco chi, tra Europa e USA abbia occupato ed occupi la poltrona centrale.

D’altro canto, quand’anche una simile questione avesse un qualche rilievo, a quale Europa far riferimento? Si tratti di oggi, si discuta degli anni del primo con­flitto mondiale, o si torni più indietro, sarebbe comunque fuorviante pensare ai paesi europei come ad un blocco, accomunato da un qualsivoglia ruolo egemonico. Per eu­rocentrica che sia la prospettiva da cui parta uno studioso, è difficile ignorare le grandi differenze che, per fare un esempio,  separavano, e separano la Gran Bretagna e la Francia dai paesi balcanici o da quelli dell’Europa dell’Est. Improponibile era ed è, di fatto, non solo un confronto diretto sul piano d’una qualche associazione nel ruolo giocato all’interno di qualsivoglia egemonia di livello extracontinentale o planetaria, ma su quello ben più modesto del rispettivo peso e potere economico e politico e della pura e semplice suddivisione delle zone d’influenza locali, legate a interessi di carattere strettamente nazionali. Ciò, per non dire del quadro istituzionale, in cui le differenze appaiono così profonde, che è assolutamente impossibile individuare un “blocco di potere” eu­ropeo. Si pensi, per esempio, alla contrapposizione tra gli stati fascisti – Italia, Ger­mania e Spagna – paradossalmente più “vicini” ad uno stato asiatico come il Giap­pone, che al resto dell’Europa, e quelli “democratici”, strettamente legati agli USA ed al gigante russo, una realtà territoriale eurasiatica, che costituisce ad un tempo l’immagine stravolta e sfigurata e l’esito concreto del grande sogno dei soviet ed è una forma di totalitarismo estraneo e sostanzialmente ostile tanto alle democrazie borghesi” che al dittature nazifasciste.

In quanto agli studiosi attestati su prospettive “mondiali” e più attenti agli USA, nessuno, neanche quelli abbagliati dal mito “stelle e strisce”, può consentirsi d’ignorare i gravi problemi che affliggono alcuni Stati membri dell’Unione sul piano della civiltà giuridica - e quindi le profonde differenze che separano tra loro i diversi Stati - le disparità sociali e di condizione economica, l’emarginazione dei negri, l’indifferenza della maggioranza della popolazione per una vita politica fortemente condizionata dallo strapotere delle lobby e strutturalmente incapace di dar voce ai bi­sogni dei ceti più deboli ed emarginati. Quale che sia il ruolo che si voglia assegnare agli USA, è innegabile che esso coinvolge nei fatti una percentuale di popolazione così ridotta, che, a ben vedere, la questione di fondo non consiste nella necessità di riconoscere e fissare la dimensione e la consistenza di uno di quei rari e cruciali mo­menti della storia in cui la posizione egemonica assunta da una potenza o da un gruppo di potenze coincide con un così sensibile spostamento dell’asse politico che l’ethos d’un periodo risulta sostanzialmente sopraffatto da quello di un nuovo e di­verso periodo della storia. Il vero problema appare quello di valutare se ed in che mi­sura a quella “sopraffazione”corrisponda, per i diseredati e gli sventurati dei paesi egemoni, se non di quelli egemonizzati, un qualche accesso all’ethos che si impone, o addirittura la possibilità di individuarne liberamente uno proprio, o se, al contrario, , essi continuino a collocarsi tra quanti non hanno avuto, non hanno e non sembrano destinati ad avere un ethos, né quello nuovo che si impone, né uno proprio, che, in chiave dialettica, appare indispensabile in qualsivoglia sistema democratico. Nulla rende più simili tra loro le epoche della storia che non l’eterna attualità, la fi­sionomia inconfondibile che, in ognuna di essa, romana o europea, atlantica o plane­taria, contraddistingue l’inesausto scontro tra dominanti e dominati, tant’è che para­dossalmente, tra i plebei dell’antica Roma in sciopero sull’Aventino ed i sindacalisti rivoluzionari – che pure sono lontani tra loro più venticinque secoli – è possibile in­dividuare molte più affinità di quante non esistano tra uno sbandato del Bronks ed un finanziere di Wall Stret, che pure condividono il tempo e lo spazio.

In questo senso - mi riferisco soprattutto al tema dell’ethos, inteso come crescita democratica - di contemporaneo c’è davvero ben poco, e spesso si tratta di pura apparenza, di progressi precari sul piano d’una legislazione che si definisce sociale, ma che va a beneficio di individui di ogni classe e non lascia intravedere alcuna seria prospettiva di emancipazione dei ceti subalterni. Diritti umani, in pratica, più che legislazione sociale (l’attenzione ai mi­norati, per fare un esempio).E’ un terreno estremamente infido, che si presta alle strumentalizzazioni propagandistiche, ma, alla fine, segna solo progressi sociali e non societari. Più facile, e più spesso, è possibile registrare involuzioni evidenti. Se penso alle speranze suscitate appena pochi anni fa dal sovietico Gor­baciov e da parole come “glasnost” e “perestroika”, le formule affascinanti del suo progetto politico, se paragono quei tempi a quelli odierni della “globalizzazione”, mi pare che siano trascorsi dei secoli e non poco più che un decennio. Il mio più autentico essere “contemporaneo” è certo là, in quella irrealizzabile speranza di saldare in qualche modo socialismo e mercato, in quell’estremo tentativo di provare ad opporre un ultimo argine allo strapotere del li­berismo, alla inumana razionalità del mercato, nello sforzo praticamente disperato di recuperare la splendida utopia della solidarietà tra il ciarpame del socialismo reale. La “casa comune” però è crollata e ciò che resta è come un ritorno al passato che non ho vissuto, ma porto con me, nel patrimonio genetico della memoria storica che mi rende uomo d’oggi, prodotto conscio ed inconscio dei lunghi millenni della vicenda umana.

Ho vissuto una svolta. In questi anni ho vissuto una svolta per molti aspetti epocale. Il crollo dell’Unione Sovietica, mummia rinsecchita di ciò ch’era stata una grande costruzione rivoluzionaria, che invano pretendeva di rappresentare i deboli e gli emarginati, ha chiuso l’epoca dell’utopia egalitaria aperta dalla rivoluzione francese, allorché, all’assalto dell’ancien regime, partirono uniti il professionista, l’imprenditore, l’artigiano, il contadino e l’operaio. Si trattava di consegnare al pas­sato, cui in definitiva ormai apparteneva, ciò che rimaneva d’una costruzione sociale che aveva consumato il tempo destinatogli dalla storia, e tuttavia non si rassegnava a cedere il potere politico e ad uscire di scena: l’antica nobiltà terriera, che al vertice della sua piramide sociale aveva ancora il monarca assoluto. Si apriva allora il mondo contemporaneo con la rivoluzione industriale che avrebbe ben presto modificato la vita dell’uomo ed il paesaggio stesso del pianeta, con le effimere speranze di riscatto sociale che sembrarono per un attimo coinvol­gere un po’ tutta l’umanità civile - l’immensa schiera di chi lavora e produce ric­chezza e benessere sembrò per un attimo imboccare unita la stessa strada – con la partita subito aperta tra chi il lavoro lo vende e chi lo compra. Si apriva allora il mondo contemporaneo e gli alleati di un giorno di­vennero nemici per sempre. Si fece quadrato: chi dietro Smith ed i suoi seguaci, chi dietro pensatori socialisti d’ogni scuola. Da un lato la negazione dello Stato o il tentativo di impadronirsene, di individuare modelli di sviluppo economico alternativi a quelli capitalistici, garantiti da un’organizzazione politica in grado di risolvere la “questione sociale” dettando regole alla logica del profitto, dall’altro il greve ed intangibile fortilizio liberaleche, assediato da operai, contadini, braccianti agricoli e nullatenenti, pretendeva e pretende di essere “democrazia” senza aggettivi mentre è semplicemente la “democrazia borghese”, un’organizzazione politica sostanzialmente asservita al po­tere economico del capitale, eretta a garanzia d’una parte sul tutto.I contrasti col tempo si acuirono e la contrapposizione conobbe le più alterne vicende e spesso si radicalizzò. Le mutevoli sorti dello scontro costituirono tuttavia un “unicum” storico, attorno al quale ruotarono per quasi due secoli le vicende non solo dell’Europa, ma del pianeta. Uno scontro durato sino alla liquidazione del progetto di Gorbaciov ed al crollo del muro di Berlino, che ha sepolto sotto le sue macerie le ambizioni di riscatto delle classi subalterne

Si è chiusa un’epoca e, sul piano del dibattito storiografico, se ne avvertono segnali chiarissimi che si riassumono nel rifiuto netto della “rivoluzione” e nella conseguente santificazione del “riformismo”, senza del quale – sostengono studiosi della più diversa formazione - la politica non ha futuro. Ciò che equivale a dire che tutte le ri­voluzioni sono storicamente fallite e tutte sono destinate a fallire in un inutile spargimento di san­gue. Una evidente mistificazione, dal momento che le rivoluzioni fanno parte della storia e ne hanno cambiato il corso, sia quando sono uscite vittoriose dalla prova durissima – com’è accaduto per la rivoluzione borghese -  sia quando sono state sconfitte, naufragando miseramente sugli scogli delle loro intime contraddizioni, come si è verificato per quella bolscevica. Che poi, dopo averle vinte, i rivoluzionari le rinneghino e, temendone gli effetti, ne teorizzino l’eterno fallimento  storico, ciò non solo è falso e strumentale, ma soprat­tutto è inutile: la storia non muta il suo corso per volontà di un manipolo di storici prezzolati.

Abbiamo identificato un punto fermo su cui fondare il nostro discorso: vista dalla prospettiva che se ne può avere “a valle”, la questione della datazione di quella che solitamente definiamo storia “contemporanea”, è risolta, perché essa si è probabilmente chiusa e ciò che oggi è cronaca sarà domani una nuova epoca della vicenda umana, contemporanea, certo, ma soprattutto perché avrà battezzato con un nome che ci è ignoto la nostra contemporaneità. Fatta questa premessa, che non è certo fine a se stessa, ora possiamo e dobbiamo tornare al tema da cui siamo partiti, per dare una risposta alla domanda che ci siamo posti all’inizio del nostro discorso sulla “contemporaneità”: porre a Vienna l’inizio dell’epoca di cui ci occupiamo è davvero arbitrario? La risposta può apparire persino ovvia: dipende da ciò che si va a cercare nella Vienna del 1815. Né, d’altro canto, sarebbe scandaloso partire dal 1848; occorrerebbe, tuttavia, mettere nel conto la domanda: ma è possibile capire il 1848 senza Vienna? Un’obiezione sensata, perché Vienna è anche la Santa Alleanza e questa, a sua volta, è Cadice e le truppe spagnole che si ammutinano, le corone che tornano a vacillare e le caravelle di Colombo che tornano definitivamente in porto, messe in disarmo per disposizione d’uno Stato extraeuropeo. E’ il 1823. Un repubblicano del continente colombiano, che in Europa salirebbe sul patibolo come tanti sovversivi, ma in America è addirittura presidente degli USA, può impunemente intimare alle teste più coronate d’Europa di non porre mai più piede, ostili e in armi, su un lembo del Continente americano senza il consenso del suo paese. Monroe detta così la sua dottrina alle grandi potenze ed esse obbediscono. E’ una svolta epocale e, come sempre accade, non c’è chi se ne renda conto. A stento, e con grande intuito, Toqueville ha intravisto l’eurocentrismo al tramonto, ma la coscienza complessiva di quanto sta accadendo manca del tutto: ciò che si annunzia non è la lenta fine del ruolo egemone dell’Europa o quella più rapida dell’Ancien regime che Vienna ha restaurato. Compare sulla scena una borghesia che ha già fatto la sua rivoluzione, che si afferma in una terra ricca e sterminata, con immense prospettive di sviluppo. Una borghesia che sarà alleata preziosa di quella europea. In una realtà che muta secondo ritmi vorticosi, lo scontro di classe non ha tempo né modo di divampare. C’è la frontiera da spostare avanti, c’è il “nemico” pellerossa da espropriare, c’è tutto per tutti. I proletari verranno molto tempo dopo: messicani, portoricani, negri emancipati, residui di indios. E non avranno mai serie possibilità né cultura comune per organizzarsi. Vienna è lontana da Washington, ma da entrambi i lati due strade sono già partite per incontrarsi. Sopra non vi corrono Stati che tendono ad occupare posizioni centrali, anzi, quelli tendono già a delimitare le rispettive sfere d’influenza, ma gruppi sociali che hanno in comune interessi, cultura e ambizioni. Un percorso lungo, tant’è che la saldatura definitiva è avvenuta solo alcuni anni fa. Ed è stata la nuova svolta epocale. La storia che è cominciata da quel momento è di certo contemporanea. Ma di una contemporaneità che ci rende passato: la contemporaneità dei nostri posteri.