Giuseppe - anno scolastico 2004-2005
Giuseppe Aragno - 12-07-2005
Si sa. Sono anni che i "Democratici di Sinistra" cercano "casa" e "chiesa". Una ricerca disperata.
Antimarxisti feroci dopo lunga e retribuita milizia marxista, antistalinisti dopo lunghi silenzi sui gulag, pellegrini sulla terza via negli anni ...
Giuseppe Aragno - 09-07-2005
La violenza è nelle cose e nella nostra storia, tant'è che a percorrere le vicende della storia ci si accorge che la parola pace ha senso solo in alcune fasi della vicenda umana di questa o quella gente, fasi limitate nello spazio e nel tempo, in cui o la politica impedisce che siano presenti le condizioni che producono la guerra o la guerra stessa le ha temporaneamente rimosse.
Se questo è - e mi pare difficile negarlo - non una pace vagheggiata fuori dalle condizioni in cui è possibile vivere in pace, non l'utopia pacifista, non la risposta militare rimuoveranno le cause della violenza con cui ci colpisce il nemico in una guerra che abbiamo dichiarato e neghiamo di combattere.
Giuseppe Aragno - 04-07-2005
La mia vita da lontano: fili sospesi nel vuoto. Ci cammino come un funambolo stanco che oscilla, si ferma e va avanti, stretto tra il timore di cadere e il bisogno di muoversi, tra la paura di aprire gli occhi e il bisogno di spalancarli per giungere, passo dopo passo nel tempo che gli è dato, dove conduce la strada segnata dai fili. Prima o poi verrà la notte a coprire d'ombra il mio spazio e il mio tempo. Un funambolo sa bene che un giorno cadrà. In piedi su un filo non si può stare mai del tutto fermi ed è impossibile muoversi con passo spedito. Si sta e si va, come un'onda che ruota spinge un'onda e poi un'altra: ciascuna al suo posto e tutto il mare in moto. Si sta e si va, adattandosi alla fatale delusione che ogni equilibrio comporta. Poi uno squilibrio pone fine al viaggio.
La guardo la mia vita - solo così posso farlo - passando per il filtro misterioso della memoria. Ho un punto di vista, un osservatorio precario e l'unico possibile: il futuro subito passato che diciamo presente. Di là guardo il futuro diventato passato: mi scorre davanti, istante dopo istante, e mi meraviglio: è di nuovo un'attesa che andrà delusa.
No, non gioco con le parole.
Il futuro, quale che sia stato, sogno, speranza, incubo o illusione, non ha mai avuto il volto del presente e non è stato mai fermo un istante, mai ne ho colto l'anima, mai l'ho fissato in una successione di fotogrammi. Se n'è andato come un sogno all'alba e mi resta il passato, un sedimento di sogni, un baleno d'illusione, il sapore amaro della delusione, il mito perduto e una triste consapevolezza: indietro non si torna se non con le parole di un racconto.
Torno indietro, quindi. Narro, cantastorie di me stesso, il respiro del tempo: il breve mio tempo di uomo affannato e quello profondo e cavernoso dell'umanità; torno indietro e colgo intrecci impensati, un mondo dentro un altro, come se guardassi una goccia d'acqua al microscopio; torno indietro, ordino eventi, individuo legami, sequenze logiche di cause e di effetti, incontro il caso cinico e beffardo, scelgo nel tempo ciò che penso stia fermo e ciò che pare che avanzi e trascorra cambiando. Cantastorie di me stesso, torno indietro e scrivo: storie nella storia.
Dal mio punto di vista, aperto su un mondo di pupi sorretti da fili, sono fortunato: non so bene per quale inganno ottico, i fili io li ho sotto i piedi. Cantastorie di me stesso, mi reggo da solo e non sono sorretto. Li vedo sospesi nel vuoto, i cavi sottili sui quali ho vissuto e torno ai sussulti di panico, ai soprassalti d'orgoglio, alle rivolte sedate, alla rassegnazione rifiutata, ai patti con me stesso, ai compromessi, all'eterna paura di cadere cercando un equilibrio nuovo. Sono lì, davanti a me, sono io che guardo me stesso su fili che intrecciano fili, e li riconosco: la mia storia e quella di un mondo nel quale hanno vissuto insieme quattro o cinque generazioni, ciascuna col suo tempo, tutte in un unico tempo, entrando o uscendo una ad una dal tempo dell'altra. Ho un figlio, potrei avere un nipote, ho visto uscire dal mio tempo mio padre che non aveva più tempo. Non c'è stato, ma poteva esserci, il tempo di mio nonno che non ho conosciuto. Eppure l'ho visto così presente nella mia infanzia - me ne hanno parlato a lungo mille cantastorie di se stessi - che senza incontrarlo ho ricavato dal tempo suo il senso misterioso della storia che regola il mio oscillante cammino sui fili. E storia del resto era la vita di quel nonno sconosciuto e affascinante che mio padre mi narrava quand'ero bambino.
Giuseppe Aragno - 11-06-2005

Quando la ritrovai, chiusa in una busta ingiallita, la foto di Pietro Raimondi, sedici anni, operaio alle "Cotoniere Meridionali" a Poggioreale, incupì per un attimo la mia piccola vittoria personale di studioso alle prese con la fatica d'una ricerca puntigliosamente condotta fuori dagli schemi prefissati sui quali ricostruiamo la storia.
La Settimana Rossa a Napoli - narravano la foto e le note di polizia che l'accompagnavano - non fu sommossa di lazzaroni, ma lotta operaia. Era come se il palcoscenico della storia mutasse la scena e i protagonisti. Come per incanto, spariva dalla ribalta la città plebea quasi per vocazione, prigioniera dell'eterno malcostume, del ricatto clientelare, e di una ideologia subalterna che fa di tutte le classi un popolo indifferenziato nel quale si perdono nuclei sparuti di proletari smarriti e inevitabilmente sconfitti dal pauroso binomio licenziamento-disoccupazione.
La mostrai all'archivista, come un trofeo:
- Ha visto? - esclamai - Altro che furti e rapine, come lei sosteneva. Queste carte sono preziose!
Ero eccitato, come sempre quando la scrigno della storia si lascia violare e dal mio presente appare l'umanità che palpita sull'incerto confine del tempo, dove il futuro è ormai passato e non c'è passato che non sia stato futuro. L'umanità, sempre uguale a se stessa ma ogni volta diversa, che chiede solo di capire, raccontare e farsi raccontare.
Era lì davanti a me, in quei fascicoli scovati col fiuto dei cani, la Settimana Rossa che tra il 9 e il 12 giugno 1914 insanguinò le vie di Napoli e smentì lo stereotipo del "popolo lazzarone", che tanto sta a cuore ai padroni del vapore, sempre più compromessi col dramma del Sud. Una città in cui, se la storia la scrivono studiosi attenti anzitutto alle variabili dello sviluppo capitalistico, i ceti operai non hanno rilievo nemmeno quando scoprono il sindacato e il partito politico, e se a mettervi mano sono studiosi meccanicamente marxisti, i lavoratori finiscono su bilance da farmacisti, che pesano diversità tra operai e proletari di fabbrica e valutano solo la capacità di esprimere istanze radicali di antitesi al sistema. Ne nasce una città in cui accadono fatti ma non ci sono persone.
Giuseppe Aragno - 03-06-2005
... SE VINCE IL NO

Prodi, Fassino, Rutelli, Amato, D'Alema e Fini - potrei fare altri nomi, ma mi pare che basti - allineati e coperti su una linea dai tratti più o meno uguali, confermano sulle grandi questioni la sostanziale compattezza del ...
Giuseppe Aragno - 20-05-2005
Autonomi e titolati - il titolo quinto è un pezzo pregiato nei quarti di nobiltà d'una insalata russa ch'è per quattro quinti a destra e per un quinto fa l'occhiolino al centro - posizionati a distanze di sicurezza dalle formule spericolate del "presidenzialismo operaio", ma audaci quanto basta per far balenare lampi d'operaismo, i neocon aprono la fabbrica dei programmi e pensano alla fabbrica dei voti.
Misurati, incapaci di passi decisi, non fecero la rivoluzione e non si rendono conto che serve una restaurazione. Avevamo una scuola dello stato fatta per uguali, ce l'hanno scippata per conquistare ceti moderati e simpatie clericali. Occorre dirglielo che restituire quella scuola al paese è un vero imperativo morale?
Se le cose stanno così, se c'è bisogno di dirlo, in questa fabbrica di calze riuscite a metà - mezze calzette - nascerà inevitabilmente un comprensibile luddismo.
Posizionati oculatamente dove lo specchietto per le allodole poteva essere più attraente, sostennero, autonomi e titolati, che lo stipendio degli insegnanti è una vera miseria. Se ne fecero un punto d'onore: stipendi europei. Erano già allora politici e sindacalisti dei quattro quinti a destra e ciò che resta a centro. Stipendi europei. Se i presidenti non operai che fabbricano programmi, non se ne rammentano più, cosa dire? Programmino antisclerotici e gerovital e non se ne vengano fuori col conto della spesa: i soldi non mancano. Si riduce all'osso il bilancio delle spese di guerra per la pace e di pace per la guerra e c'è di che arricchire scuola ed università. Fabbrichino se ne sono capaci, una visone politica alternativa. In essa si inserirà la scuola. Se ne sono capaci, se no, tolgano il disturbo.
Avevamo una scuola che si fondava sul criterio della solidarietà. Un banda di neocon che aveva preso lo stipendio dal PCI per una vita e poi s'era scoperta anticomunista, inventò un'altra scuola, una che rispondesse a logiche di mercato: domanda e offerta, rami secchi da tagliare con processi di razionalizzazione, accorpamenti, più alunni e meno classi, un baraccone da circo equestre che inseguiva studenti e genitori diventati clienti. e ogni scuola una specialità, una nicchia di mercato, coi dirigenti manager staccati dalla didattica e vendere fumo e tappeti persiani.
Occorre una fabbrica dei programmi? No. Serve una volgare ramazza e il cesto dei rifiuti. C'è una scopa in fabbrica o bisogna acquistarla?
Autonomi e titolati, ampiamente e obiettivamente valutati negli anni passati. sino a giungere alla bocciatura del 2001, i neocon concordano col presidente operaio e coi suoi scherani, e tornano alla carica sulla valutazione. E s'intende: non saremo noi a valutare il "prodotto" della fabbrica, ma la fabbrica a valutare noi.
Giuseppe Aragno - 14-05-2005
Non la farò lunga e non cercherò le vie di mezzo. Non servono. Il fervore di discussioni, i voli pindarici sulla scuola che vorremmo, la passione con cui la immaginiamo, le domande rivolte ai futuri vincitori delle elezioni politiche affinché si pronunzino sulla scuola che vogliono, tutto questo ed altro ancora che leggo qui sulla nostra rivista, che passa sulla rete, correndo da un sito all'altro lungo strani percorsi circolari e tornando dopo mesi, avvitandosi al punto da cui s'era mosso, tutto questo mi intristisce e mi conferma nell'idea che occorre cercare altre vie.

I ballerini di seconda fila nei quali si spera ce l'hanno spiegata l'idea che hanno della società da costruire.
Il più sincero è Rutelli. La scuola statale per lui non esiste. E' il contrario: è lo stato a pagare i privati e onestamente l'ha detto: chi ha intenzione di fare una battaglia "contro la scuola paritaria, non mi avrà al suo fianco. Penso che dobbiamo guardarci dal rischio di alienare dall'intero centrosinistra vasti mondi della scuola e della formazione che rendono un servizio prezioso e che sarebbe gravissimo spingere nelle braccia della destra" [Unità, 22 novembre 2004].

Siamo noi a non voler capire. E questo è un ballerino onesto. Questo parla. Raccomandatela a Dini e a Mastella la scuola vogliamo: anch'essi vinceranno.
Non mi appassiona più una discussione sulla scuola, perché non riesco ad immaginare che se ne possa costruire una buona in una società che va allo sfascio. Abbiamo l'università di Zecchino e continuiamo a sperare che ne possano venire fuori insegnanti preparati. Si va avanti per crediti e per debiti, lauree brevi e specialistiche, master ed altre patacche di questo genere e il problema dei problemi è diventata la signora Moratti.
E' la concezione del mondo, sono i valori di riferimento che fanno da fondamenta a una scuola che funzioni. Bene. I futuri vincitori faranno una fatica tremenda ad essere a sinistra della destra americana. Se si distingueranno con qualche nitidezza da Dick Cheney, occorrerà fare salti di gioia.
La scuola che vogliamo! E il mondo che vogliamo? A chi lo chiediamo un disegno di società nato da una sinistra moderna? A D'Alema?
Giuseppe Aragno - 06-05-2005
Sul Manifesto di ieri, 5 maggio 2005, Paolo Serventi Longhi in un articolo dal titolo tagliente - Censure d'Italia - scrive giustamente indignato che il sequestro del sito di Indymedia per vilipendio della religione "è un fatto gravissimo, abnorme per una democrazia avanzata". Pur riconoscendo a Longhi e al Manifesto un impegno incondizionato in difesa della libertà d'informazione, non posso fare a meno, leggendo, di guardarmi attorno e sorridere con amarezza. Dove sia, qui da noi, la democrazia avanzata è sinceramente difficile dire.
Una terra in cui un Presidente del Consiglio dei Ministri può fare il bello ed il cattivo tempo in tema di informazione non è, non può essere considerata sede di un democrazia avanzata. Non lo è, basterebbe questo per dimostrarlo e non ci sarebbe nemmeno bisogno di proseguire; non lo sarebbe nemmeno se il Magistrato facesse marcia indietro e si scusasse: ho sbagliato, perdonate. Non potrebbe esserlo: eravamo al settantottesimo posto nella graduatoria della libertà di stampa anche prima del sequestro di Indymedia. Eravamo, e siamo, così in basso in tema di democrazia e non solo di libertà di stampa - per mille motivi. Per il caso Santoro e per quello Biagi, per Sabrina Guzzanti oscurata, per i soldati in armi inviati in Irak a fianco dei marines aggressori e contro la Carta costituzionale, perché c'è la legge Gasparri e non abbiamo più una televisione pubblica, perché, grazie alla maggioranza che fu opposizione e all'opposizione che è ora maggioranza, abbiamo la scuola paritaria e non c'è più la scuola dello Stato, perché siamo il Paese della legge Bossi-Fini sugli immigrati, perché Giuseppe Pisanu, ministro degli interni, può far cadere una pietra tombale sulla sorte degli extracomunitari internati nei nostri lager, impedendo ai giornalisti di entrarvi, perché il nostro governo paga Gheddafi affinché rimpatri per nostro conto gli immigrati che si dirigono verso i nostri lidi: anche chi fugge da Paesi in guerra. Il dittatore libico, nuovo grande amico dell'Italia democratica, non ha firmato la convenzione di Ginevra. La violiamo moralmente noi, mandanti del crimine, che invece l'abbiamo firmata.
Giuseppe Aragno - 30-04-2005
Compaiono d'incanto e non c'è verso di farli sparire; più i questurini ne strappano dai muri, più qualcuno di notte ne incolla di nuovi:
"Operai degli opifici regi, figli di popolo, voi vi troverete nelle vie il 1° Maggio! Nelle officine dove mal ...
Giuseppe Aragno - 23-04-2005
Che la Resistenza sia stata praticamente rossa e figlia di comunisti e compagni e che, di conseguenza, la Costituzione che da essa nacque sia ormai un anacronistico impaccio da cui liberare il Paese, non è, come tentano di farci credere i padri spirituali della seconda repubblica, il prodotto di una recente ed originale riflessione. Tutt'altro. La destra lo sa bene, gran parte del centro sinistra lo ignora, non so se per connaturata doppiezza o per la povertà culturale che lo contraddistingue. Alle spalle di questo teorema ci sono motivi cari a quella parte del fascismo che, dopo la guerra, conservò impunemente le sue radici, dando frutti via via più velenosi. In questo senso non è casuale che la nascita della cosiddetta seconda repubblica, così come pensata dai teorici del definitivo sdoganamento di Fini e compagni e della Bicamerale, passi per la via condivisa della pacificazione e, quindi, della parificazione: da sinistra, per esser chiari, i ragazzi di Salò e da destra l'equazione Foibe - Resistenza. Non è casuale e - ciò che più conta - rischia di favorire l'affermazione di un moderno fascismo.
Giuseppe Aragno - 14-04-2005
Come accade per un fiume, nel quale la direzione della corrente, la sorgente che essa si lascia alle spalle e la foce verso cui corre ti dicono qual è la riva che hai a destra e quale quella che ti si pone a sinistra, così, se vuoi capirli, ti devi immaginare i fatti della storia: hai davanti carte e le leggi. Entro quei fogli ingialliti sono alle tue spalle fatti, cose, persone. Chi sono? Che vogliono? E dove conduce la corrente che trascina?

Sessanta 25 aprile sono un'immensa quantità di cose, di fatti e di persone: la storia della Repubblica, la mia storia, la nostra storia. E la foce verso cui ci ha condotti la corrente ora è davanti a noi. Questo 25 di aprile, occorre dirselo chiaramente nonostante l'amarezza, chiama ad un appello: la Costituzione della Repubblica che di un 25 aprile fu figlia è gravemente ferita ed occorre aiutarla. Quale sia la riva destra e quale la sinistra, se mi lascio alle spalle tutto quello che è stato come fosse una sorgente, per la prima volta mi accorgo di non saperlo dire. So che alla foce rischia di annegare un mondo. Dovesse accadere, destra o sinistra conterebbe assai poco.
Com'è necessario che si faccia nei momenti eccezionali della vita, e come sa bene chi è stato educato ad una scuola di pensiero rigorosa, credo sia giunto il tempo di voltare le spalle alla foce e risalire, costi quel che costi, quali che siano i rischi e la fatica, il corso del fiume, andando controcorrente. Quattro anni di berlusconismo non avrebbero potuto aprire ferite così profonde nel corpo del Paese se non avessero trovato una lunga via spianata...

Non dirò della Bicamerale, dei "ragazzi di Salò" e della incapacità della sinistra di capire quale fosse la posta in palio. Non lo dirò. Non serve. Ora occorre il coraggio dei momenti cruciali e l'unità è un valore. I conti si faranno dopo e chi ha sbagliato si assumerà le proprie responsabilità, perché, sconfitto Berlusconi, non resti tra noi l'ombra del berlusconismo.
A questa sinistra tuttavia consiglio di leggere e studiare. L'aspetto al varco per giudicare se mi è amica o nemica e le parlo con le parole d'un maestro: "questa amnistia [...] raggiunge lo scopo contrario a quello per cui era stata emanata: pensiamo, quindi, che verrà giorno in cui dovremo vergognarci di aver combattuto contro il fascismo e costituirà colpa essere stati in carcere ed al confino per questo"

Giuseppe Aragno - 08-04-2005
In fila come pecore, vinti e vincitori, atei e credenti, pacifisti e interventisti, ex fascisti ed ex comunisti, democristiani della diaspora e nipotini di Craxi, sparsi nelle diverse parrocchie che hanno ancora l'ardire di chiamarsi partiti ...
Giuseppe Aragno - 27-03-2005
Narciso, noi pensiamo in genere, è innamorato di se stesso. Non ama quindi. Amante senza amore, immaginiamo lo colga la sventura allorché, malaccorto, volto lo sguardo oltre lo specchio in cui si vede perfetto, è preso da qualcosa che non c'è nell'immagine restituita dallo specchio. Narciso è una finta perfezione: lo specchio non parla, non pensa, non vive. E' lui che lo anima, pieno solo di sé. Quella è la vita. Può essere tutto sbagliato ma ogni cosa appare giusta: tra Narciso e lo specchio non esiste confronto. Fuori dello specchio - e perciò fuori di Narciso - c'è il mondo, nel quale questa specie di angelo dalle ali tronche non ha saputo entrare quando lo fanno tutti gli angeli che hanno sul dorso ali più adatte a volare. Narciso non è vanitoso, come spesso crediamo: qualcuno l'ha ferito quando è venuto al mondo ed ha smesso di volare. Il mondo di Narciso è Narciso: forma e sostanza di se stesso, territorio e confine d'un mondo contenuto in uno specchio. Se l'amore che è oltre lo specchio prende per mano Narciso e lo conduce nel mondo dal quale è fuggito, Tiresia lo ha predetto: è il primo e anche l'ultimo viaggio. Tutto gli è nuovo nel pianeta in cui vivono forma e sostanza che se lo portano via. C'è l'amore nei limiti del mondo - Narciso lo sente - c'è, in quel mondo nel quale lo trascina irrimediabilmente il mistero che gli è apparso oltre lo specchio. Il mondo che l'ha ferito. Ma questo Narciso non lo può sapere. Ha imparato a zittire il dolore con un finto amore. Un passo, ed è fuori da se stesso. Ora sa che c'è forma e sostanza ed intuisce che lo specchio è un inganno. E' come precipitare in un abisso.

Narciso, che per dolore rifiutò di nascere, ora scopre per amore il dolore di stare nel mondo: quanta gioia gli dà così quell'amore, che lo libera dalla menzogna dello specchio, tanto inspiegabile dolore gli proviene da quell'accettare di amare e quindi venire nuovamente al mondo. L'amore di Narciso per ciò che è fuori dallo specchio è ora vero. Egli lo sa, lo avverte ed accetta un sublime calvario.
- O ti riconcili con la vita - sente Narciso che qualcuno gli va dicendo con voce che nasce dal petto suo in tumulto - o la smetti e ti uccidi.
- Non posso - mormora piangendo - ucciderei l'amore che mi porto dentro.
Se il cielo non fosse una celeste menzogna, verrebbero in aiuto i cavalieri dell'Apocalisse, la gloria celeste recupererebbe quel figlio suo innocente fuggito per dolore e tornato per amore. I santi che millantano credito perso la Santa Trinità ai piedi del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo invocherebbero per lui grazia.
Nulla di tutto questo. La forza che produsse un diluvio, che spaccò il Mar Rosso da una costa all'altra, che scolpì sulle Tavole Sacre strappate al Sinai coi fulmini della tempesta le leggi date a Mosé, quella forza rimane inerte. Come inerte è l'Olimpo coi suoi numi, come fermi nel loro meditare se ne stanno gli orientali celesti pensatori e fermo il profeta di Medina.
Tutte le forze di quello che chiamiamo bene se ne stanno immote: vada Narciso per la strada che ha scelto e a nessuno sia consentito spostare gli equilibri sui quali poggia da sempre la storia del creato. Narciso è dolore, non può essere amore.
Eppure egli ora ama.
Giuseppe Aragno - 19-03-2005
L’Assemblea Costituente, espressione delle sole grandi “famiglie politiche” che abbiano radici nella storia del nostro Paese – liberale, socialista e cattolica – discusse a lungo dell’ordinamento della Repubblica. Fu il primo problema che si pose a ...
Giuseppe Aragno - 05-03-2005
Onorevole Sasso,

credo che abbiamo entrambi anni a sufficienza per poterci confrontare, partendo da un minimo di esperienze comuni ai militanti di questa nostra povera sinistra. Quel minimo che anni fa mi avrebbe consentito di scrivere compagna Sasso e darle del tu, senza dover temere di partire subito col piede sbagliato. Non ci diremo compagni e non ci daremo del tu, ma saremo ugualmente franchi, com’era nostro costume in un tempo che ormai appartiene alla storia. No, non ci nasconderemo dietro un dito: non ho motivo di dubitarne. E non se l’abbia a male, quindi, se intanto sgombro il campo da un ostacolo che lei anticipa ( “so bene che ogni parola che dirò sarà vivisezionata e usata contro di me”) e che io leggo come personalizzazione del dissenso. Io non metto in dubbio – e perché dovrei? – che nella sua vita e nella sua attività lei sia sempre stata disponibile al confronto, al dialogo, all’attenzione verso le ragioni dell’altro. Ma non si discute di questo e non si esigono ammissioni di colpa o pubbliche autocritiche. Né da lei, né dagli altri rappresentanti del centrosinistra, dei sindacati e chi altri voglia associare alle presunte vittime. Nulla di tutto questo e, per quanto mi riguarda, nulla che si chiuda nei confini della scuola. Così fosse, faremmo entrambi veramente torto gli ideali per i quali militiamo. La questione è molto più complessa e concerne le scelte che “storicamente”, sul piano politico come su quello sindacale, sono alla radice di un dissenso che rischia di farsi insanabile e che non può comporsi – lei ne converrà – solo perché all’ordine del giorno c’è il berlusconismo. Non è lei in quanto persona, militante e parlamentare il problema che si pone. Il dissenso la riguarda in quanto rappresentante di un Partito. I sindacati, dice. No, mi creda, non i sindacati. Uno, la Cgil, che ha storia - e dovrebbe avere anima - ben diversa da quella di Cisl e Uil, uno induce a riflettere e probabilmente ci divide. Che lei poi li metta tutti assieme, non è privo di significato....
Lei lo scrive, non lo nega: errori vi sono stati in passato. Il punto è che la via intrapresa rimane – è di nuovo dovrei dire - quella che ci ha condotti agli “errori” del passato. E’ qui il dissenso: lei li chiama errori, io scelte.
Giuseppe Aragno - 04-03-2005
I "Censi"a Secondigliano non esistono più da una vita; li ha cancellati la ruspa alla fine degli anni Settanta quando il Comune avviò il "Piano di recupero delle aree periferiche" che, bella incompiuta, s'è perso sulla soglia di un limbo: dove i sogni muoiono e nascono gli incubi. Sulle macerie dei "censi", tra "recupero" e terremoto dell'Ottanta, vennero su, come per incanto case popolari e una camorra da società dei consumi che non ha niente da spartire con l'onorata società di lazzaroni e guappi. E, d'altra parte, i "Censi" non avevano nulla a che vedere con la periferia napoletana e col vicino deserto cementificato di Scampia, coi palazzi troppo alti per essere considerati semplici caseggiati e troppo bassi per sembrare grattacieli. Nulla a che vedere, in fondo, nemmeno con le bestie che si vanno facendo la pelle per istinto ferino, mentre cronisti di ultima generazione si ingegnano a raccontarceli come fossero uomini che hanno pensieri. E' questo il nostro tempo, questo il futuro che si è fatto presente: un incubo nuovo nato per non aver futuro. Questo è il nostro mondo. I "Censi" no. Fondete in un corpo rachitico la miseria, l'ignoranza e la rassegnazione, radicate nell'ombra di ripugnanti tuguri marciti assieme alla povera gente che ci abitava l'aborto che ne viene fuori, ed ecco i "Censi" come li vidi per la prima volta, negli anni Settanta del secolo scorso, addensati inspiegabilmente tra il cimitero, gli stucchi umbertini, stinti ma pretenziosi, dei palazzoni di Corso Italia e gli alveari anonimi e degradati di Via del Cassano: viuzze parallele nate nel '700 e, tra un vicolo e l'altro, file di casupole affacciate su entrambe le strade, anticamente destinate a depositi e scantinati. Un agglomerato di terranei irregolari che la stagione faceva gelati o bollenti, cupi, asfissiati in dedali scivolosi e grovigli di umanità diffidente che pareva straniera e ti seguiva con la coda degli occhi fino a quando poteva.

Così, con la sensazione d'essere seguito li attraversai per la prima volta - e così ci passai da allora quasi ogni giorno per sei anni, solo che gli sguardi che mi seguivano s'andarono facendo via via affettuosi - così me li lasciai alle spalle, attraversando per la prima volta via Tagliamonte, prima di sbucare su una spianata di terra battuta, coperta di radi e ciuffi d'erba di un verde tendente all'olivastro, che aveva al centro due prefabbricati grigi con mille finestre dai vetri rinforzati, circondati a loro volta da un muro di tufo, preso in mezzo da cumuli d'immondizia, carcasse d'auto, bidoni anneriti dal fumo di notturni falò, tende, roulotte e zingari accampati. Una specie d'inferno, stretto d'assedio da gipponi della celere e agenti in tenuta antisommossa, che facevano da argine a una folla inferocita.
- Non fanno a tempo ad andarsene via questi - mi spiegò poco dopo il direttore didattico - e ne arrivano altri.

La mia vita da insegnante, per me che da studente avevo sbattuto la porta promettendo di non mettere mai più piede in una scuola, cominciò così, tra zingari recalcitranti, mamme inviperite, celerini pronti all'assalto e bambini di prima elementare che entravano in classe e si smarrivano, scavalcando timidamente compagni sdraiati a terra che, avvinghiati alle caviglie delle madri urlanti, singhiozzavano la loro disperazione per quel primo giorno di scuola che ci metteva insieme perché il destino è beffardo. Lo seppi subito, ne fui immediatamente certo, mentre mi perdevo dentro quegli occhi disperati, capaci di parlare molto più che le bocche: la scuola che avevo odiato mi avrebbe ancora profondamente ferito. E però l'avrei amata.

Erano giorni di gran fermento e ad ogni svolta le bombe incrociavano la crescita sindacale, la protesta giovanile e le riforme quasi leniniste che, intaccando le "strutture", avrebbero dovuto condurci per forza - la formula era allora usuale - ad un cambio di sistema. C'era chi già ne vedeva i segnali e chi ci faceva su i conti, sciorinando il bel parlare della sinistra colta, che se ti scegli il tempo e l'occasione, trasforma la piazza e il movimento in palazzi e poltrona.

La grande "vittoria" dei Decreti Delegati stava producendo la scuola di massa. Ai "censi" la "democrazia partecipata" ebbe subito vita animatissima: per un anno i genitori colti - ce n'erano più di quanto pensassi - occuparono il potere sull'onda del voto politicizzato e di una polarizzazione sinistra-destra che consegnò, come assai spesso accade, la direzione dell'orchestra all'equilibrio attendista di che si tiene al centro.


Giuseppe Aragno - 01-03-2005
Di fatto, la Repubblica Sociale Italiana fu uno Stato. Ebbe il riconoscimento di Francisco Franco, un sanguinario dittatore fascista, di un criminale come Adolf Hitler e del Giappone, alleato di Mussolini, entrato in guerra contro gli Stati Uniti ...
Giuseppe Tizza - 25-02-2005
Sicuramente ci avete pensato anche Voi, subito dopo una partita finita con la sconfitta della squadra che ha giocato meglio, senza avere avuto aiuti straordinari da parte dell'arbitro e senza che la fortuna abbia avuto un ruolo determinante per il ...
Giuseppe Aragno - 18-02-2005
Si dice: le polemiche vanno lasciate fuori della porta.
Lasciamole. Se con esse fuori rimane anche la politica, pazienza. Ma che dico? Va bene. Non è forse questo quello che si vuole? E infatti, se lo dico, faccio polemica e non vale.
Odio la povertà del mio bagaglio lessicale, la miseria della mia mente che non trova modo di volare alto come sento che si dovrebbe, come vorrei che fosse mentre scrivo e faticosamente penso. Odio senza volere odiare. Tutti l’abbiamo vista e ci si è stretto il cuore – questo almeno si potrà dire – Giuliana Sgrena prigioniera nei suoi ceppi invisibili, torturata da insondabili angosce. Tutti l’abbiamo vista. Smagrita, spaurita, coerente nel suo dolore e fatalmente implorante, forte come un gigante ferito e fragilissima come una bimba nel buio: “Aiutatemi tutti voi a salvarmi. Ho sempre lottato con voi” ci ha implorato piangente. Non si rivolgeva, non poteva rivolgersi a questo governo. Ai Fini, ai Berlusconi, ai Follini, ai Calderoli. Non era a loro che si rivolgeva. Loro ce l’hanno condotta a quell’appuntamento. E questo è un fatto, non una polemica. E se lo è, non è colpa mia se i fatti sono polemici con questo governo. La pace non può chiedere aiuto alla guerra. Giuliana Sgrena, tutti l'abbiamo vista, era la pace in catene, costretta con ferocia ad impugnare un’arma. Era la pace trasformata a viva forza e ignobilmente in arma. Un’arma puntata contro il ragionare critico, contro l’ostinata volontà di attestare una verità che non si deve dire. Un monito: ecco che accade ai testimoni, a chi ostinato pensa e fa pensare. Un solo bersaglio: chi si oppone all’impero.
Giuseppe Aragno - 11-02-2005
Casa mia sorge su un vecchio vigneto ch’era un tempo alle spalle d’una casa colonica, nel verde della collina del Vomero, in quello che un tempo fu il piccolo villaggio di “Antignano”, che Salvatore Di Giacomo immortalò nella musica dei suoi versi: “Maggio ‘na tavernella ‘ncopp’Antignano/ Addore d’anepeta novella…"
Nulla di tutto ciò sopravvive: il cemento degli anni Sessanta s’è mangiato tutto. E il Vomero è ormai solo un affollato e opulento quartiere della Napoli di questo inizio di millennio, anonimo e congestionato che non ha più memoria di ciò che siamo stati.
Il 30 settembre del 1943, dov’è oggi casa mia, allo sbocco di Case Puntellate, prima dell’ampio slargo sul quale s’affacciava lo stadio “Littorio”, la “Masseria Pezzalonga” era in subbuglio. Il crepitare dei colpi d’arma automatica, gli ordini secchi e ripetuti, i lunghi silenzi, il rumore dei passi veloci sulle foglie d’autunno tenevano compagnia e atterrivano.
Giuseppe Aragno - 02-02-2005
Guerriglia o terrorismo: due parole, un abisso e un dilemma, sebbene il denominatore comune – la violenza – costringa la riflessione sul terreno doloroso del sangue che scorre. Figlia della ragione, tuttavia, benché presa da vertigine sulla soglia ...
Giuseppe Aragno - 27-01-2005
Le ho trovate in Carlo Spartaco Capogreco, I campi del duce. L'internamento civile nell'Italia fascista (1940-1943), Einaudi, Torino, 2004. Arbe, oggi, è capoluogo dell'omonima ridente isola croata, e Gonars un comune del nostro Friuli.
Nel '41, ...
Giuseppe Aragno - 22-01-2005
Nel più perfetto stile berlusconiano, Antonio Bassolino, ex PCI ed ora presidente diessino della Regione Campania, va inviando a milioni di cittadini un opuscolo di informazione che ha sapore di propaganda più o meno elettorale, tutto luci senza ombre, che costa un patrimonio alle “care cittadine” e ai “cari cittadini” ai quali si rivolge. Son questi i tempi, direte, ed è vero. Per simili cose, tuttavia, l’intera sinistra ha levato gli scudi. Ora perché si tace?
C’è chi si affanna ad affermare, con toni da crociata, che abbiamo una priorità: battere le destre e mandare a casa Berlusconi e compagni.
Peggio facciamo l’opposizione in Parlamento, più si fa ambigua la battaglia sindacale, più condividiamo responsabilità gravissime, insomma, più fatica mettiamo a distinguerci dalle destre, più c’è chi dice che occorre votare per i Bassolino: fanno pena, ma bisogna votarli. Mi vengono in mente Montanelli e il suo celebre invito: “Turiamoci il naso e votiamo DC”.
Per quanto mi riguarda, non mi lascio incantare: trovai insensato Montanelli, non ascolterò i suoi tardi epigoni. E pazienza se tra questi ultimi si trova, dio solo sa perché, persino la Rossanda. Non lo farò.

Non sono disposto - parto dal terreno sul quale mi muovo - a bocciare la Moratti ed a promuovere Zecchino, facendo finta d’ignorare che lo sfascio dell’accademia ha superato da tempo quello della scuola. Non lo farò, e dubito che tacere dell’uno ed attaccare l’altra sia una mossa politica oculata. Dirò di più: dubito che sia una mossa politica. Così come non ha nulla di politico dimenticare oggi quello che è stato ieri.
Non m’importa se qualche naso si storcerà: fare politica è anche storicizzare. Abbiamo barato: “il nuovo è buono e il sistema è malato”. Per una simile menzogna, condivisa coi peggiori nemici della Repubblica, per questo slogan vestito da filosofia, per questa miseria da spot pubblicitario, “pensato” per tener dietro ai ticchi del “consenso” e influire sui suoi impenetrabili meccanismi, abbiamo fatto comunella con l’universo mondo, senza segnare limiti o distinzioni: il naso ce lo turiamo da tempo. E uso il plurale perché è inutile vantarsi di aver dissentito.

Sono stanco di compagni che si turano il naso.
Sono stanco di azienda e di mercato.
Mi sono battuto per i diritti dei lavoratori e la giustizia sociale, sono stato con gli sfruttati contro gli sfruttatori. Ho i miei valori e non ho da difendere null’altro che la mia storia. E qui, autentico, falso o in fotocopia, non c’è Montanelli che tenga: non ho nulla da spartire con Prodi e con Rutelli, con Dini e con Mastella, così come non avevo nulla a che dividere con Ciampi. Non ci credo alla favoletta del lupo cattivo che fa un boccone di Cappuccetto Rosso e so che la vittoria di questi signori non è e non può essere la mia.
Non lo è: abbiamo valori diversi e interessi divergenti. Io mi muovo dal punto in cui questi signori si fermano e non intendo fermarmi con loro. Bassolino tenga per sé gli opuscoli latte e miele copiati dalle agende della Moratti. E’ da tempo che non abbiamo ormai nulla per cui stare insieme: io credo fermamente che la democrazia, anche quando funzioni al meglio, sia ancora un male, sebbene il minore, e non voglio essere più nemmeno “democratico” se la democrazia già borghese si riduce ad una pantomima che non ha radici nella nostra storia. Non ho nulla a che spartire col maggioritario e, lasciatemelo dire, non sono così cieco da difendere fino in fondo una Magistratura che non ha una bella storia o tradizioni nobili e che ha lasciato sempre soli i suoi figli migliori. No, non difendo sino in fondo una corporazione che ha acquistato potere nella crisi della politica e non intende mollarlo. Sì, lo so, lo so bene che sarebbe pernicioso subordinare i pubblici ministeri all’Esecutivo, ma so anche che è strumentale e di parte negare che un avviso di garanzia consegnato a un Presidente del Consiglio ad una riunione di capi di Stato e di Governo è uno stupido atto politico, che fa di un probabile colpevole un innocente perseguitato. In quanto alle carriere, nessun soldato diventa generale solo perché ha indossato l’uniforme. Facciano concorsi e sentenze.

Sono stanco di compagni col naso turato, che quando conviene gridano al lupo. In giro ora ce n’è uno che torna comodo e fa molta audience: il lupo mannaro che sbrana la Costituzione. Anche, qui, però, diciamolo che la Sinistra ha approvato a fine legislatura e con una risicata maggioranza la riforma dell’art. quinto. E’ stato gravissimo, ma non mi sono stupito: con l’avallo al revisionismo storico e gli amorazzi finiti male con Bossi e coi leghisti, l’avevamo già da tempo delegittimata la Costituzione. Ora gridiamo al lupo. Potrei fare un elenco infinito di ragioni per cui non ritengo di poter riconoscere come miei punti di riferimento D’Alema e Giuliano Amato, che ormai sono fuori dalla storia e dagli ideali della sinistra. Io non ho nulla a che spartire con gli Statuti regionali che incoronano sovrani, con i “Governatori” all’americana e le liste personali; io continuo a ritenere che questo governo sia responsabile per l’Iraq quanto D’Alema lo è stato per la Serbia.

Penso, per essere chiari, che senza i bombardamenti italiani in Serbia, noi non avremmo avuto Nassirya. In Serbia come in Irak l’Italia ha operato fuori e contro la Costituzione.
E quando dico Italia, intendo chi l’ha governata. Dov’è il lupo mannaro, in quale dei punti cardinali della nostra vita politica?
In ultimo, e qui chiudo, se voi mi dite Genova, io vi rispondo Napoli, dove abbiamo dimostrato che si possono picchiare le ragazze inermi dei movimenti fin quasi ad ammazzarle.
Quasi. E’ qui ormai la differenza, in questo “quasi”.
A qualcuno basterà. A me non basta.
Io non ignoro Zecchino e dico no a Moratti. Le destre sono anche a sinistra. Forti, agguerrite, infide e pericolose.
No. Io il naso non me lo turo.
Giuseppe Aragno - 18-01-2005
Tra i consigli e le benedizioni urbi et orbe che increspano la palude del web in tema di scuola - la morfina della non belligeranza va producendo alla lunga i suoi effetti - colpisce per l’autorevole coerenza e l’inconfondibile buonsenso la duplice ...
Giuseppe Aragno - 06-01-2005
- Ancora Bergamasco e Brambilla! - esclamava mio figlio - ma quando la smetti con i tuoi “sovversivi”? Vivi fuori del tempo.
Ero giovane allora, lui ragazzo, e sorridevo ancora. Oggi, se mi guardo attorno, l’amara conclusione è che avesse ragione. Mi rimangono, dei percorsi intricati che segue la ricerca, il poco che ho scritto e il molto che ho incontrato. Che faccio, lo porto con me? Eppure, se la Storia è alla fine un insieme di storie, uomini ne ho incontrati da non far morire e storie ne ho ricostruite da voler raccontare.

Una - si lega per vie traverse ad una Epifania persa nella nostra corta memoria storica - una mi vien voglia di raccontare, perché non muoia del tutto il caso singolare di un calzolaio milanese che a fine Ottocento qui, nella nostra città disoccupata trova lavoro e mette radici. Napoleone Brambilla, calzolaio socialista - circolo operaio di Milano, scuola Turati e un cognome che lombardo di più non si può - ti viene ancora oggi incontro come prendi la via che conduce alla nascita del sindacato a Napoli; ed è un bel vedere, oggi che Bossi e compagni cianciano di Padania, con quanto cuore e passione stringe rapporti d’amicizia con operai socialisti d’altra scuola, più spinta, più rivoluzionaria, come accade ovunque c’è grande disgregazione, che intendono però la storia nella stesso modo e sentono sulla pelle i colpi di un capitalismo che - la storia si ripete - vive di leggi del mercato e fa guerra allo stato sociale: Cetteo De Falco, Ferdinando Colagrande, Gaetano Balsamo, nomi che non dicono più nulla, uomini ai quali la questura “fa la posta”. Sindacalisti. Quanto basta nella Napoli “liberale” per finire in galera o al domicilio coatto. Come cambiano i tempi e quante volte occorre perdere ciò che si ha per riconoscerne il valore!

Il 6 gennaio del 1894 - chi vuoi se ne ricordi? - nasce a Napoli la Camera del Lavoro. Brambilla ne è qualcosa in più che un semplice dirigente. Compare come altri nella Commissione Esecutiva che ne firma l’atto di nascita in Via Banchi Nuovi, ma se la Camera nasce quel giorno è perché, assieme ad un manipolo di compagni napoletani, ci ha perso il sonno e la salute. Firma in quel 6 gennaio, Brambilla, la firma è ancora leggibile nell’atto notarile, ma ha l’animo in tumulto: troppe strane manovre, troppi sguardi indagatori, troppi questurini in borghese per sentirsi tranquilli. E non ha torto a starsene defilato e a non tornare a casa quella sera. Il giorno dell’Epifania del 1894, che vede nascere a Napoli ufficialmente il sindacato, è il giorno di una “retata” micidiale, che coglie nel sonno dirigenti e militanti anarchici, socialisti e repubblicani. Tutti dentro: Crispi fa a Napoli le prove generali delle leggi speciali che si accinge a varare. Brambilla sfugge all’arresto e ricompare quando l’aria torna respirabile, ma al processo ci va e rintuzza l’accusa che vuole i socialisti in galera per complicità con gli anarchici in un inesistente “progetto rivoluzionario”: “socialisti e libertari - spiega pacato al giudice - sono divisi da inconciliabili differenze teoriche e separati da profonde divergenze nell’azione concreta. Tra loro non può esserci comunanza”. E’ la cultura operaia che si presenta al giudice borghese, uomo di parte e servo del potere - così lo vorrebbero oggi certi riformatori - e il magistrato non ha che opporre, se non una condanna ingiusta sulla base di prove costruite ad arte.

L’uomo trovato morto sotto i portici di San Carlo ieri notte è il noto Brambilla”. Così annota per il Questore la Squadra Politica la mattina dell’otto luglio 1899. Poco prima della mezzanotte il cuore l’aveva tradito. Tornava da un comizio la sera del 7 luglio, quella che chiudeva la campagna elettorale: poche ore dopo migliaia di voti avrebbero premiato il lavoro dei militanti operai.
Non fece in tempo, Brambilla, non lo vide sorgere il sole dell’avvenire, ed ogni volta che ci passo, sotto i portici del San Carlo, mi pare di vederlo e lo saluto: " Non hai avuto la gioia del successo - gli faccio - questo è vero, ma non t’è nemmeno capitata la vergogna della disfatta nella quale rischiamo di affondare". Mi pare che annuisca.
Sarebbe bello se alla Camera del lavoro, nata cento e undici anni fa per merito di uomini come lui, qualcuno trovasse un po’ di spazio per un nome su una targa: Napoleone Brambilla, un operaio milanese tra tanti napoletani.

Giuseppe Aragno - 04-01-2005
Certo, ognuno può intenderla come vuole. Di fatto, che il “grande vecchio” del nostro giornalismo di sinistra approdi, in tema di laicità, sulle rive che gli furono opposte di un ciellino, ha un preciso valore politico e può fare da specchio al ...
Giuseppe Aragno - 18-12-2004
Se non avete altro da dirci, tranne che un barbaro successe a un altro barbaro sulle rive dell’Oxo e del Jaxartes, che cosa c’importa di ciò che narrate?”. Penso a Voltaire, che chiede agli storici di interrogare i fatti, mentre dalla rete filtrano atroci dettagli sull’attacco a Falluja e Gino Strada accusa: una strage nazista. Stavolta, però, dalla parte dei nazisti, insieme in un tempo aberrante, ci sono gli ebrei, sotto gli occhi nostri narcotizzati dai giorni della memoria equamente divisi tra sinistra e destra: la Shoa e le Foibe. A ciascuno il suo e su ciò resta un silenzio che non ha memoria, un silenzio a futura memoria. Cosa racconteranno i nostri figli di questo nostro tempo che non ha passato, che è un eterno presente dopo il “secolo breve”, una incomprensibile cesura? Cosa narreranno, se Luzzatto decreta che “dopo il passaggio di secolo e di millennio, non si intravede sul ring neppure più l’ombra del fascismo”, e l’antifascismo “rischia di somigliare a un pugile rimasto solo sul ring”, se tutti consentono, da destra e da sinistra e a nessuno basta il cuore per dire che il secolo della storia non nasce e non muore sui confini d’un calendario.
Giuseppe Aragno - 01-12-2004
Dopo l’inferno di ferro, fuoco e veleno rovesciato sulla sventurata Falluja, dopo la strage compiuta in nome della democrazia made in USA ferocemente esportata, veline americane consegnate a Gianfranco Fini hanno chiesto e ottenuto che un silenzio ...
Giuseppe Aragno - 20-11-2004
Sciopero o no? Su Fuoriregistro è la polemica che tiene banco. Sul sì o sul no si accalorano consenzienti e dissenzienti e sembra quasi che la discussione sulla riforma sia qui davanti a noi, tutta aperta, tutta da definire. Sembra, intendo, che la ...
Giuseppe Aragno - 06-11-2004
Così Carlo Azeglio Ciampi ha definito a Trieste il primo conflitto mondiale: una guerra di liberazione. E’ incredibile, ma è così: l’orrore di una vergogna senza fine che chiamiamo ambiguamente “Grande guerra”, ha sempre esercitato un fascino terribile su animi e culture le più disparate. Tardo epigono di sovversivi pentiti, il moderato capo dello Stato pronuncia oggi, in contrasto con la storia e con l’ethos che è alla radice di quella Costituzione della quale dovrebbe essere supremo garante, parole che inducono a riflettere.
Per quanto tempo ancora ci sarà possibile spiegare la storia ai nostri ragazzi, per farne cittadini ed uomini in grado di sottrarsi al fascino della retorica patriottarda e di saper dire di no alla logica della guerra? Non ci resta molto tempo...
Giuseppe Aragno - 23-10-2004
Non è cosa di tutti i giorni che per la morte di uno storico italiano si provi un acuto senso di dispiacere non solo in Italia, ma anche in America Latina. Così come non è usuale che, girovagando su internet, si possa scoprire di aver perso un forte e caro riferimento.
Per la morte di Enzo Santarelli è stato così e che sia morto me l’ha detto oggi una notizia vecchia di venti giorni giuntami con un ritardo che assume per me i contorni inquietanti di un indice puntato.
Un’amica mi ha scritto: mi sai dare notizie approfondite su Enzo Santarelli, di cui ho letto su Rinascita?
A condurmi a Google è stato un riflesso automatico. Non me lo sono detto, ma sapevo già bene quello che ci avrei trovato.

Agência EFE @ 4-10-2004 14.47
El historiador y escritor Enzo Santarelli, fundador de la revista italiana Latinoamérica, murió el pasado sábado, a los 82 años, en su casa de Roma, después de una larga enfermedad, informaron hoy los redactores de la publicación.
Poco più sotto, chiaro e inequivocabile: “il 2 ottobre è morto nella sua casa di Roma lo storico Enzo Santarelli”.


La sua casa di Roma, dalla quale una sera andai via, ricco del suo “Dossier sulle Regioni” e di un libro di Emilio Falco su Borghi, impreziosito da una lucida prefazione.
Via di Villa Emiliani: non avrei mai immaginato, quella sera, che non ci sarei mai più tornato. E ho la morte nel cuore.
Il comunicato dei redattori di “LatinoAmerica” ha il tono e le parole che lui avrebbe voluto.
Avevo scritto per lui una recensione alla “Storia critica della repubblica”: rimasta fino ad ora nel mio cassetto. Val la pena di tirarla fuori oggi come un dono tardivo. E’ quanto posso fare per salutarlo e ricordarlo a chi avrà tra le mani Fuoriregistro.

Giuseppe Aragno - 16-10-2004
Il paese, a poco più di trecento metri sul mare, su uno spunto tra Salerno e Policastro, si raccoglie indolente, e non rincorre certo la globalizzazione. Sul depliant della pro loco tracce di cavalieri e di Angioini, con un Guido d'Albert che vi giunse al seguito di Carlo I, e di passaggi da un padrone all'altro: i Sanseverino, la badia di Cava, i d'Alemagna che l'acquistarono - non è chiaro se per fatto d'armi - ma lo vendettero in breve ai principi Capano, che lo tennero a lungo sino a che - vuole l'araldica - si estinsero alla fine del secolo dei lumi, di cui la pro loco non dice, perché non si sa bene se sia passato mai per questi monti.
Seguendo poi la via legale delle successioni legali, il paese finì non si sa bene come in mano ai De Liguoro e fu così che ebbe in qualche modo a che fare con il paradiso: quell'Alfonso che si occupò di abitudini pagane del Cilento fu il santo de' Liguoro, che in paese trascorse parte delle stagioni della sacra sua vita. Feudo fino al 1806, quando la tardiva modernità della politica - ci sono terre in cui il ritardo è norma - impose al borgo l'eversione della feudalità, la gente e le case incantate tra il verde, quasi non se ne accorsero. Il paese tuttavia, non s'è mai del tutto scosso da una sua inspiegata sospensione del tempo.
La sentiva, questa tregua prolungata, e gli pareva addirittura ristagno, Sebastiano Neghelli persino nel motore dell'auto, mentre saliva su per gli ultimi tornanti che lo conducevano in alto.
Quando fu nell'abitato dalle vie domenicali strette e solitarie, Sebastiano si perse: la storia di una eterna nobiltà feudale gli si era parata davanti e aveva tempi suoi lunghi e sfasati. Con la spia della benzina al rosso non aveva avuto dubbi: s'era diretto nel centro che ospitava il Municipio.
L'uomo che se ne stava seduto su un muretto basso, davanti alla massiccia torre quadrangolare ch'era stato palazzo Capano si mostrò sinceramente stupito...
Giuseppe Aragno - 09-10-2004
La ricerca storica ti fa giramondo. Non tanto perché, dietro le tracce di uomini e cose, ti metti talora materialmente in viaggio - e il percorso ti è ignoto: lo dettano i fatti e le passioni che ricostruisci - quanto perché, dal tuo osservatorio locale, segui l’itinerario ammaliante delle idee e degli ideali: non hanno confini. Un viaggio uin po’ amaro, m’è capitato di farlo pochi giorni fa in archivio. Seguivo Federico Zvab, un istriano, incontrato alla testa di insorti nelle Quattro Giornate, e mi è parso assurdo che di un uomo della sua tempra si sappia poco o nulla e che nessuno abbia pensato di intitolargli una strada. Una strada come quella che si propone a Napoli per Giorgio Perlasca.
Non è questione di toponomastica, e nemmeno del fatto che Perlasca fu volontario in Spagna dalla parte opposta a quella in cui si schierò Zvab, benché sia inevitabile pensare che, in Spagna, i Perlasca avrebbero potuto ammazzarli i miei Zvab. E allora, mi domando, chi avrebbe fatto poi le Quattro Giornate. Ma non è questo il punto.E’ che Perlasca, non più fascista e non antifascista, tiene per sé, se mai la sente, la ripulsa morale per le leggi razziali e, scoppiata la guerra, è incaricato d’affari nei paesi dell’Est con lo status di diplomatico: rappresenta il regime. Vive così, in una condizione ambigua la tragedia dell’Olocausto sino alla soluzione finale, e in extremis, con un moto di pietà, risolve un sopraggiunto confitto interiore; non scioglie però il nodo cruciale della responsabilità personale nei confronti del fascismo, contro il quale non si schiera mai apertamente.
E’ per questa sua condizione di ambiguità che, quando i tempi sono parsi maturi, Perlasca è diventato strumento di una sottile e pericolosa operazione di “maquillage” politico, di recupero di immagine del fascismo, attraverso quella “dottrina della pacificazione”, per la quale, di fatto, il revisionismo vince la partita.
Giuseppe Aragno - 09-10-2004
Le donne: un mondo - il mondo - messo a fuoco in una camera oscura e rivoltato -quella sì, quella davvero fu rivoluzione - un, mondo nato ai margini dell’altro in cui vivevo, e diventato d‘un tratto l’occhio della terra.
Le donne, vetri e pietruzze rilucenti, d’età diversa, condizione varia, eppure equivalenti, solidali, senza ufficiali e soldati: stesse parole di un linguaggio antico.
Non lasciatevi incantare dall’inganno del tempo. Lo so, voi le vedete oggi, piegate su stesse dal saldo in rosso che abbiamo accumulato con la vita. Peggio, assai peggio. Voi le vedete disanimate, neutralizzate, nelle dosi prescritte di pellicola tagliata, ridotta, censurata, stravolta e montata con inesorabile perizia tecnica, dagli eterni soldati di ventura della manipolazione televisiva, che prestidigitano la storia nei documentari o raccontano chi fummo e insieme che facemmo. Voi le vedete, come pupazzi abbigliati secondo comune regole formali, intruppate nei cortei della protesta, bocche che urlano, ma non hanno la voce o le parole, stereotipi al femminile d’una generazione ridotta a merce di consumo intellettuale, simboli commerciabili di un eterno luogo comune: il contrasto tra generazioni.
Ma è una bestemmia.
Chi le ha viste lo sa: fu come sognare. Anna Kuliscioff, Maria Rygier, Angelica Balabanof, Maria Verone: mi sembrò che incarnassero i modelli che avevo dell’universo ribelle femminile. E loro no, loro ostinate e nuove, mi cambiarono l’universo e mi tolsi dalla testa la tentazione di fare accostamenti. Non c’era modello che tenesse: facevano politica secondo libertà, opponevano il riso e il pianto, le unghie e i denti all’antica bestialità di lacrimogeni e manganelli. Donne, come finalmente le vidi in un pianeta unico in cui vivere insieme - e pensai fosse per sempre - corali, uguali, dignitose pensarono un mondo nuovo e ci strapparono tutta quanta la parità che si poteva.
Nulla di tutto questo resta. Nelle manipolazioni dei soldati di ventura le donne sono pupazzi vestiti secondo una maniera, intruppati nei cortei della protesta, con le bocche che urlano senza voce o parole. Furono invece bellezza trasparente, corpi lievi che ballavano tenendosi sottobraccio senza toccare terra, furono dita veloci su corde di chitarra, sfrontate mani in alto sopra la testa, i pollici contro i pollici, gli indici contro gli indici, e trovarono parole che hanno scalato montagne.

Giuseppe Aragno - 28-09-2004
Ringrazierò tutte le divinità in cui non credo, se in Irak gli ostaggi torneranno liberi e non ci saranno più rapimenti: Budda, Allah, il padre di Cristo e persino Manitù, che - è vero - non seppe impedire ai civilissimi United States of America di ...
Giuseppe Aragno - 18-09-2004
Gli insegnanti, schierati contro la riforma Moratti, attendono dichiarazioni di guerra aperta e senza quartiere, battaglie campali, scioperi generali che difendano la scuola dello Stato e coprano le spalle a chi resiste. Attendono invano: oggi la ...
Giuseppe Aragno - 11-09-2004
Il destino dei popoli è talora beffardo. Meniamo vanto per i natali dati a Machiavelli - nasce con lui una scienza della politica autonoma dalla morale - e dobbiamo dolerci per aver messo insieme la peggiore accozzaglia di politicanti che la storia ricordi: mercanti del tempio camuffati da cristiani centristi di destra e di sinistra, che farebbero arrossire persino quell’anima santa di Ignazio da Loyola, e una patacca che si dice destra, riciclata e transfuga, indecorosa e prona dinanzi a padroni indigeni e stranieri, che balbetta di economia, contrabbanda tradizioni golpiste per riforme istituzionali e insegue sogni militari di miserabile grandezza americana. Una patacca che si dice destra, ma non sa chi sia Croce ed avrebbe le vertigini all’altezza di un qualunque Gentile; questa destra di governo che esprime la sua esatta cifra culturale nella doppiezza di Fini, nel rigore orbo di Fisichella e negli sbracamenti di Giuliano Ferrara e copre di vergogna non dico Einaudi, ma il ben più modesto Malagodi. Al confronto, Rudinì e Pelloux acquistano grandezza di statisti.
Il destino dei popoli è davvero beffardo. Ci onoriamo di aver dato i natali ad Antonio Labriola - maestro del pensiero marxista in Europa - e ci troviamo a fare i conti con una sinistra infingarda, senz’anima e dottrina, che naviga a vista, dopo aver venduto per meno del prezzo di Giuda storia e valori agli usurai del capitale.

.............................................................................................

Giuseppe Aragno - 06-09-2004
Teniamo in serbo, per favore, che torneranno utili di qui a poco, le candele che si spengono una dietro l’altra nelle nostre città distratte: avremo ancora bisogno delle loro flebili luci per pacificare le nostre coscienze.
Teniamole in serbo per ...