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  registrazione n.94 del 28.2.1972 presso il tribunale di frosinone
direttore responsabile alfonso cardamone
 



 
il tempo della festa 
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Alfonso Cardamone
[ a.cardamone@email.it ]
 
EMI TRENTANNI DOPO MARCUSE
 
Nel mese di novembre del 199, il giornale dava notizia di un fatto eccezionale. EMI, il computer musicista, macchina mirabile dal nome graziosissimo, che una volta svolto si rivela essere niente altro che una sigla per Experiments in Musical intelligence, si era esibito davanti ad un pubblico di esperti e li aveva magnificamente tratti in inganno. Aveva eseguito niente di meno che una composizione inedita ed originale (in quanto composta dallo stesso computer), risultata agli orecchi dei raffinatissimi ascoltatori assolutamente indistinguibile, nello stile, da una sinfonia di Bach.
Sembra una parabola fatta apposta per avviare una discussione sul rapporto tra Arte e Scienza alle soglie del Terzo Millennio. E, ancora di più, per affrontare il quesito: è possibile parlare ancora di una autonoma festività dell' Arte, o bisogna dare per acquisito che la Scienza ha fatto, o si avvia a fare, all' Arte, definitivamente, la festa?
Una diavoleria della scienza, un prodotto della tecnologia più avanzata, che sposa l'Arte e la sostituisce. Punto d'arrivo di un'evoluzione e di un ripensamento delle ragioni dell'arte sotto l'incalzare della scienza e della tecnica, che apparrebbe quasi risolutivo, inappellabile. Eppure... a bene analizzare tutto viene rinviato al punto di partenza dal subdolo e sornione manifestarsi di un "male" inguaribile e perniciosamente sottile, endemico e peculiare delle concezioni più tradizionali dell'Arte, che ricompare proprio nel momento stesso in cui sembrerebbe essere stato definitivamente sconfitto: lo Stile, appunto.
A monte di EMI, prima di EMI e, vorrei dire, dopo di EMI, c'è lo STILE, e cioè il Soggetto, l'umana capacità di creare soggettivamente Arte. EMI per potersi proporre come compositore musicale artistico, e non semplice elaboratore matematico di suoni, ha dovuto appoggiarsi ad una personalità eccezionale, ad uno Stile preesistente. Lo Stile prescinde da EMI, EMI non può prescindere dallo Stile, altro che fine dell'Arte, altro che morte del Soggetto!
Emi, la macchina "mostruosa" che può apparire più Bach dello stesso Bach, si pone al vertice di una vorticosa ascesa di sperimentazioni e di tentativi (anche teorici) miranti a realizzare le previsioni e le speranze di quanti, teorici e sperimentatori, si eressero a pionieri della scienza che fagocita l'arte. Penso ad un. J. W. Burnham, per esempio, che, alla fine degli anni Sessanta, vaticinava e si augurava che nel corso del ventesimo secolo non solo si generalizzasse l'uso di macchine per produrre arte d'avanguardia, ma si riconoscesse anche il "concetto che le macchine possano essere arte ovvero parte diretta dell' esperienza artistica".
Burnham, nel periodo in cui gli intellettuali e gli artisti si sbracciavano nell'esercizio masochistico di celebrare la "morte dell'arte", si affannava, da parte sua e in compagnia di pochi altri, a rintracciare nella dinamica dei "sistemi intelligenti", allora ai primi passi, addirittura una nuova estetica, che fosse sostitutiva di quella esausta (o, per meglio dire, dagli avversari ritenuta tale) del tardo moderno. Il suo punto di partenza era costituito dalla teoria dei sistemi e dalla logica della teoria della comunicazione.
Secondo quell'autore, la "continua evoluzione tecnologica, sia nel campo delle comunicazioni che in quello dei controlli", sarebbe stata indubitabilmente "foriera di un nuovo tipo di rapporti estetici, molto diversi dalla comunicazione a senso unico dell'arte tradizionale e della valutazione di essa a noi consueta". Comunicazione e valutazione corrispondenti alla logica, per intenderci, che imposta tradizionalmente il circuito fruitivo del prodotto artistico secondo lo schema monodirezionale opera musificata/spettatore-fruitore passivo. Se osserviamo tutta l'arte passata in quanto forma di comunicazione -è sempre il nostro Burnham che disquisisce-, ignorando stile, contenuto e qualità (e sarà interessante notare che Ia condizione per procedere nell'argomentazione è proprio la rinuncia a priori delle caratteristiche che fondano il prodotto artistico in quanto tale, distinguendolo da ogni altro fenomeno genericamente comunicativo), troviamo che la comunicazione consiste in un processo contemplativo, a senso unico. All'epoca, Burnham sosteneva di avere già assistito (negli happening, nell'arte cinetica, nell'arte luminosa degli operatori d'avanguardia degli anni Sessanta, tutti antecedenti, in qualche misura, delle esperienze elettroniche e multimediali dei nostri giorni) "a qualche prematuro tentativo di espandere l'esperienza artistica e portarla su un doppio binario di comunicazione". Si trattava ancora di forme d'arte che utilizzavano "mezzi tecnici piuttosto grezzi, mantenendo una distanza sia reale sia concettuale fra lo spettatore e l'opera d'arte". Ma non era il caso di disperare, perché "i nostri legami con Ia tecnologia elettronica" sarebbero andati via via aumentando e l'esperienza artistica si sarebbe fondata, di conseguenza, sempre più su un "costante scambio di informazioni nei due sensi".
Quello che colpisce, e allarma, in queste parole non è tanto la capacità di vaticinio riguardo all'evoluzione dei meccanismi della comunicazione, quanto la pretesa di assumere "questo nuovo modo di comunicare a vicenda come un passo avanti nell'evoluzione del senso estetico". Anzi, come un cambiamento tout court degli stessi principi dell'Estetica!
In verità, possiamo convenire che così si avviava una certa inversione di tendenza "nella percezione umana dell'ambiente"; possiamo convenire che, se fino ad allora il pensiero occidentale aveva fatto "assegnamento su un rapporto fisso fra osservatore e oggetto (o fra soggetto e stimolo)" in cui la concentrazione era "puramente questione di cambiar d'obiettivo", dal momento in cui si cominciava ad avvertire un mutamento nella percezione umana dell'ambiente, questo fatto veniva ad incoraggiare -positivamente- il riconoscimento dell'uomo come parte integrante del suo ambiente, superando la razionalizzazione che ci aveva "indotto a pensare in termini di predominio umano e passività ambientale". Possiamo convenire ancora che, se il computer ha un significato sperimentale, è proprio quello di estendere il nostro sistema nervoso oltre il limite finora raggiunto dagli altri media di comunicazione; che il computer non è solo un calcolatore ultrarapido o un archivio di dati, ma anche "un sistema in grado di riorganizzare molteplici ambienti remoti ed incanalarli in una esperienza sostenuta e coerente".
Ma, il punto non sta qui. Il punto sta nel passaggio dall'auspicio di una utilizzazione dei mezzi offerti dal computer nella direzione di una nuova arte processuale o focale, come forma sicuramente auspicabile e legittima tra altre Forme d'Arte, alla pretesa di assolutizzazione esclusivistica di quella Forma rispetto a tutte le altre e, soprattutto, nel rischio a quella pretesa collegato di sostituire concetti, elementi e strutture della teoria comunicativa generale allo specifico particolare dell'Estetica.
Burnham, dunque, riconosceva che le nuove macchine sono fondamentalmente dei "sistemi per l'elaborazione dei dati d'informazione", eppure, con uno spericolato salto logico, pretendeva di definire una presunta estetica dei sistemi intelligenti, intesa come "un dialogo fra due sistemi che raccolgono e si scambiano informazioni in modo da modificare costantemente l'uno lo stato dell'altro". E non si accorgeva che questa è esattamente Ia definizione classica del rapporto di comunicazione e non certo l'individuazione di un ambito precipuamente estetico, che, pur poggiando su basi "comunicative", non può certo con quelle essere confuso e da quelle essere esaurito. In realtà, il concetto da cui ci si muove quando si compie un salto logico di questo genere è ancora di tipo macluhaniano: "è il modo della comunicazione (la stampa di una foto d'un'opera d'arte) piuttosto che il messaggio stesso (l'Opera d'arte) che ha definito e livellato il nostro responso d'arte".
Ecco, ho voluto citare abbastanza per esteso questa ossessione "comunicativa" e la sua applicazione in campo estetico, insieme con l'esplicitazione delle sue più immediate e dirette conseguenze (la sostituzione dell'opera d'arte con un suo simulacro), per rendere il più possibile evidente come questa pre-occupazione nasca in un ambiente e in una temperie culturali che sono gli stessi da cui germinano le teorie e le opere del post-moderno.
Ed è con questa "dominante culturale" che, nel bene come net male, inevitabilmente, dobbiamo fare i conti per cercare di comprendere che cosa significhi e come si configuri nella nostra epoca il rapporto tra Arte e Scienza e quali possano essere, alle soglie del terzo millennio, le ragioni dell'Utopia affidate all'Arte e quelle del rapporto di Arte e Scienza con il sistema produttivo.
Il postmoderno, per dirla con quello che io reputo il più lucido studioso e più convincente critico del fenomeno, F. Jameson (Il Post Moderno, Garzanti, 1989), si manifesta con alcuni connotati di rottura polemica nei confronti del moderno avanzato, tra cui la retorica del populismo estetico e l' assoggettamento di forme, categorie e contenuti alle scelte dell'Industria Culturale sono quelli che mi appaiono tra i più significativi e come quelli che, con una certa approssimazione, valgano a definirne i contorni nell'ambito così delle Arti come delta critica sociologica.
Ricordiamo che anche la rottura tra tardo moderno (o moderno avanzato) e postmoderno si consuma, a partire dai sintomi degli ultimi anni Cinquanta e primi anni Sessanta, con il progressivo definirsi di quello che Jameson molto opportunamente ha chiamato, nella versione più matura dell'ultimo scorcio del XXI secolo, una sorta di "millenarismo alla rovescia": non più premonizioni del futuro, ma diffuso senso della fine (prima dell'ideologia e dell'arte, poi anche delle classi sociali, del welfare ecc.).
Dunque, sancita la fine dell'Arte come Forma. si fa ricorso ad una sorta di retorica di populismo estetico, che pretenderebbe di cancellare il confine tra cultura alta e cultura di massa o commerciale, e, insieme, alla pratica dell' assoggettamento di forme, categorie e contenuti alle scelte dell'Industria Culturale, cioè a quel sistema di produzione globale che genera kitsch, scarti, serial, paraletteratura e arte-trash. Tutti prodotti che il postmoderno non si limita a citare (come poté fare per esempio un grande del moderno avanzato, J. Joyce), ma che incorpora direttamente in una scelta, che si vorrebbe stilistica e che di fatto invece nega ogni possibilità di "Stile", che può essere riassunta con il termine di "pastiche", vero tratto distintivo di ogni produzione postmoderna, dall'architettura alle arti visive, alla letteratura. Il postmoderno, in realtà, non è uno stile, ma piuttosto, come abbiamo anticipato, una "dominante culturale".
E, a questo proposito, non ci possono essere dubbi riguardo alla possibilità e legittimità di collegare le teorie del postmoderno alle generalizzazioni sociologiche che annunciano l'avvento di un "genere di società completamente nuovo, noto per lo più come 'società post-industriale', ma anche come 'società dei consumi' o dei media, o dell'informazione, o anche 'società elettronica o high-tech' e simili", Con queste affermazioni del Jameson determinandosi contemporaneamente: a) l'individuazione delle caratteristiche culturali di fondo della nuova società; b) lo stretto rapporto che arte e cultura intrecciano, o possono intrecciare con la tecnologia; c) al tempo stesso, i limiti ed i rischi che tutto questo comporta. Il postmoderno, infatti, nasce con una contraddizione di fondo. Esso pretende dichiaratamente di contrapporsi all'avvenuta canonizzazione e istituzionalizzazione accademica del movimento moderno in generale (a partire dagli ultimi anni Cinquanta) e considera i protagonisti del movimento moderno, che in origine era stato un movimento di opposizione, "alla stregua di classici morti". Ma questa in realtà non è altro che una paradossale maschera ideologica, che è per altro facile strappare. Perché, alla resa dei conti, la presunta rivolta postmoderna risulta essere tutta interna al sistema produttivo, ed anche i suoi eccessi più estremi sono non solo tollerati, ma preparati e promossi dal sistema del consumi, talché non scandalizzano proprio nessuno: non solo il postmoderno è affatto conformista ed istituzionalizzato, del tutto uniformato alla cultura ufficiale della società occidentale, ma, ciò che a noi sembra più grave, è pienamente integrato, in quanto produzione estetica, alla produzione di merce in generale.
Così si può dire che, mentre il moderno si è istituzionalizzato a seguito del mutarsi del giudizio estetico, la produzione estetica del velleitaristico postmoderno nasce già naturalmente integrata nella più generale produzione di merce. Tutta quanta la cultura postmoderna non è altro che l'espressione sovrastrutturale del nuovo corso del dominio economico e politico del capitalismo multinazionale così come si presenta oggi.
Moderno e postmoderno, pertanto, non sono diversi solo quanto a caratteristiche distintive, ma anche quanto a significato e funzione sociale, "a causa del differente modo di porsi del postmoderno nel sistema economico del tardo capitalismo e... della trasformazione della cultura nella società contemporanea".

A questo punto vale la pena di spendere qualche parola a proposito delle caratteristiche distintive del postmoderno. Jameson così le riassume:
1) una nuova mancanza di profondità, che si collega all'esaltazione dell' immagine e, anzi, del simulacro;
2) un conseguente indebolimento della storicità e della sensibilità anche privata del tempo, della durata, della memoria (un Proust sarebbe impensabile nell'era del postmoderno!);
3) un nuovo tipo di tonalità affettiva, che in realtà è solo euforia e declino dell'intensità sentimentale ed affettiva;
4) i rapporti profondi e costitutivi di tutto ciò con un' intera nuova tecnologia.

A puro titolo esemplificativo ricorderò, con Jameson (il quale mette a confronto Le scarpe della contadina di Van Gogh con Diamond Dust Shoes di Andy Warhol), che se l'opera di un Van Gogh può essere letta ermeneuticamente, nel senso di ricavarne indizi e sintomi di una realtà più vasta, quella di un Warhol in alcun modo può dare luogo all'ermeneutica, risultando impossibile restituire a quelli che sono solo "resti" e "simulacri" un più ampio contesto vissuto. All'opera del primo compete il gesto utopico dell'Arte, quella del secondo ne è del tutto priva.
La caratteristica formale suprema del postmoderno è un nuovo tipo di superficialità, nel senso più letterale del termine, la comparsa di un nuovo genere di piattezza o mancanza di profondità, che fa tutt'uno con la sciagurata scissione del significante dal significato e che si collega al declino delle grandi tematiche moderne del tempo e della temporalità, della durata e della memoria, in coincidenza con la pretesa caduta del Soggetto che è un altro topos tipico del postmoderno. Trionfo delle categorie di spazio su quelle di tempo e declino della consapevolezza e della profondità diacronica, e questo anche quando (anzi, soprattutto quando) si sceglie la rappresentazione meccanicistica dell'evento, come negli esperimenti di arte cinetica.
Torna opportuno, a questo proposito, citare ancora quel J. W. Burnham, che ci ha offerto il destro per il nostro argomentare, per il riferimento che egli fa ad alcuni artisti degli anni '60, che si sono distinti come antesignani dell'uso del computer nell'elaborazione delle loro opere. Ricorda, per esempio, lo scultore Johan Severtson, il quale si serviva del computer per "programmare i parametri delle sue sculture". Il Nostro gli fece osservare che "i dati forniti dal computer, sulla carta, dove essi tracciano disegni dalle squisite variazioni, erano più seducenti delle sculture da essi derivate". Lo scultore cessò di essere solo scultore e, da allora, si diede a filmare il computer mentre disegnava, e prese ad esporre questi film come parti integranti dell'opera d'arte [dove io non voglio discutere se sia più o meno legittimo inserire in un'opera sedicente d'arte procedure matematiche, tecniche scientifiche, in origine destinate ad essere supporto tecnologico per facilitare la realizzazione dell'opera stessa, ma rilevare, piuttosto, che, comunque, quelle procedure assumono statuto estetico solo "dopo" un atto volitivo dell' "artista", pur sempre soggetto centrato del percorso estetico].
Ancora: a sostegno delle sue previsioni sul futuro dell'Arte destinato ad essere "influenzato dallo sviluppo dei computer", l'Autore riferiva su studi allora recentissimi sull'intelligenza artificiale, su bionica e ricerca intorno ai sistemi autorganizzantisi; studi che s'industriavano di "simulare o riprodurre degli aspetti propri agli organismi viventi: come l'autorganizzazione, che sembra essere proprietà esclusiva della vita intelligente, e che comporta: percezione, crescita, apprendimento, sviluppo di strutture nervose, nonché gli effetti del feedback ambientale".
In un articolo apparso su una rivista scientifica nel 1967, intitolato "L 'uomo: un sottosistema?", si sosteneva che "come sottosistema, l'uomo lascia molto a desiderare. Quale altro sistema, infatti, non ha alcuna prospettiva di venir miniaturizzato o . . . è in grado di lavorare a pieno ritmo solo un quarto del tempo, dev'essere trattato come non sacrificabile, abbisogna di un ambiente psicologico e fisico appropriato, non può essere decontaminato ed è altrettanto imprevedibile?". Dove, trascurando il sorriso che le varie domande-affermazioni non possono non suscitare, colpisce in modo particolare la conclusione. Eh si, perché è proprio quell'imprevedibilità che ha fatto e fa la differenza dell'uomo rispetto agli altri animali, ed oggi, dobbiamo dire, la fa e continuerà a farla per domani riguardo alle macchine. L'uomo scriveva Edgar Morin (Il paradigma perduto, Bompiani, 1974) è un animale dotato di s/ragione: è questa la sua differenza, il tratto distintivo e la sua grandezza! E l'Arte, più di ogni altra umana realizzazione, poggia esattamente su questa sua specifica qualità.
Allora l'affermazione che "potenzialmente il computer è il mezzo migliore che abbiamo per rafforzare [i] circuiti di comunicazione con il cervello umano", comunicazione interattiva a più sensi, opposta all'interazione a senso unico dei sistemi simbolici (per es. pittura e scultura), può essere accettata solo nel senso per cui "per l'arte, forse, la forma più significativa di intelligenza non-biologica o iperbiologica, è quella della 'esaltazione dell'uomo mediante un rapporto uomo-macchina' … L'obiettivo è quello di pensare creativamente insieme con ii computer ...". Solo così i computer potrebbero diventare "attrezzi accettabili per l'artista". Ma, appunto, solo attrezzi e niente più!
"La secolarizzazione dell'arte proseguirà" -questo è indubbio- e le macchine saranno sempre più in grado di fare 'manufatti' migliori di quelli di qualsiasi artigiano, ma, appunto, solo manufatti artigianali o, peggio, industriali, che sono altro da quelli artistici. Il prodotto artigianale, e anche quello industriale, sono certo prodotti culturali, tasselli che contribuiscono alla complessiva definizione di un assetto e di una concezione del mondo, ma l'arte, se è tale, è qualcosa di più: è essa stessa creazione-rappresentazione-espressione di una e di infinite concezioni del mondo.
Per chiarire quest'ultimo concetto, avendo scelto di rimanere nello stesso ambito di discussione e nel medesimo spaccato cronologico da cui siamo partiti ed ai quali riconosciamo un segno importante di definizione delle coordinate atte a qualificare i termini attuali del problema, ci avvarremo di un saggio di H. Marcuse, L 'arte come forma della realtà , che condivide con quello di Burnham lo spazio di uno dei benemeriti Materiali Feltrinelli, edito nel 1972, Sul futuro dell'arte.
Anche Marcuse parte dalla considerazione dell'attacco "non solo politico, ma anche … artistico contro l'Arte":
"La distanza e la dissociazione dell'Arte dalla realtà vengono negate, rifiutate distrutte".
Ma, a differenza della vocazione apocalittica e della dipendenza mercenaria dci predicatori postmoderni della "morte dell'arte", qui si tratta di una avvertita esigenza di riaccostamento dell'Arte alla realtà, anzi di una aspirazione all' integrazione dell'arte alla vita non come adeguamento alla logica mercantile, ma al contrario come vocazione politica a fare dell'arte un momento particolarmente significativo di una vita votata all'impegno rivoluzionario e contestativo, di una vita che, insieme con l'arte se non addirittura grazie all'arte, divenga "essa stessa la cosciente negazione della normalità, del modo di vita convenzionale, stabilito. . .". Era proprio la Forma di Merce dell'arte, così come dell'antiarte, ad essere messa in discussione come forma di quella realtà "normale" che costituiva il bersaglio della ribellione.
Ma Marcuse, mettendo in risalto l'ambivalenza sociale dell'Arte, ne recuperava nel contempo tutte le valenze di Forma e di Stile (e questa è un'operazione di segno completamente, radicalmente opposto a quella portata avanti dal postmoderno): "Ciò che costituisce l'identità unica e duratura di un'oeuvre, e ciò che fa di un'opera un' opera d'arte … è la Forma. In virtù della Forma, e della Forma soltanto, il contenuto acquista quella unicità che fa di esso il contenuto di una particolare opera d'arte e di nessun'altra". E sono gli aspetti della Forma che propriamente "rimuovono, dissociano, alienano l'opera dalla realtà data e la fanno entrare nella propria realtà: il regno delle forme". E il regno delle forme, che è una realtà storica, "una irreversibile sequenza di stili, soggetti, tecniche, regole" (altro che pastiche!), "ripetibile solo come imitazione", non rappresenta che variazioni di una Forma "che distingue l'Arte da qualsiasi altro prodotto dell'umana attività".
Fin da quando l' Arte uscì dalla sfera del magico -ci ricorda Marcuse-, fin da quando cessò di essere "pratica", l'Arte non è stata più intesa come "un valore-uso da consumarsi nel corso delle quotidiane vicissitudini degli uomini; la sua utilità è di tipo trascendente, utilità per l'animo e la mente che non interferisce col normale comportamento dell' uomo".
L'arte è così "alienante", perché pone la realtà a confronto con un' altra e diversa realtà.
"In quanto parte della cultura stabilita, l'Arte è affermativa, sostenendo questa cultura, in quanto alienazione dalla realtà stabilita, l' Arte è una forza negativa".
Si vuole andare oggi -scriveva Marcuse- verso l' "arte vivente"? "Si vuole un'Arte in movimento, in quanto movimento?". Se l'Arte vuole essere reale non può che divenire una forza politica. Ma questo non significa né può significare annullarla nella realtà. E profetico e ammonitore, a fronte delle aberrazioni postmoderne così come delle tentazioni fagocitanti della tecno-arte à la EMI risuona ancora oggi l'avvertimento marcusiano a considerare opere autentiche, vera avanguardia del nostro tempo, quelle opere che "lungi dal rinnegare questo divario, lungi dallo sminuire il ruolo dell'alienazione, allargano l'uno, esaltano l'altro, ribadendo la propria incompatibilità con la realtà di fatto. . . Queste opere adempiono, in tal modo, il compito dell'Arte, la sua funzione conoscitiva (che è la sua inerente funzione radicale, "politica") e cioè: nominare l'innominabile, metter l'uomo di fronte ai sogni ch'egli tradisce, i crimini che egli dimentica".
Bene, io sono ancora convinto, con Marcuse, che la vera avanguardia "sia costituita non già da quelli che disperatamente tentano di produrre l'assenza della Forma e l'unione con la vita reale, bensì da quanti non si sottraggono alle esigenze della Forma, da quanti trovano parole, immagini e suoni nuovi che siano capaci di "comprendere" la realtà come 1'Arte soltanto può comprenderla, e negarla."
Io sono ancora convinto -con Marcuse- che l' "arte vivente", la "realizzazione" dell' Arte, può essere soltanto opera di una società qualitativamente diversa dall'attuale, una "società in cui un nuovo tipo di uomini e donne, non più soggetti allo sfruttamento, riescano a sviluppare, nella loro vita e nel loro lavoro, la visione, la visione delle possibilità estetiche soppresse d'uomini e cose: estetiche non quanto alle specifiche proprietà di certi oggetti ma come forme e modi di vita corrispondenti alla ragione e alla sensibilità di liberi individui" (secondo la concezione marxiana dell' "appropriazione sensuosa del mondo"). "La realizzazione dell'Arte, della 'nuova arte', è concepibile soltanto come processo di costruzione dell'universo di una libera società; in altre parole: l'Arte come Forma della realtà".
E questa -mi sia consentita l'appropriazione concettuale- è già UTOPIA per il prossimo millennio, utopia dell'Arte ed Utopia della Politica! Ancora una visione di Marx: "l' animale costruisce solo secondo i suoi bisogni; l'uomo costruisce, forma, anche seguendo le leggi della bellezza".
Questa -sempre citando Marcuse- "sarebbe allora creatività, sarebbe creazione in senso sia materiale sia intellettuale, sarebbe un connubio fra tecnica e arti per la totale ricostruzione dell'ambiente, un connubio fra città e campagna, fra industria e natura una volta liberate dagli orrori dello sfruttamento e dell'abbellimento commerciali, senza che l' Arte debba più servire da stimolo agli affari".
Ma "una siffatta realizzazione dell'Arte implicherebbe forse l' delle arti tradizionali?" No! Certo! perché l'Arte è trascendente "in un senso che la distingue e la divorzia da qualsiasi realtà che possiamo presagire. Per libera che sia, una società sarà sempre afflitta da necessità: la necessità della fatica, della lotta contro la morte e le malattie, contro la penuria [noi potremmo aggiungere: contro ogni oggettiva determinazione dell'essere umano o, paradossalmente, qualora la Scienza riuscisse ad imitare in Fantascienza ed a vincere le stesse limitazioni delle coordinate fondamentali di tempo e spazio, contro quella che potrebbe essere la nuova condanna all'eterno, che si verrebbe allora a creare nell'universo umano, in nome di una perduta finitezza, così come insegna il borgessiano Asterione. Perciò le arti manterranno forme d'espressione ad esse consone, e soltanto ad esse: di una bellezza e verità antagoniste a quelle della realtà". E questa è l'Utopia fondante e irrinunciabile dell'Arte, l'utopia di un linguaggio verticale, che distenda il suo passo tra Inferno e Paradiso, scavalcando la piattezza di ogni mortificata e mortificante orizzontalità!
 


 
il tempo della festa 
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Severo Lutrario
[ severo.lutrario@libero.it ]
 
I TEMPI E LA FESTA
 
Profondamente si compiace Dioniso quando
sui monti dopo la corsa dei thiasi si abbatte
a terra rivestito della sacra nebrìde e
dopo aver gustato le crude carni dei capri svenati
se ne va verso i monti della Frigia o della Lidia

(Euripide, Baccanti 130-140)

Bizzarra idea la catalogazione del tempo, di un'entità che di fisico non ha che l'inesorabile montare dell'entropia che del caos è misura e, forse, per questo, quindi, dismisura. ...
Idea bizzarra questa catalogazione di rivoli soggettivi o collettivi d'esperienza per loro natura sfuggenti ad una qualche indicizzazione bibliotecnica, ma certamente più bizzarra è la specificazione della voce di catalogo proposta: la festa, ovvero il tempo di qualcosa che non c' è.
C'è stata, di certo, la festa, al tempo della dea plurimammellata, quando la famiglia e la tribù, rnatrilineari, orizzontali, prive delle escrescenze orografiche del potere, producevano un comune percepire l'individuo, la comunità e le immani potenze dell' esterno. Ha un significato, per allora, parlare di un tempo del lavoro, di un tempo cioè in cui si provvedeva al sopravvivere, e di un tempo per la festa, di un tempo, cioè in cui la comunità tentava apotropaiche interlocuzioni con quelle terrifiche potenze dell' esterno.
Ha ancora in parte senso la voce di catalogo proposta nelle società tradizionali quando al percepire ancora oggettivizzabile delle classi popolari si assomma una ripartizione del tempo altra, propria delle classi aristocratiche, che al tempo apotropaico della festa sostituiscono il tempo ludico. Ma non solo, fin da subito e con la devastante efficienza clericale che ben conosciamo poi, l' aristocrazia ha saputo riplasmare le ritualità popolari sovrapponendovi canoni religiosi o civili utili a veicolare la cultura della propria preminenza, utili alla perpetuazione del proprio dominio.
Ma ha ancora senso, comunque, parlare della festa, in quanto la sua funzione apotropaica aveva almeno in parte resistito, tant'è che abbondanti tracce di essa si possono tuttora riscontrare nelle realtà sociali più conservative.
Diviene, di contro, già vacuo parlare di festa quando il capitalismo borghese decentra sul profitto la scala dei valori causando in tal modo la rottura d'un equilibrio produttivo sino ad allora basato sulla sussistenza. Lo squilibrio generato allora ha causato l'esistenza strutturale di un surplus di merci e beni (a detrimento delle risorse e degli "altri") che ha richiesto la manifestazione di un plusvalore temporale necessario alla proliferazione di una domanda "altra" dalla sussistenza, di una domanda di quelle merci e di quei beni, appunto, in surplus.
Nello stesso tempo, e funzionale alla rivoluzione economica, si è avuta la messa al bando dell'immanenza della morte, operata dall'illuminismo, che avrebbe portato all'inaridimento delle ritualità apotropaiche vieppiù sostituite dalle funzioni placebiche dello psicologismo.
Questi due fattori, plusvalore temporale ed inaridimento delle ritualità apotropaiche, hanno comportato progressivamente ed inesorabilmente il venir meno di quel percepire comune anche tra le classi popolari, hanno portato ad una progressiva, generale, soggettivazione dei bisogni. Caduta la funzione apotropaica tribale al tempo della festa si è sostituito il tempo "libero", ovvero il tempo del riposo e del recupero delle energie fisiche e mentali all'apparenza gestito soggettivamente e democraticamente ed in realtà imposto nella quantità dalla suddivisione nelle diverse classi sociali e nella qualità dai bisogni indotti e dalla cultura individualmente acquisita.
In sostanza nella società borghese classica non si ha più la festa ed un suo tempo e neanche un tempo oggettivamente riconducibile ad esigenze collettive, ma tutta una serie di tempi tra loro non commensurabili in quanto sostanziati individualmente o da gruppi specifici di popolazione.
Ma anche la società borghese tradizionale ha finito per essere soppiantata, nell' epoca del capitalismo avanzato, dall'organizzazione fordista che alle grandi concentrazioni produttive, all'imposizione di concezioni urbanistiche e ambientali funzionali alla produttività ha sovrapposto una contingentazione del tempo, anch'essa rigidamente funzionale alle esigenze della produzione e del mercato.
Nella sostanza alla gestione borghese classica del tempo libero si è andata sostituendo una ripartizione rigida dei tempi predisposti per gruppi di fruitori, che in pratica ha prodotto il tempo del lavoro, il tempo da e per il lavoro, il tempo per l' alimentazione, il tempo per la TV , il tempo del week end, il tempo delle ferie, il tempo della partita, ecc.
Nella società fordista la stessa gestione "democratica" borghese del tempo libero diviene illusione agiografica nella progressiva induzione all'omologazione operata dalla cultura di potere. Della festa non resta alcuna traccia e, mentre nelle società tradizionali le classi aristocratiche detentrici del potere piegavano alla loro ideologia le ritualità apotropaiche delle classi popolari, nella società fordista è il grande capitale ad imporre ai ceti subalterni le ritualità contemporanee, che nulla hanno di apotropaico, ma che sono solo funzionali alle esigenze della produzione e del mercato.
Eppure anche il fordismo ha raggiunto il capolinea e in questi nostri tempi stiamo assistendo ad una nuova fase di riorganizzazione sociale. Ammessa e non concessa l'agiografia democratico-borghese che lega le diverse classi sociali in un contratto fondato sul reciproco riconoscimento di necessità ed indispensabilità, oggi, che i processi di riorganizzazione e ristrutturazione del sistema produttivo comportano la formazione di una crescente massa di disoccupazione strutturale, il capitalismo finanziario dominante tende a negare ai salariati questi stessi requisiti di necessità ed indispensabilità, ponendoli in concorrenza con la massa dei disoccupati, nel tentativo di depauperare progressivamente la loro condizione sociale e creando in tal modo le basi per la loro progressiva marginalizzazione all'interno del contratto sociale, con la conseguente esclusione dalle tutele sindacali e sociali prima (leggi riforma dello stato sociale e del mercato del lavoro) e politiche poi (vedi maggioritario e presidenzialismo).
In questo quadro la contingentazione fordista dei tempi viene d'un tratto a non fornire più una risposta adeguata e funzionale alla realtà. Quando la disoccupazione non è più un fattore congiunturale, sia in termini collettivi che in termini soggettivi, la cui persistenza assume valore patologico per la stessa società, ma diviene un fattore strutturale e cioè funzionale al sistema, può avere un valore oggettivo, ossia unanimemente riconosciuto come tale, lo stesso tempo del lavoro?
Deprivata di significato generale la contingentazione, quali valori sono attribuibili ai diversi tempi, diversi dal tempo del lavoro?
Certo, il tempo ludico, d'aristocratica memoria, fin dall'epoca del capitalismo classico ha qua e là tracimato nell'alveo popolare, ma nel quadro sociale fosco che si va delineando, nel nostro futuro appare solo la regimentazione dell' angoscia e della disperazione montanti dalla grande massa dei precarizzati e dei marginalizzati, appare la loro canalizzazione in rivoli funzionali e compatibili al sistema.
Quale distanza in ciò dalla festa e dalla sua funzione apotropaica!
Eppure, l'antico graffito tracciato sulla rupe dell'inconoscibile come sua metafora ed interlocuzione, questo fondamento primo d'ogni ritualità apotropaica, la poesia, non ha cessato d'essere tracciato nel susseguirsi delle epoche sociali, divaricandosi, come lungo le lame di una forbice, da esse. E fin da quando la società degli uomini ha dismesso e disconosciuto la funzione e il ruolo della festa, anche quando l'inattualità è divenuta la condizione esistenziale del poeta, questi, inesausto e inaudito, ha continuato a tracciare i segni dell'evocazione.
Lo ha fatto stretto nelle pastoie del mecenatismo aristocratico; lo ha fatto finalmente liberato ma ad un tempo esautorato della sua funzione nella società borghese, creatrice d'un tempo dell'arte e di un tempo della letteratura e sterminatrice della festa; ha continuato a farlo nella società fordista nonostante la reificazione dell'arte e della cultura, la loro riduzione a merce soggetta alle leggi del mercato, all'omologazione ed al consenso post-moderni; e continuerà a farlo in questa società toyotista, unica voce e fonte di speranza per un'umanità che finge, solo, di dimenticare le domande attonite.
Se di tempo, allora, non ha senso parlare, di festa forse sì.
Anche se la festa nella società degli uomini è stata derubricata da rito apotropaico a festività religiosa o civile, e da questa a gestione del tempo libero, per finire a contingentazione dei tempi di fruizione, ed ora a gestore dell'inquietudine e della disperazione, la professione dell'inattualità che solo il poeta esercita è il solo strumento che perseguendo l'utopia delle utopie rinnovi soggettivamente e nel convivio dei liberi e degli uguali la funzione apotropaica della festa e con essa un lucore di speranza per l'umanità intera.

 


 
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Mario Amato
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LETTERA SU LEOPARDI
 
Carissimo Alfonso,
in data 22 marzo '01 mi sono recato a Recanati per visitare la biblioteca leopardiana ed i luoghi cari al poeta. Era mio desiderio tale visitazione fin dai tempi del liceo, allorché si preparava con ansia, ed allo stesso tempo con una smania giovanile, l'esame di maturità, e sovente erano ore notturne. Non ti nascondo che ho provato una certa emozione nel varcare la soglia di Palazzo Leopardi, quell'edificio che mai il poeta chiama casa. Come per te, anche per me le biblioteche sono luoghi sacri e in special modo quello in cui Leopardi trascorse i sette anni di studio e disperatissimo.
Mi sono soffermato molte volte sulla favola del pessimismo leopardiano, la quale favola ha lasciato pochissimo spazio allo studio del Leopardi polemico nei riguardi dello Stato pontificio, della Chiesa, della stessa religione e del suo invito alla sofferenza, quando al contrario egli scrive che al mondo, e non vi ha il torto, piace non già di piangere ma di ridere. Del resto Carducci nota che nella scuola cattolica, dov'egli era per volontà del padre, non si faceva altro che studiare Manzoni e di Leopardi non si parlava mai se non con certi epiteti, non certo di ammirazione.
Come è stato possibile alla scuola italiana riempire la testa di giovani studenti che il pessimismo leopardiano derivava dalla sua stessa condizione esistenziale e trascurare invece la verità che quel pensiero si colloca tra il pensiero negativo occidentale con Schopenauer e Nietzsche?
Una visita a Palazzo Leopardi è consigliabile a che voglia comprendere quanto coraggio ebbe Leopardi nell'abbandonare la sua dimora e la sua condizione sociale. A Recanati sarebbe pur stato il Conte Giacomo ed io credo che quando scrive gente vile non alluda affatto al popolo recanatese, bensì sia spinto dalla consapevolezza della sua grandezza e dalla coscienza che i notabili della cittadina non avrebbero mai riconosciuto un posto fra loro ad un uomo che dichiarava apertamente al mondo il suo ateismo ed invitava a godere dei piaceri della vita, ad un uomo al quale la sofferenza ed il dolore, sebbene connessi alla vita, sembravano ingiustizie. Ed è in questo pensiero che Leopardi si ricollega alla linea filosofica greca del periodo tragico, laddove la vita è intesa come trasgressione agli Dei, anticipando - Leopardi dico- di cinquant'anni Nietzshe. La gente vile è, credo, per estensione anche la cerchia d'intellettuali dello Stato pontificio.
Credo dunque sia necessario indicare ai giovani un Leopardi diverso, un poeta e filosofo militante e animato da ragioni civili, senza naturalmente trascurare la soavità dei suoi versi.
Sono ancora convinto che il poeta amò la sua cittadina, e ciò si sente dalla gioia dei versi, nei quali si parla di Recanati, rappresentata spesso nei giorni di festa e di primavera e nelle figure dei suoi giovani.

P.S. Il verso che prediligo "Viene il vento recando il suon dell'ora dalla torre del borgo". Non a caso Joseph Roth scrive che nessun suono è evocatore come quello della campana.

Mario Amato
 


 
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COMPLEANNO
 
Venticinque settembre

Oggi ho un anno in più
Come milioni di altre persone
Quel giorno nate
Di anni fa

Di nulla mi pento
Perché la vita mi piace
Ogni giorno in misura maggiore
Di tutti i giorni passati

Mi piace il brusio festoso
Delle frotte di giovani al mattino
E quello della gente in un paese sconosciuto
All’ora del passeggio

Sono stato a volte tradito
Ma non ho mai ingannato
Un amico o una donna

Ho letto libri di poesia
Su panchine solitarie
In angoli del mondo
E ho scritto versi d’amore disperati

Mi piace la vita
La serenata per archi di Dvorak
E l’urlo della folla negli stadi
Le bandiere che sventolano
Nei giorni festa
Le canzoni popolari
Le strade deserte lucide di pioggia
Il tuo sorriso e la luce nei tuoi occhi
Le cime innevate delle montagne
Al principiare dell’Autunno
Il rumore dei boschi mossi dal vento
I grappoli d’uva dorati che pendono gravi dalle viti
E i mandorli fioriti nelle primavere
Gli ombrelloni variopinti sulle spiagge
E i colori gioiosi della frutta nei mercati all’aperto
Il suono delle campane alla sera
Le urla dei venditori
…….

Voglio sentire e vedere
Per lungo tempo
Tutto quello che mi piace
Giocare a Tennis
Ed arrabbiarmi per un punto perso
Assaporare l’odore del caffè
Sedermi con un amico davanti ad un Bar
E fare una partita a scacchi
Guardare una bella donna che passa
Scrivere a te una poesia
Che non avrò il coraggio di rivelarti
Donarti una rosa
Leggere ancora volumi e scrivere rime
Sentire in una taverna
La musica di un altro idioma


Voglio guardare
Il sole al tramonto
E aspettare che l’alba risorga
Dietro le montagne
Di tutti gli orienti
………
 


 
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Mario Amato
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IMPRESSIONI DI UN BREVE VIAGGIO
 
In viaggio con Ismaele (In treno)

Chiamatemi Ismaele… sono le parole con cui inizia Moby Dick, libro da associare all’Odissea, alla Divina Commedia, a Don Chisciotte. Il narratore Ismaele rende partecipi i lettori del suo viaggio: è il rimedio alla morte ed al suo fascino. Quei grandi romanzi sono anche libri di viaggio, ma viaggiare non basta; non è sufficiente porsi davanti a paesaggi reali; i protagonisti sono sempre di fronte ad un paesaggio interiore.
L’Odissea è riassumibile in poche parole: è la storia di un uomo che torna a casa; Don Chisciotte è il racconto di un uomo che abbandona la propria casa; Moby Dick è la narrazione di una caccia ad una balena bianca. Il fatto che la balena sia bianca non è straordinario, poiché in natura sono innumerevoli i casi di albinismo; straordinario è l’odio di Capitan Achab per il grande cetaceo, come straordinari sono i racconti dello stesso Ulisse, il grande mentitore, e straordinarie sono le visioni di Dante.
La letteratura è lo scarto fra la normalità che ci sta di fronte e il modo di guardarla; la poesia nasce dall’eccezionalità della visione.
Tutte le religioni affermano che la vita è un viaggio e Dante ha costruito un libro che una metafora.
Un giorno accompagnai una scolaresca in visita al Palazzo dei Papi sito in Anagni: la suora che faceva da guida, non volendo rinunciare alla gloria cittadina di Bonifacio VIII sostenne che Dante non avrebbe scritto la sua grande opera, se non fosse stato esiliando, attribuendo, con marchiano errore storico, la pena inflitta al sommo poeta a Bonifazio. Ella difendeva, a torto, il suo concittadino, ma pure affermava una grande verità. Colui che sente la missione della scrittura ha un mondo o molti dentro di sé, ma deve confrontarsi con quello esterno, con il mondo finito, perché l’idea dell’infinito proviene dal limite, dall’orizzonte.
Viaggiare è una necessità dell’anima ed è giusto farlo, come ha scritto Marguerite Yorcenaur, con la curiosità dello straniero e la devozione del pellegrino. Dove i confini svaniscono c’è il Nirvana, scriveva Hermann Hesse. Viaggiare è il rimedio alla vecchiaia, alla stanchezza, alle delusioni, alla solitudine, a tutto ciò che diviene insopportabilmente troppo uguale. Il viaggiatore deve tuttavia essere disposto ad accogliere le esperienze con stupore meraviglia e non occorre che esse siano eccezionali: può essere un tramonto, una lacrima, l’immagine d’una passante, un sorriso, un sapore nuovo o ritrovato in una bettola, il suono evocatore delle campane… È il viaggiatore che rende eccezionale il viaggio e le proprie impressioni, anche se i luoghi visitati non sono di rara bellezza.
Il viaggiatore ideale è Odisseo, curioso di tutti e di tutto, tanto che, ritornato infine ad Itaca, non saprà resistere alla tentazione di rimettersi in mare. Ulisse insegna che viaggiare è anche un rischio ed è struggersi di nostalgia.
Prima della mia partenza un’amica, vedendomi nello stato d’animo d’Ismaele, mi ricordato alcune pagine di Hermann Hesse del racconto “Il difficile cammino”: si narra di un giovane che per la prima volta lascia la sua dimora. Egli pensa a quanto sta per lasciare e si interroga se valga la pena di partire. Si mette in cammino. A sera – la prima sera della sua vita lontano la casa- si stende sull’erba, la bisaccia sul cuscino, e s’avvede di tutte le stelle che non erano visibili dalla finestra della sua camera, s’avvede che fin allora aveva contemplato soltanto un angolo del tutto. Sa in quel momento che al ritorno sarà più ricco, perché avrà ascoltato altre lingue, assaporato altre pietanze, incontrato altri sorrisi, certamente con un fondo di nostalgia, che è un sentimento di melanconica felicità. Egli potrà raccontare.
Solo io sono sopravvissuto, per raccontarvi la storia, cita infine Ismaele.
Chi viaggia può narrare. Può essere Ismaele.
Si parte per non essere dimenticati, si viaggia per conoscere, si torna per raccontare.

Firenze 3 settembre 1992 su una panchina

L’impressione più viva che mi resta dell’Odissea è Ulisse che siede e racconta: è in viaggio e racconta dei suoi viaggi con la speranza di ottenere una nave per riprendere la via del mare; incanta i suoi ascoltatori ed è a sua volta incantato dalla possibilità di viaggiare ancora e ancora…

L’universo in un paese
Contemplo Firenze da Piazzale Michelangelo, ma non voglio descrivere questo spettacolo, che può essere visto sulle cartoline illustrate, meravigliosa invenzione per coloro che restano a casa e per coloro che le spediscono quale segno tangibile della loro presenza sulla terra, quale desiderio spirituale di condividere le sensazioni del viaggio con chi si desidera vicino.
La visione di Firenze evoca Dante.
Dal Medioevo al Cinquecento Firenza fu l’Europa, la Storia, la Civiltà, eppure le grandi opere dei fiorentini nacquero lontano dalle mura cittadine: la Divina Commedia, la Cappella Sistina, capolavori che hanno in comune la caratteristica di contenere la totalità, l’universalità. Nondimeno i toscani amano il paese, il quartiere, dove nascono rancori e odi che si tramandano di generazione in generazione, attraversando la storia.
Lo spirito della faida è in contrasto con la dolcezza dei colli toscani, con i declivi che invitano alla serenità e alla pacata riflessione. I poggi cingono la città come una rigogliosa corona sulla testa d’una affascinante regina.
Fra questi rilievi si possono trovare tesori nascosti. Salendo oltre Fiesole si incontra sul lato sinistro della strada un muretto che sembra eretto per far riposare il viandante; da quel luogo può essere ammirata una piccola chiesa romanica del secolo XI. Si trova in località “Vaglia”, in contrada “Bivigliano”. Al viaggiatore non resta che entrare ed ammirare un affresco di Andrea Della Robbia (1435-1525) raffigurante la Madonna che tiene nelle braccia Gesù Bambino, attorniata dai quattro Evangelisti. Essi rappresentano il messaggio cristiano verso i quattro punti cardinali. Maria stringe a sé il figlio come madre amorosa, ma lo sguardo del bambino è diretto lontano. Le idee viaggiano.

Firenze (dintorni) 4 settembre 1992

È un teso mattino: continuando a salire si giunge al monastero di Monte Senario, fondato da sette nobili fiorentini che nell’anno del Signore 817 donarono i loro beni materiali ai poveri ed istituirono l’ordine monastico dei Sette Servi di Maria. Dal loggione di pietra si apre la visione della verdissima valle compresa fra il Mugello e Montefalterone, là ove nasce l’Arno. Si comprende che quei sette uomini, che un dipinto moderno raffigura mentre scalano il monte sul quale luminosa appare la Madonna, abbiano dedicato l’ordine a Maria Vergine: ai loro tempi la valle doveva essere uno spettacolo di purezza, splendore e semplicità.

Vienna 5 settembre 1992
Bambole a Vienna
In un vicolo di Vienna mi soffermo dinanzi ad un negozio di bambole. È un tripudio di minuti abiti di velluto, raso, seta, piccoli variopinti capolavori artigianali e la maestria della mano forgiatrice è vantata sull’insegna lignea incisa in caratteri gotici. Le bambole hanno quasi tutte i capelli biondi, solo qualcuna ha la chioma rossa, ma tutte riproducono una carnagione rosea o candida.
Fra mille segni, questo mi appare fra i più evidenti della Finis Austriae, del sogno di uno Stato sopranazionale nel quale più popoli, biondi o bruni, potessero vivere nel rispetto delle reciproche culture. Ai miei popoli iniziava l’Editto con il quale Franz Joseph II dichiarava guerra nel 1914. le bambole nella vetrina oggi sono bionde. Roth, Musil, Kafka erano bruni. Tempo dopo i loro libri bruciavano nei roghi insieme all’Europa in un incubo biondo.
Mentre contemplo le Puppen dagli aurei capelli, vedo riflessi nella vetrina un rabbino ed un giovane studente. Vestiti di nero i loro riflessi passano inconsapevolmente fra le bambole bionde, ombre che passano fra l’ombra di un’Austria che fu, un’Austria non più felix, …ombre…

Vienna 6 settembre 1992
Cartoline
Anche le bambole ritratte sulle cartoline sono candide e bionde. Le cartoline sono un vero culto nella capitale austriaca: raffigurano ogni aspetto della vita cittadina, pietanze, sale da bigliardo, quotidiani, mercati, valzer, Caffè, ristoranti, gente a passeggio..
Nei Caffè la Mitteleuropea è diventata eterna. Joseph Roth ha narrato su uno di questi tavoli la fine di un mondo, Stephan Zweig ha raccontato “Il mondo di ieri”, Egon Schiele ha vissuto il suo delirio ed ora i suoi quadri sono anche immagini per calendari: l’eternità per sfogliare il tempo appeso alla parete.
In una Konditorei vicino al duomo di Santo Stefano un cameriere mi serve un bicchierino di Schnaps ed un fetta di Apfelstrudel: l’uomo ha i baffi alla Franz Joseph o alla Radeztsky. Forse è uscito da una delle pagine di un libro di Roth o di Franz Werfel, affinché potessi scrivere questi appunti. Brindo in solitudine, nessuno siede davanti a me, ma non sono solo, c’è l’Austria dei libri di Roth, Rilke, Musil, c’è l’Austria dei libri. I protagonisti de “La cripta dei cappuccini” brindavano intorno a tavole imbandite intorno alla morte, che attendeva nei campi di battaglia.
Chi tornò non trovò il mondo che aveva lasciato. Non furono più fortunati dei caduti.
Non si può non pensare alla caducità della vita a Vienna, soprattutto se si visita la Cripta dei Cappuccini.
I sarcofaghi della famiglia imperiale sono monumenti, ma non maestosi come le piramidi egiziane o i mausolei romani. In questo luogo non si è indotti a pensare alla grandezza dell’Impero, bensì alla transitorietà terrena. Qui campeggia la parola Silentium.
L’unico sarcofago dinanzi al quale ci si avvede della Grande Storia asburgica è quello di Maria Teresa, la sovrana illuminata.
I nomi segnano il destino: il suo era duplice come l’Imperial Regia Monarchia.

Vienna 7 settembre 1992
La storia a tavola
L’amore dei viennesi è per Elisabetta, per Sissi. La sua immagine guarda i turisti da tutti gli angoli, dalle carte che impacchettano i dolci, dalle cartoline, dai biglietti dei concerti. L’eterno femminino di Sissi ha vinto su Maria Teresa, sulla grande storia.
Le donne ungheresi fecero dono ad Elisabetta di una scultura bronzea raffigurante Maria, un voto d’amore per colei che le amò.
Sissi sorridi oggi dagli angoli della città; un sorriso che vuole essere eterno ed è struggentemente trascorso.
Resto a pensare alla caducità terrena nella sala da pranzo di Hofburg, ancor più che nella Kapuzinengruft.
La tavola è apparecchiata: una candida tovaglia la veste come un abito nuziale, i bicchieri di cristallo splendono, i bianchi piatti sono cinti da un sottile filo d’oro, nel mezzo regnano insalatiera e fruttiera che terminano in alto con l’aquila bicipite sorretta dallo stemma asburgico, la croce bianca in campo rosso. In un angolo tace il grande camino. In tutte le stanze si trovano grandi stufe in piastrelle di porcellana. Gli imperatori provavano freddo. Sentivano freddo i soldati mandati a morire sui campi di battaglia per un mondo già spento, come il grande camino nella sala da pranzo. Per gli altri, per i futuri vincitori ardeva inestinguibile la fiamma dell’indipendenza e della nazionalità.
Le guide turistiche non dicono chi sedeva dalla parte del camino durante i pasti, se il Kaiser o l’imperatrice. Il buongusto suggerisce che un gentleman avrebbe ceduto il posto alla regina. E gli Asburgo erano gentiluomini!
Il tempo è trascorso, i turisti fotografano questo inconsapevole monumento alla transitorietà.
La tavola è pronta: non aspetta nessun commensale.

Un gioiello
Che cos’è una collana chiusa in una vetrina? Che cos’è un vestito che nessuna donna potrà mai indossare? Sono reliquie di vanità trascorse gli abiti e i gioielli nella camera del tesoro di Hofburg. Furono indossati per gli occhi e forse gli sguardi delle turiste immaginano vesti e gioie su di loro.
In una di queste vetrine si può ammirare una scultura lignea raffigurante la morte di Ferdinando III d’Asburgo. L’opera di Daniel Neuberg (1621-1680) rappresenta otto scheletri intorno alla bara.
I nomi segnano il destino: Daniele è il nome di un profeta. Fra abiti e gioielli è l’unica scena di dolore. Anche il pensiero di coloro che indossarono vesti e monili provoca dolore.
Gli scheletri portano via l’impero, le vesti sono spoglie…

8 settembre 1992
A passeggio
Non so se i poeti meritino un monumento: quello dedicato a Goethe nel Burggarten è regale. Il poeta siede su una poltrona che pare essere un treno, le mani poggiate sui braccioli, guardando in basso, ma non sembra interessarsi di quanto accade sotto di sé, non sembra accorgersi del turista che giunge dalla scalinata e si trova sovrastato dall’imponente statua. Grandiosa è anche la figura di Mozart, che ha reso soprannazionale l’Austria più d’ogni Kaiser.
Fra questi marmi vi è anche quello di Franz Joseph II: ritrae un signore in borghese con cilindro e cappello, un signore che cammina nel parco, un po’ pensieroso.
Passeggiava nel parco l’imperatore dopo la morte dell’amata Sissi. Egli le sopravvisse, ma nell’Europa l’imperial regia Monarchia stava morendo. Viennesi e turisti incontrano l’imperatore nel parco. A cosa pensava il Kaiser durante quelle passeggiate? A Karl, che mai sarebbe stato un vero imperatore? Ai primi giorni felici con Sissi? Ai soldati inviati a combattere per un mondo che era alla fine? Forse nelle mattine di primavera o nelle sere d’autunno di quel 1915 e di quel 1916 Franz Joseph distribuiva briciole agli uccellini, come un vecchio signore in pensione.
Chi è imperatore tramonta, come gli imperi, non va in pensione.
Non poteva sopravvivere alla Imperiale Regia Monarchia.
È bene non fermarsi a lungo dinanzi alla statua di Franz Joseph II, ma salutare sottovoce e continuare il cammino…
Non disturbate quel vecchio signore che passeggia…
 


 
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Felice Giudice
 
IL GRECO MIMNERMO
 
In questo meriggio ottobrino,
o antico cantore,
riodo la tua voce
che invoca un imperscrutabile dio
contro il tempo fugace.
Consento ai tuoi scongiuri
con tutta l'anima, perché anch'io,
dimesse le prove diurne,
ho caro trovar la mia amata
che attende dietro l'uscio
e addolcisce ogni pena
col suo tepore,
col suo profumo
e col suo miele.
Nench'io, come te, soffrirei
la perdita dei doni d'Afrodite
e il cruccio e la noia e il silenzio.
Ben è vero, o Mimnermo,
che se tramonta Amore
nel tempo che ci è dato
è già vecchiezza agra, cinerea:
è meglio, a tal punto, che Moira
ci avvolga nel suo manto!
 


 
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Andrea Carbonari
[ nc-carbonan@netcologne.de ]
 
DEL TEMPO CHE IN-FESTA
(del giullare tre tempi)
 
I. ...nel momento...

vedo di quel momento l’aria quando
trafelata corri allegra nel vento
di marzo e l’aspra pienezza io sento
andare e ritornare in quell’onda
di momento ch’eterno in te s’infrange

II. ...dell’istante...

dell’istante che si versa nel mare
dell’oblio io qui nel mio porto
un ‘arca costruisco di memorie
e storie, libri, versi, occhi, amori
incontri lego intreccio fisso ma
non tutto poi si tiene e molto perdo
all’ombra di quell’onda che l’istante
mondi travolge carichi e amarezze
e le incertezze che siam stati prima
vorrei dirgli aspetta portale con te
ma già divampa il fuoco del durante
che cenere riversa al suo passare
dove vano è aspettare un prima e dopo
solo il lugubre lucore dell’istante

III. ...il tempo...

sussurrano
gli interstizi del tempo
nelle voci frante degli specchi
afoni riflessi di echi
perduti
amori mai stati
errori sempre
qui e oltre
ripetuti

(febbraio 2009)