il sangue e la storia 
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Roberto Miele
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PADRE MIO BENEDETTO
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Con Padre mio Benedetto, secondo racconto di una Trilogia, cui già appartiene il precedente Bertramka, si precisa, con non poche difficoltà, e pure in modo quasi ineludibile, il progetto presiedente al percorso letterario di Matilde Tortora. Un progetto difficile da aggettivare, così com’è in agguato sulla soglia delle pagine, prossimo a tradire le più ardite speculazioni, testimone del proprio disincarnarsi, di una stilizzazione semantica dalle cui ceneri poi rinascere, come la Fenice, e così estinguere ogni lettura disaccentata.
Riemergono, dunque, le cose di allora, i motivi di un’opera aperta: le suore (già apparse in L’icona), ‘o Ndrione (e della “cammorriata” c’è traccia nello stesso racconto) e Benedetto Croce (I dintorni scarlatti); riemergono, ma ricomposte, alcune ragioni stilistiche (e si confronti, in merito, la prosa di Pane e lapilli).
Così Padre mio Benedetto si snoda nell’arco di quindici paragrafi geometricamente polittici, a guisa di origami (e occorrerebbe al fine una “manata di colla e semmai anche un bel paio di spillette”), tali da esaudire, ultimata la lettura -ma, a ben vedere, quando finisce la lettura?-, una figura poliedrica in equilibrio sul filo sottile della memoria, nutrice cui l’io narrante si affida, dall’inizio, sviluppando il tema dell’orfanità, alla fine, dichiarando la paternità acquisita di Croce, ispiratore e destinatario del racconto.
Cinquant’anni di storia privata, dal viaggio a Napoli, a seguito della morte del padre (appunto l’estrusiva euritmia biografica), al bancolotto di zia Lucia e zio Guglielmo, al Brefotrofio, alla biblioteca, per curare il carteggio inedito di Benedetto Croce (emblema oltretutto teoretico –laddove si evoca il rapporto storicistico tra autore e opera-), rendendo però sempre minimo lo scarto tra puro dato auto-biografico (nell’ambivalenza dettata dal potere della descrizione connotativa) e memoria, tra storia e letteratura.
Dialettica accordata inoltre di agrodolci corrispondenze: oltre a quella suddetta, la seconda grande corrispondenza verte sul tema del viaggio, da Pagani a Napoli, dalla prevedibile immanenza della storia all’imprevedibile trascendenza della letteratura –ed ecco dunque la specificità del timbro paratestuale, quasi si trattasse di una preghiera votata all’attesa dell’esaudibile-; nonché quelle che potrebbero essere definite corrispondenze funzionali, organizzate sull’esempio dell’analogia e dell’associazione: così, gli scanni del treno/del bancolotto/del traghetto impresso nella fotografia; l’articolo apparso su “il Mattino” e l’impostura del membro arrabbiato; la riggiòla/le mattonelle decorate; la trama del film di Truffaut, che da il titolo al dodicesimo paragrafo, con l’esordio del paragrafo decimo; l’acqua dei fiori e i nomi dei commenti antichi; per annoverarne solo alcune; tutte contenute in quella ipertestuale di questa scrittura dal carteggio inedito di Croce.
Ad imbastire tali corrispondenze intervengono i caratteri tipici dell’oralità, salvo utilizzare il discorso indiretto, comunque marginale, per tutti gli altri personaggi passati in rassegna (si noti a proposito la presenza fantasmatica di Diego); mantenendo quindi uno stile “basso” o umile, se si preferisce –secondo tutti i crismi del monologo interiore, della confessione, da ché si tratta appunto di un carteggio nel carteggio, di una voce dalla voce, di un’eco dedicata al lettore modello- che struttura l’intrigo, lo attraversa e scompagina.
Il tono minimalista dello stile, equivalente letterario di un ingenuo disincanto del tempo, sostiene quasi tutte le riflessioni che attraversano e fanno da collante al racconto -così a pagina 21 “nel bianco opalescente o nell’oscurità della camera cranica si pensa?”, a pagina 31 “E da che cosa mai ci ripara la scrittura…?”-, cui fa da contrappunto qualche squisito adagio -a pagina 50 “o, a volte, in mancanza di altro (non volendo altro) stringerselo al petto un libro e ripeterne le cadenze, fare col nostro petto da cassa di risonanza a pigolii di passeri, scricchiolii di arbusti spezzati, sporcarci le mani e il petto di nerofumo, delle impronte di un inchiostro che fu fresco e sempre da allora serba il ricordo del fresco”; a pagina 51 “non sarà che noi vezzeggiamo solamente le cose che non faremo (e ci sentiamo in colpa di non farle) e le persone, che già abbiamo smesso di amare?”, e poco più avanti “forse anche un libro, proprio come accade nei riguardi di una persona in carne ed ossa, bisogna amarlo, per rivolgergli parole, che non siano né diminutivi, né vezzeggiativi, ma parole intere e che abbiano un proprio capo, un proprio corpo e anche (se è il caso) una propria coda”-, e non è solo un caso la centralità della problematica meta-letteraria di tali riflessioni.
Per quanto concerne il ritmo di questa che potremmo definire una prosa incline alla biologia del senso, bisogna evidenziare la predominante ipotattica della sintassi, in cui la principale è retta e distingue chiaramente le subordinate, tant’è che laddove l’intreccio si infittisce queste vengono contraddistinte con chiarezza da una ripresa anaforica ovvero omeoteleuta, a secondo dei casi, della principale (e la reiterazione pronominale del che relativo -per l’estenuante esordio delle reggenti- e dei personali, nonché del polisindeto –tuttavia trasfigurato-, assolvono a questa funzione di raccordo), salvo poi redimere l’impasse di questa contrattualità sintattica a vantaggio di uno slittamento del valore della principale a quello della subordinata, come in un caleidoscopio (e non turbino -ovvero si chiamino pure in causa Swift e Joyce- gli indizi dunque offerti dagli anagrammi, non solo onomastici, presenti dal secondo paragrafo in poi).
“Padre mio Benedetto” traduce così l’inespresso inficiante qualsiasi dichiarazione di amore. Un riscatto tanto sofferto quanto improvviso, contraddistinto comunque dalla presenza indelebile di quella ferita che sigilla l’opera, a sancirne l’ennesimo patto, l’ennesimo segreto condiviso.