strategie e accerchiamenti della paura 
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Giuseppe Panella
 
IL LIMITE DEL FURORE - 1
genesi e struttura dello psycho-thriller

Parte Prima
 
"Allora -dissi io- l'identificazione dell'intelligenza di colui che ragiona con quella
del suo avversario dipende dall'esattezza con cui l'intelletto di quest'ultimo viene
misurato
".
(Edgar Allan Poe)

"Gli incanti dell'orrore inebriano soltanto i forti".
(Charles Baudelaire)

0) IDENTIFICAZIONE DEL PROBLEMA: L'ORRORE METAFISICO
Le riflessioni che seguiranno hanno il compito (probabilmente possibile solo in parte) di chiarire quali siano le implicazioni filosofiche relative all'universo di discorso che racchiude al suo interno l' "orrore metafisico", ciò che costituisce, quindi, secondo la definizione icastica e brutale di Lezlek Kolakowski, il 'nocciolo duro' della modernità (1). Le definizioni sociologiche e/o psicologiche di questo sentimento così diffuso (e solo apparentemente così banale) non sarebbero comprensibili, se non lateralmente, senza un'analisi che si ponga problemi di ordine concettuale generale. La dimostrazione dell'incidenza dell'orrore a livello di 'immaginario collettivo' sarà affidata, infatti, alla ricostruzione della genesi di un genere para-letterario (lo psycho-thriller) che, a mio avviso, rimarrebbe incomprensibile senza una dimostrazione della sua importanza a livello di antropologia filosofica. In sostanza, quello che mi preme verificare è la 'sostanza' teorica delle figurazioni letterarie che compaiono nelle finzioni romanzesche che a quel filone appartengono. Sul sentimento della paura e la sua stratificazione di senso (nelle diverse discipline possibili ed ibridantisi -psicologia, psicoanalisi, sociologia, filosofia, critica letteraria), la bibliografia è talmente vasta che mi sembra giusto dichiarare, fin dall'inizio, la mia incapacità personale a padroneggiarla compiutamente(2); quello che mi interessa, invece, non è tanto redarre una rassegna degli studi sull'argomento quanto mostrare come da premesse di natura filosofica si possa discendere, per li rami, a rendere conto della nascita di un nuovo codice letterario il quale, senza una conoscenza specifica di tali connessioni tra natura e teoria, tra cultura ed emozioni, risulterebbe altrimenti inspiegabile (soprattutto per quanto concerne la fortuna che ha incontrato e che continua ad incontrare). Non saprei ritrovare un punto di partenza più significativo per l'esplorazione del territorio rappresentato dalla paura di una petite phrase riportata da P. J. Buchez e P. C. Roux nella loro Histoire parlamentare della Révolution francaise del 1837 e riferita ad una conversazione (verificatasi vent'anni dopo la caduta di Robespierre) tra l'ex-termidoriano Vadiez ed il suo compagno d'esilio Cambon. La dichiarazione di chi era stato (come tanti altri parlamentari della Costituente) nel mirino del Terrore robesperriano, suona: Le danger de perdre la tête donna de l'imagination (la si può ritrovare, con volenterosa erudizione, nel tomo XXIV, p. 59, di quell'opera ponderosa e polverosa). La dichiarazione di Vadiez mi sembra tanto più significativa in quanto mette in rapporto due aspetti fondamentali della teorizzazione intorno alla "passione della paura" così come la si può rilevare nelle opere di antropologia filosofica redatte all'epoca della secolarizzazione dispiegata, nel momento in cui, di conseguenza, il pensiero rifletteva le ansie e le difficoltà di un assestamento teorico della razionalità. I due movimenti che si intrecciano, quasi un passo di danza, nella frase precedentemente citata, sono quelli relativi al pericolo ed all'immaginazione, entrambi momenti fondamentali nel campo metaforico della paura; il primo perché ne costituisce il livello genetico e la dimensione storica, il secondo perché rappresenta il tramite mediante il quale, a mio avviso, la paura come sentimento si rovescia in affetto e, di conseguenza, in una struttura ontologica costitutiva della cosiddetta "natura umana". I tre autori che ho scelto quali poli intorno ai quali far ruotare la mia ricostruzione di natura antropologico-filosofica sono, a mio avviso, oltre che i padri fondatori della filosofia della Modernità, tre momenti di livello altissimo nella costruzione di una teoria della soggettività che tenga conto delle passioni come momenti irrinunciabili del loro contesto. Inoltre, nel loro pensiero, il riporto emozionale (e descrittivo) si appoggia ad uno schema concettuale (ed analitico) che tiene conto dell'importanza della paura come forma filosofica di una teorizzazione etica che voglia proporsi come tale in un ambito forte di proposta teorica positiva. Il primo, erede della Scolastica tomistica e, contemporaneamente, della riflessione intorno alla nascita della Rivoluzione scientifica, è l'architetto del Cogito, di una teoria, quindi, del pensiero puro e di un Io rigorosamente salvaguardato dal pericolo di ricadere nell'abisso nominalistico del Nulla dalla sua natura di coscienza interiore e di auto-descrizione delle procedure della sua "falsificabilità": Descartes, allora, le cui Passions de l'âme chiudono, non a caso, un lungo percorso che dalla scienza giunge alla sanzione 'scientifica' della sua applicabilità alla natura umana ed alle sue regole di funzionamento (3). Il secondo è il padre della moderna scienza dell'agire politico, della teoria della paura come sostrato originario dello stato umano in natura (come substantia, quindi) e dell'agire degli uomini come "macchine semoventi", in continuo moto ed in continua collisione tra di loro, alla ricerca come sono di un livello sempre più alto di potere e di sempre maggiore sicurezza riguardo alla loro preservazione dalla morte, mossi da un feroce e gelido self-interest che ne garantisca la possibilità di agire in quel mercato concorrenziale che è divenuta la collettività sociale libera, per il momento, dall'atroce verità del bellum omnium contra omnes: Hobbes, la cui teoria dell'uomo e del cittadino si possono riassumere nel modo in cui concitatamente si è voluto fare in precedenza, giustapponendo alla "teoria dell'individualismo possessivo" di Crawford Macpherson l'assunto umanistico che può essere dedotto dalla lettura delle opere storiche di Leo Strauss (4). Il terzo rappresenta "l'anomalia selvaggia" (5), il costruttore delle armoniose arcate che dalle passioni mediate dal corpo degli uomini si innalzano verso il cielo dell'amor Dei intellectualis, il padre di ogni moderna teoria della tolleranza usata contro la filosofia dogmatica e la superstizione
delle religioni rivelate in nome di un sapere libero da ogni condizionamento connesso all'azione combinata della paura e della speranza, quel judìo le cui traslùcidas manos labran en la penumbra los cristales y la tarde que muere es miedo y frio: Spinoza, così come lo descrivono, in versi di perfetta commozione, i sintagmi poetici di Jorge Luis Borges(6). Prima di continuare nello scrutinio delle loro opzioni teoriche, vorrei prima precisare ulteriormente una questione di carattere semantico: la peur di cui sono affetti gli honnêtes hommes cartesiani deriva dal pavor latino, così familiare ai lettori di Sallustio e di Tacito (da cui anche l'italiano paura) e i men and citizens che costituiscono il people hobbesiano soffrono di una fear che è assai diversa dal to be affrighted che i critici del filosofo inglese vorrebbero attribuirgli. Nella seconda edizione del De cive, infatti, Hobbes contrappone il metus al perterri di tacitiana ascrizione, in quanto sostiene che la paura risulta diversa dal terrore per grado e sostanza della soggettività che si contrappone al pericolo: di conseguenza, la paura indica una strategia di comprensione del pericolo e della sua consistenza e, conseguentemente, una contrapposizione, in qualche modo lucida, ad essa; il terrore è, invece, cieco ed indiscriminato, tale, infatti, da togliere capacità di discernimento e di analisi ai soggetti ed è comparabile, mutatis mutandis, all'angoscia ed all'ansia immotivata allo stesso modo in cui lo spavento (Schrecken (7)) può essere assimilato ad una paura razionalmente motivata da un evento imprevisto (8). Spinoza, invece, per continuare la rassegna terminologica già iniziata, si attiene al termine metus (da cui, peraltro, deriva lo spagnolo miedo) e lo usa come esclusiva denotazione della paura così come la analizza nelle pagine della sua Ethica: per il filosofo olandese, infatti, la paura è concetto filosofico, termine astratto e non soltanto categoria psicologica, politicamente instrumentum regni (come aveva appreso dalla lettura di Machiavelli) e non trascrizione pura e semplice di uno stato emotivo fluttuante e vago (come si vedrà, ad es., essere per Cartesio, nella cui teorizzazione la paura ha una funzione, tutto sommato, marginale nel contesto attivo delle passioni umane). La ricostruzione a seguire (che si vorrebbe il più possibile adeguata dal punto di vista storico-filosofico) avrà, allora, il compito (possibile, come si è detto precedentemente, solo a livello di abbozzo o di compendio) di chiarire quali siano le implicazioni antropologiche relative alla nozione -centrale per la comprensione di quanto verrà detto, invece, in seguito - di "orrore metafisico". Il punto di partenza è, quindi, il processo di secolarizzazione conseguente all'attacco all'eredità aristotelica consegnata alla summa enciclopedica del tomismo. Come ha scritto Kolakowski, allora:
"L'attacco all'eredità aristotelica lasciò intatta la distinzione fra i sogni e la realtà. Ciò che a loro premeva era cancellare la distinzione -empiricamente irrealizzabile- tra realtà e irrealtà in un senso metafisico. Senza necessariamente dirlo in così tante parole, essi resero inutile il concetto stesso di esistenza, a meno che esso fosse applicabile a due realtà ultime: Dio e io. E qui si colloca l'orrore metafisico. Svolgiamolo. L'orrore consiste in questo: se nulla esiste veramente tranne l' Assoluto, l'Assoluto è nulla; se nulla esiste veramente tranne me stesso, io sono nulla" (9).
Kolakowski argomenta, in seguito, a favore della sua tesi che sia l' Assoluto (neo-platonicamente inteso da Plotino fino a Damascio e a Spinoza) sia il Cogito (sviluppato e ripreso da Malebranche ed invocato, sotto vesti eidetiche, da Husserl e 'corporeizzato' da Merleau-Ponty) approdano entrambi al Nulla, perché il primo (l' Assoluto) si perde nell'abisso della sua assoluta ineffabilità ed autonomia rispetto a ciò che Assoluto non è, risultando, conseguentemente al suo concetto, incomunicabile ed incomprensibile e perché il secondo, riducendosi alla sua intenzionalità teorica (da un punto di vista fenomenologico) o alla sua dimensione di " corpo vissuto" (in Merleau-Ponty) ritorna ad essere non più il punto di partenza (come nel Cogito cartesiano), ma un punto d'arrivo tra gli altri, sganciato dalla sua irriducibile interiorità ed agganciato, invece, ad una 'falsificabile' fenomenologia della percezione (questo, a mio avviso, si ritrova limpidamente nell'ultimo testo edito in vita da Merleau-Ponty, L 'occhio e lo spirito del 1964 (10))- La tesi di Kolakowski è anch'essa, ovviamente, un'interpretazione e ricade nel regno dell'opinabile; essa si riferisce, in maniera impietosa, soprattutto alle Meditazioni cartesiane (mentre, come si è visto, in certa misura, rivaluta il Discours sul Cogito), ma potrebbe essere ugualmente impiegata con profitto per le riflessioni di Hobbes sulla natura 'originaria' della paura quale sentimento fondamentale per la comprensione delle pulsioni degli uomini o per l'indagine sulle elucubrazioni degli psicopatici narrate nelle opere mediche di Karl Jaspers e nelle ricostruzioni antropoanalitiche di Ludwig Binswanger (un autore quest'ultimo che, per la diretta ascendenza filosofica che la sua opera assume nei confronti di Heidegger, meriterebbe un maggior interesse di quello che oggi ispira(11)).
D'altro canto, come si è detto, una delle più rigorose eccezioni secolarizzate al timor non più Dei, ma del mondo esterno e dei propri simili è presente solo nell'opera di Spinoza ed è costruita (in contrasto con la soluzione "fondazionistica" meditata da Hobbes) non tanto sull'analisi del meccanismo della paura quanto sulla sua commistione con il tema della speranza. Da questo confronto filosofico (metus versus spem), infatti, emerge, a mio avviso, un'idea dell'orrore quale elemento fondamentale per la comprensione del meccanismo che regola le passioni umane ed una delle 'figure' più agghiaccianti nella moderna fenomenologia della storia.

a) Hobbes
In Hobbes, infatti (benché questo non venga enunciato in termini tanto precisi), la paura è praticamente l'unica speranza di salvezza del genere umano in quanto sul suo potere apotropaico riposano la sovranità del Leviatano e la concordia discors della società civile, fondata come è sullo scontro incessante delle volontà in movimento e sulla loro continua ricerca di qualcosa che le appaghi. Negli Elements of Law Natural and Politic del 1640 (pubblicata, tuttavia, solo nel 1650, nella classica suddivisione in Human Nature e De corpore politico,), il filosofo inglese affermava:
"Questo movimento, in cui consiste il piacere o il dolore, è anche una sollecitazione o provocazione, o ad avvicinarsi alla cosa che piace, o a ritrarsi dalla cosa che dispiace. E questa sollecitazione è il conato o inizio interno del moto animale, che, quando l'oggetto piace, si chiama appetito; quando dispiace, si chiama avversione, se riferito ad una ripugnanza presente; ma riferito ad una ripugnanza attesa, si dice timore. Cosicché piacere, amore e appetito, che si chiama anche desiderio, sono diversi nomi per diverse considerazioni della medesima cosa" (12).
Ne consegue che lo stimolo al bene o al male (ciò che piace o non piace in relazione alla differenza costitutiva degli esseri umani) è sempre lo stesso così come simili sono gli uomini nel rimanere attaccati a quello che considerano il loro buon diritto. Sempre Hobbes nella stessa opera (13):
"Ma il fatto che tutti gli uomini abbiano diritto a tutte le cose, in effetti, non è una situazione migliore di quella che si avrebbe se nessun uomo avesse diritto ad alcuna cosa. Infatti un uomo può usare e beneficiare ben poco di un suo diritto, quanto un altro altrettanto forte, o più forte di lui, abbia anch'egli diritto alla medesima cosa".
[***]
"Poiché lo stato di ostilità e di guerra è tale, che per esso la natura stessa viene distrutta, e gli uomini si uccidono l'un l'altro [...]; colui quindi che desidera vivere in uno stato come quello della libertà e del diritto di tutti a tutto si contraddice".
Lo stato migliore per l'uomo è, ovviamente, quello che Hobbes definisce pace e che fa nascere da una condizione di sottomissione volontaria ad un unico potere assoluto, perché, come continuerà nel Leviathan (1651):
"Tutte le conseguenze perciò di un periodo di guerra, in cui ogni uomo è nemico di un altro, sono anche le conseguenze del tempo, in cui gli uomini vivono senz'altra sicurezza, se non quella, che dà loro la propria forza o la propria sagacia" (14).
Per questo motivo, dunque, bisogna rassegnarsi ad una continua condizione di paura e terrore reciproci conseguenti allo stato di guerra onnipresente tra esseri simili, nel quale, aggiunge Hobbes:
"quel ch'è peggio di tutto, domina un continuo timore ed il pericolo di una morte violenta; e la vita dell'uomo è solitaria, povera, lurida, brutale e corta" (15).
Brutale e corta significa dominata dall'orrore; orrore fisico, da un lato, orrore metafisico, dall'altro. Paura della morte, in primo luogo, e paura del futuro, successivamente, visto che la natura umana, come tale, non può mai essere diversa da come è e l'obiettivo principale resterà sempre, per ognuno, quello di rimanere in vita. Ma mantenersi in vita, come egli stesso aveva precedentemente osservato (16), significa essere soggetto a passioni:
"Infatti, come il non avere nessun desiderio è la morte, così avere passioni deboli è la stolidità, ed avere passioni indifferentemente per ogni cosa è la storditaggine e la distrazione, ed avere per una qualche cosa passioni più forti e più veementi di quelle, che ordinariamente si notano negli altri, è quello, che gli uomini chiamano pazzia. Di essa vi sono quasi tante specie, quanto quelle delle passioni stesse".
La ragione, dunque, non è altro che un grado meno forte della follia, dato che in essa si è sempre ad un passo dallo scivolare, quando l'equilibrio degli umori è sottoposto a sforzo fisiologico o a pressione meteorologica; le passioni dominano incontrastate tra gli uomini e la loro forza sempre presente garantisce della loro stessa sopravvivenza fisica.

b) Descartes con Spinoza
Come è noto, invece, Descartes non attribuisce una simile importanza alla "passione della paura". Riferendosi ad essa come ad una filiazione della meraviglia (la prima delle sei passioni fondamentali, e cioè meraviglia, amore, odio, desiderio, tristezza e gioia), inserisce nell'aspetto di incertezza che il timore del futuro necessariamente inerisce una dimensione di stupore, di gioia mista a trepidazione, in questo molto simile ad una sorta di propensione per l'avventura, per l'apertura, cioè, verso nuovi 'mondi vitali':
" Art. 176. Sulla funzione della paura. Quanto alla paura o allo spavento, non trovo che si possa mai parlare di aspetti utili e lodevoli; ma qui non si tratta di una passione particolare, bensì di un eccesso di vita, stupore e timore, che è sempre vizioso; [...] e poiché la principale causa della paura è la sorpresa, il mezzo migliore per liberarsene è di riflettere alle cose in anticipo, preparandosi a tutti gli eventi il timore dei quali può suscitarla" (17).
Nell'art. 174 (che tratta della "viltà e della paura"), allo stesso modo di Hobbes nel De corpore, aveva attribuito "la paura o lo spavento, che è il contrario dell'ardimento" ad "un senso di freddo", ma aveva aggiunto che non si trattava soltanto di questo, ma "di turbamento e uno sconvolgimento dell'anima per cui essa è privata del potere di resistere ai mali che suppone prossimi". Descartes collega, in questo modo, le ragioni fisiologiche della peur (il freddo) ad un'incertezza riguardo alla propria sorte da parte di chi prova paura, leggendo unidirezionalmente la paura come spavento e privandola di quell'aspetto spettrale, catastrofico, quasi da incubo notturno che, invece, caratterizzava rimpianto hobbesiano. In tal modo, l'angoscia (elemento fluttuante e volatile, non collegato a nessuna determinazione precisa, oscillante tra l'ansia e la nevrosi) si dissolve nell'elemento della sorpresa ed attenua il terrore immotivato che, invece, dall'attesa di eventi e di fatti improvvisi e sorprendenti potrebbe giustificatamente nascere. In polemica con Descartes, ma riprendendone sostanzialmente il legato semantico (18), Spinoza proporrà, invece, nell' Ethica ordine geometrico demonstrata (pubblicata postuma nel 1677), una prospettiva del sentimento della paura vista simmetricamente in connessione con l'afflato della speranza. Nella Parte Terza della sua grande opera dedicata all'analisi del movimento che va dal corpo all'amor Dei intellectualis, egli parte dal presupposto che la maggior parte di coloro che hanno scritto sugli affetti umani li abbiano trattati non come parte della natura (cui tutti gli uomini partecipano), ma come elementi estranei ad essa. Di costoro egli dice, con frase divenuta celebre, che "sembra anzi che concepiscano l'uomo nella natura come uno Stato nello Stato, perché credono che l'uomo turbi, piuttosto che seguire, l'ordine della natura, che abbia una assoluta potenza sulle proprie azioni, e non sia determinato da niente altro che da se medesimo" (19). Dalla naturalità degli effetti egli deduce la corporeità di essi e pone l'elemento della auto-conservazione dei corpi come fondamentale per lo studio delle passioni che lo attraversano (nella Parte Terza, proposizione 10 dell'Ethica, infatti, si può leggere che "un'idea che esclude resistenza del nostro corpo non si può dare nella nostra mente, ma è ad essa contraria" (20)). Per questo motivo, corpo e mente convertuntur e "la prima cosa che costituisce l'essenza della mente è l'idea del corpo esistente in atto" (21).
Da ciò scaturisce l'effettiva presenza e realtà degli affetti o passioni e l'importanza di essi per il progresso della mente, ovverossia della conoscenza che essa determina. Da ciò si può dedurre anche l'importanza dell'immaginazione che è virtus che attiene specificamente alle affezioni corporee (è, cioè, conoscenza ancora imperfetta e non costante). Paura e speranza mantengono tale carattere di imprecisione teorica e, in questo contesto, vanno considerate:
"La speranza è letizia incostante, sorta dall'idea di una cosa futura o passata, del cui evento in una certa misura dubitiamo" (Parte Terza, alla proposizione 12).
"Il timore è tristezza incostante, sorta dall'idea di una cosa futura o passata, del cui evento in un certa misura dubitiamo" (Parte Terza, alla proposizione 13).
E nello scolio relativo a questa proposizione, continua:
"Da queste definizioni segue, che non si dà speranza senza timore e che non si dà timore senza speranza. Chi invero è sospeso alla speranza e dubita dell'evento di una cosa, si suppone che immagini qualcosa che esclude resistenza della cosa futura; e che perciò si rattristi [...], e di conseguenza, che mentre è sospeso alla speranza, abbia timore che la cosa non avvenga. Chi invece è intimorito, cioè dubita dell'evento della cosa che odia, immagina anch'egli qualcosa che esclude resistenza di essa; e perciò [...] si allieta, e quindi ha la speranza che la cosa non avvenga" (22).
Entrambi questi affetti, dunque, non possent esse per se boni perché sono ambedue condizionati da un'indecisione, da un'attesa, da una sospensione del giudizio che blocca il processo del potenziamento del sé, lasciando gli uomini in balìa di un'angoscia cui sanno reagire soltanto passivamente. Come ha scritto Remo Bodei:
"Spinoza combatte su due fronti. Da un lato, si rivolge contro i fautori dell'assolutismo monarchico e della ragion di Stato: Hobbes, che pone la convivenza tra gli uomini sotto il segno di una ragione che nasce dalla paura della morte e che non recide affatto il cordone ombelicale che la lega alla sua origine; [...] Dall'altro lato, polemizza contro gli apostoli della speranza terrena e i predicatori della beatitudine celeste, quanti cioè immaginano gli uomini diversi da quello che sono.. ." (23).
In Descartes, in Hobbes ed in Spinoza, allora, con accenti diversi e con motivazioni sicuramente divergenti (nella modalità d'uso delle passioni che ho provato a ricostruire), pulsa il cuore nuovo di una teoria della secolarizzazione che allude al Moderno che sorgerà, sicuramente, anche per merito della loro proposta di pensiero. Ma in esso, come si è visto, la paura ha un posto preminente e solo dalla sua esorcizzazione antropologica potrà configurarsi una teoria della natura umana (come storia e come psicologia delle passioni fondamentali) che sia in grado di fronteggiare quell'orrore metafisico che sembra essere, fin dalla scoperta del Cogito cartesiano, il suo destino ineludibile. Il confronto con quest'ultimo, allora, si rivela uno strumento ermeneutico indispensabile per comprendere 'quale metodo' si nasconda 'nella sua follia' e se vi siano 'cose sulla terra' in grado di farne comprendere, teoricamente, il percorso e sconfiggerne gli effetti perversi. Il mio tentativo di analisi dello psycho-triller nasce dalle premesse filosofiche finora esposte; il campione che ho raccolto nel corso della mia ricerca mi ha condotto a privilegiare due autori (tra gli ormai innumerevoli) di romanzi che rientrano in questo filone e che, a mio avviso, ne costituiscono due momenti di non-ritorno: Thomas Harris e James Ellroy. Come si potrà vedere più dettagliatamente in seguito, il primo privilegia l'aspetto psicologico e deduttivo del problema, il secondo, invece, indirizzando il proprio 'delirio narrativo' nella direzione del cosiddetto police procedural, esplora in profondità l'abisso della follia e delle psicopatologie con l'ausilio di elementi d'indagine dedotti, in massima parte, dall'armamentario della medicina e della psichiatria legali, fondendo insieme gli aspetti patologici ed investigativi delle vicende poliziesche di cui è l'allucinato e coinvolgente narratore. Se Harris descrive personaggi e situazioni in modo apparentemente freddo e distaccato, Ellroy, invece, racconta sempre la stessa storia nelle sue varianti infinite: la lotta tra follia e ragione in un ambito narrativo in cui non si sa mai dove il delirio finisca e subentri, al suo posto, l'analisi delle cause che lo hanno condotto ad assumere un ruolo così importante nell'ambito delle vicende descritte. Harris interpreta ciò che, invece, Ellroy sembra rivivere ogni volta come esperienza personale.

NOTE
(1) Cfr. Lezlek Kolakowski, Orrore metafisico, trad. it. di B. Morcavallo, Il Mulino, Bologna 1990.
(2) Mi sembra doveroso dichiarare, fin dall'inizio, il mio debito nei confronti dei saggi di Remo Bodei, Geometria