la superficie e il gorgo 
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Mario Amato
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LA PRIGIONE DI EURIDICE
 
La prigione di Euridice

Erano tempi remoti. Erano alti monti, ove eternamente regnavano gelo e silenzio. Ed erano nevi perenni e scuri abissi.
Pochi pastori vivevano fra quelle alture con mandrie e greggi.
Fra essi uno v'era, uno soltanto, che s'avventurava fra le cime prossime al cielo. Ed era un cuor lieto: cantava e suonava e discorreva - e le sue parole erano note- con stelle e pianeti, sole e luna, con i fili d'erba e i rari fiori.
Gli altri pianeti non incontravano spesso quella giovane anima, ma il vento portava a volte l'eco dolcissima dei suoi canti, le note soavi del suo piffero, l'armonia beata dei suoi versi.
Anche a notte fonda, talvolta, mentre gli uomini sedevano vicino ai caminetti crepitanti della legna accesa o giacevano fra i grembi muliebri, i componimenti del giovane si diffondevano da lontani anfratti, impervi scoscendimenti, sperduti valloni. E quand'anche si era nel gelido inverno provavano tutti, forse pure gli armenti, quell'indicibile intima gioia che scorre negli esseri umani alla vigilia delle stagioni primaverili.
Accadde tuttavia che più non s'udirono canti e musiche.
I pastori erano afflitti che il giovine potesse esser precipitato in un burrone. Da valle a valle si chiamavano: l'uno gridava "l'avete visto?", l'altro rispondeva "l'avete udito?". Nessuno osava scalare i monti fin lassù per intraprendere la ricerca; ed a qualche temerario che manifestò questa nobile intenzione furono di impedimento le rimostranze della consorte o dei parenti più stretti.
Noi invece ci infondiamo coraggio e saliamo, su con timore e apprensione, ma pure con curiosità.
Al pastorello era accaduta la più comune delle venture della giovinezza: si era innamorato. In quelle elevate solitudini aveva incontrato una fanciulla. Anch'ella aveva udito le note e i canti ed aveva seguito le tracce sonore che restavano nell'aria, si nascondevano fra le rocce, scendevano negli strapiombi e risalivano ora da questo ora da quel luogo. E se credessimo alle leggende dovremmo indovinare che i fiori chinati le indicarono la via da seguire.
Non immediatamente ella si era mostrata al ragazzo. Per giorni e giorni gli era stata vicino e lo aveva ascoltato.
Noi non sappiamo da dove provenisse la fanciulla, né perché abitasse quelle altezze, tuttavia le fiabe non hanno necessità di spiegazioni e possiamo affermare, senza tema di smentita, che il cielo ha il colore dei suoi occhi e le nubi sono lievi come i suoi sguardi.
Allorché i due abitanti delle tacite vette s'incontrarono nei dintorni del firmamento, l'amore sbocciò rigoglioso.
La loro acerba età tuttavia non permetteva di comprendere pienamente gli sconcerti del cuore e dei sensi, che si schiudevano castamente in taciti sguardi, colmi di timide vaghe promesse, e in un raro sfiorarsi delle mani e ritrarle tremanti di felicità e turbamento. Nondimeno egli smise canti e musiche, ma nessuno all'infuori della fanciulla poteva udire quelle melodie, ché solo a lei erano serbate.
Neanche noi, per decoro, abbiamo origliato.
Avvenne un giorno che i pastori giù a valle udirono l'eco antico. Essa non era più annunzio gioioso, non più dolce ninna nanna della sera, ma era un cupo canto di morte, una funebre nenia, una tetra litania e penetrava nelle capanne, inquietava i cuori, rendeva doppia la fatica, accresceva il tedio. Perfino le greggi lacrimavano. Non c'era ora del giorno e della notte durante cui quel suono avesse compimento. Quanti fra i pastori avrebbero voluto cercare il giovane per supplicarlo di cessare il suo pianto! Ma era impossibile raggiungerlo e quel lamento faceva più paurose le notti ed il cammino. L'eco saliva da ogni sasso, da ogni stella.
È usanza antica fra i pastori narrare vecchie storie, allorché s'incontrano dopo mesi di solitudine e siedono intorno ad un fuoco acceso. Questa storia tuttavia essi non la conobbero.
I due giovani camminavano felici, il ragazzo innanzi e la fanciulla seguendo i suoi esperti passi, costeggiavano dirupi, guardando ora le verdi valli sottostanti ora il cielo sterminato. Ella mise un piede nel vuoto e sprofondò in oscuro strapiombo. Il giovane continuò per lungo tratto ancora il malagevole cammino, cantando e componendo versi e meditando le parole ed il momento per dichiarare tutto l'amore che sgorgava dall'animo suo. Si vietava altresì di volgere i pur cupidi occhi, sceglieva e tralasciava immediatamente i termini, il modo e il tempo, si figurava l'amata, si fermava consapevole che il suo passo era troppo lesto, smetteva il canto e la musica, ascoltava il lieve profumato alito ora vicino ora lontano della compagna. Il desiderio cresceva senza misura, di respiro in respiro, di passo in passo, ed i passi erano silenti sulla recente neve. Più lunga l'attesa, più piena la felicità. Guardò le stelle amiche per invocarle, ma esse, in luogo di pulsare felici, tremavano di dolore. Inquieto si volse.
Noi non possiamo descrivere quali voragini si dilatarono in quel tenero spirito! Cercò con gli occhi verso il tragitto appena percorso, poi disperato tornò indietro. Pensava, ma era una speranza, che la fanciulla si fosse fermata a riposare e s'incolpava della propria fretta; non trovandola, da una parte aumentava l'angoscia, dall'altra la lusinga.
Molte volte lo sguardo si volse verso i dirupi. Forse fu la speranza di ritrovare la giovane, forse fu la mano di un novelliere pietoso a fermare il folle gesto.
Il pastorello trovò alfine la neve smossa e vide le orme della tragedia da breve occorsa. Piangeva e le lacrime piovevano copiose sulla fanciulla caduta sul soffice niveo manto senza la minima scalfittura. E le gocce della disperazione formarono una bara di ghiaccio per il suo perduto amore.
Non si piegò al destino: a rischio della vita si calò nel baratro traditore, trovò la pastorella, tentò d'infrangere la mortale prigione. Vanamente!
Si scavò o forse trovò una grotta là accanto e così trascorsero anni ed anni. Ogni giorno ed ogni notte contemplava la donna prigioniera e si disperava delle sue ree lacrime. Lo zufolo, orami obliato, cadde ai piedi della giovinetta ed il ghiaccio lo coprì. Il silenzio delle cime innevate scese nel cuore del giovane ed egli tacque.
La bellezza di lei raddoppiava ogni giorno e ogni notte, ma nel cristallino sepolcro l'uomo poteva scorgere orribili solchi scavare il proprio volto ed i capelli farsi color della neve, la figura curvarsi sotto il gravame degli anni. Solo gli occhi, benché umidi, restavano giovani d'amore.
L'eco che i pastori udivano a basso era il terrifico stridio delle unghie del disperso che, senza posa, grattava il ghiaccio nella speranza di liberare la prigioniera dal sarcofago scolpito dal dolore.
L'eco salì fino all'Angelo della morte ed egli pietoso spiegò le nere ali e discese ad avvolgere il pastore.
Questi tuttavia pregò l'Angelo di concedere di poter sfiorare, almeno una volta, le labbra dell'amata e di poterle confessare le parole rimaste sepolte nel cuore.
Quale narratore potrebbe resistere!
L'angelo nero, che mai aveva indugiato nei suoi compiti, contemplò l'urna e lesse i versi d'amore che il pastore aveva inciso con mani sanguinanti. Una lacrima scese, forse, sul viso del messaggero e così parlò "Ti concedo tante vite finché..." e sussurrò le ultime parole nell'orecchio dell'innamorato e nel silenzio infinito.
Visse il pastore, poiché gli angeli non mentono, consumò innumerevoli esistenze, percorse vie fino a monti sconosciuti, si sporse da perigliosi dirupi, guardò un luccichio nel fondo nero, contemplò nelle botteghe sfere di vetro ove neve cadeva; forse egli vaga ancora per il mondo, segnato dalla struggente nostalgia, dall'invitto desiderio dell'ora promessa.
Ed io che racconto questa storia, già da altri narrata in altri tempi e in altri modi, sono segnato dal desiderio che il pastore e la giovane s'incontrino in qualche vita e che ella, infine, decifri tutti i versi incisi sulla bara di lacrime.
Allora si ameranno...