identità e imperfezione 
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Sandro Pizzutelli
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IL DUPLICE ELEFANTINO
 
C'era una volta una cicogna sfaticata.
Era talmente pigra che un giorno invece di fare due consegne a due aspiranti mamme-elefantesse, ne fece una sola. Fu così che nacque un elefantino doppio: aveva due nasi o meglio due proboscidi.
Anche se con questa diversità, la sua mamma lo curò amorevolmente per cui, almeno da piccolo, crebbe tranquillo e felice.
Anzi, era avvantaggiato rispetto agli altri: poteva fare il bagno e nel contempo dissetarsi; poteva spruzzarsi di polvere contemporaneamente sia sul fianco destro che sul sinistro e quando giocava con i suoi compagni era sempre vincitore perché aveva "due mani" con cui afferrarli e sconfiggerli.
Ma ad un certo punto le due mani cominciarono a pesargli. I suoi coetanei iniziarono a prenderlo in giro e, quando nessuna elefantina lo volle come suo compagno d’amore, si rese effettivamente conto di essere un diverso e di essere per questo rifiutato.
Fu così che poco alla volta si chiuse sempre di più in se stesso: non si accettava, ma soprattutto. rifiutava gli altri.
Iniziò quindi a vivere una vita da solitario. Nella savana vasta e sconfinata lui batteva le piste che non erano frequentate dagli altri della sua specie, si cibava di piante che non sempre gli erano congeniali. e giorno dopo giorno dimagrì sempre più, fino a diventare solo ossa e proboscidi.
Era veramente infelice.
Perfino gli uccellini che prima avevano scelto il suo corpo come territorio di caccia, da cui prendere insetti iniziarono a trascurarlo perché, vista la sua magrezza, neanche gli insetti avevano di che cibarsi da lui.
Arrivò quasi al punto di decidersi a lasciarsi morire.
Un giorno, mentre ormai stanco e deluso si trascinava pigramente verso una sorgente d'acqua, incappò in un cacciatore che, invece di. ucciderlo, lo catturò e lo portò via con sé. L'elefantino si sentì definitivamente solo e infelice.
Accettò, però, il cibo che gli veniva offerto dal cacciatore e, un po’ alla volta, prese ad affezionarglisi perché almeno qualcuno, dopo la sua mamma, si prendeva cura di lui.
Le sue disgrazie non erano però ancora finite.
Dopo che si fu un po’ ristabilito, anche il cacciatore si disfò di lui caricandolo su un grande aereo e spedendolo in una terra a lui sconosciuta.
L'elefantino si ritrovò così, senza averne alcuna colpa, rinchiuso fra le mura di una grande gabbia: aveva due inservienti che si curavano di lui, una mangiatoia sempre piena di ottimo cibo ed una enorme piscina ricolma di acqua pulita dove poter fare continuamente il bagno. Ormai poteva essere considerato un principe-elefantino: aveva tutti i beni e le comodità di questa terra.
Lui però si sentiva ancora più triste e solo.
Aveva un regno di cui era padrone e signore, aveva anche degli schiavi, ma era il principe del nulla: era un principe prigioniero.
Gli mancavano tanto le distese enormi della savana, i barriti in lontananza dei suoi simili, perfino i pericoli di quella vita selvaggia ed aspra.
Capì fino in fondo la vera cosa che gli mancasse: la libertà di essere completamente se stesso.
Fu così che decise di fuggire.
Iniziò a spingere sempre più tutta la sua forza fisica verso un lato della vasca che gli sembrava più debole; utilizzò ambedue la proboscidi, con le zanne scardinò profondamente il malto che era tra le pietre della piscina e finalmente un giorno riuscì a sfondare il muro.
Si sentì per la prima volta veramente vittorioso.
Ma accadde un fatto imprevisto.
La massa d’acqua: che si dipartì dalla piscina verso la .fessura che aveva procurato, prese una forza tale che inondò tutti i dintorni e si riversò sempre più forte verso un gruppo di persone che visitava lo zoo.
Poi il vortice dell'acqua catturò un fanciullo e lo sommerse completamente.
L'elefantino non ebbe un attimo di incertezza.
Abbandonò immediatamente il suo sogno di libertà e tornò sui suoi passi; afferrò per la vita il bambino e cercò di sollevarlo ma il piccolo era rimasto incastrato fra le pietre.
Allora continuò a tenerlo in alto con il corpo e contemporaneamente utilizzò la sua seconda proboscide per aspirare l'acqua che si era ristagnata e gettarla lontano. Fu così che riuscì a non far affogare il bimbo.
In ultimo, utilizzando ambedue le proboscidi, riuscì a metterlo definitivamente in salvo sul suo collo, proprio dietro le orecchie.
Il bambino piangeva, ma piangeva di felicità e così come lui tutti i parenti che erano finalmente venuti a soccorrerlo.
Le gesta dell'elefantino superarono i muri dello zoo, di tutta la città e dell'intero paese.
Bambini di ogni dove si recarono da lui sempre più numerosi portandogli fieni ricercati, noccioline e quanto più di buono potesse gradire.
Tutti gli mostrarono riconoscenza, gratitudine ed affetto. Anzi, lo elessero miglior compagno dei loro giochi. Lui era sempre attento a non ferire nessuno e sempre pronto a schizzare a sorpresa acqua su tutti.
Aveva finalmente ritrovato se stesso, la voglia di vivere e la libertà: sì, la libertà di poter dare agli altri quanto di più bello avesse in sé.