mo(n)do solare mo(n)do notturno 
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Giuseppe Panella
 
LE ROVINE DEL SILENZIO - 2

Parte Seconda
 
3. La "censura "di Baudelaire
È opportuno, a questo punto, chiarire perché la settima delle incisioni che compongono la raccolta delle Carceri rivesta tanta importanza nella "fortuna" romantica di Piranesi. Nella sezione dedicata a Le pene dell'oppio nelle Confessioni di un oppiomane di Thomas De Quincey, viene narrato un aneddoto relativo a Coleridge e riguardante Piranesi:
"Molti anni fa, mentre guardavo le Antichità di Roma del Piranesi, il Coleridge, che mi era accanto, mi descrisse una serie di tavole di quell'artista, chiamate Sogni, che rappresentano le visioni da lui avute nel delirio della febbre. Alcune di esse (descrivo a memoria secondo il racconto di Coleridge) mostrano delle vaste sale gotiche: sul pavimento si vede ogni sorta di congegni e macchinari, ruote, cavi, pulegge, leve, catapulte ecc., che danno l'idea di una enorme forza impiegata per vincere una resistenza. Si vede una scala che corre lungo i muri, e su di essa sale faticosamente, a tentoni, lo stesso Piranesi: seguite la scala un po' più in su e vedrete che termina improvvisamente, senza un parapetto, in modo che chi ne abbia raggiunto l'estremità, con un altro passo non può che precipitare giù nel vuoto. Qualunque sia la fine del povero Piranesi, voi pensate che almeno le sue fatiche debbano in qualche modo finir qui: ma alzate gli occhi, e vedrete una seconda scala [...] Alzate di nuovo gli occhi e vedrete un'altra rampa di scale ancora più aeree: e di nuovo il povero Piranesi si affatica nella sua penosa salita: e sempre così, finché le scale interrotte e il Piranesi si perdono entrambi lassù nel buio della sala" (36).
Le visioni che appaiono, lucide ed inquietanti, nei sogni di De Quincey in preda alle allucinazioni da oppio sono, infatti, simili alle costruzioni di Piranesi: città, palazzi, scaloni, riprodotti infinite volte e sviluppantisi a perdita d'occhio in un susseguirsi senza tregua di "un mare di edifici" (37). L'architettura delle sconcertanti apparizioni che popolano il sonno inquieto dell'oppium-eater è impossibile e impalpabile come la materia dei sogni; eppure, nelle acqueforti dell'artista veneto, essa si materializza e trova forza e vigore nella sua natura di incubo vissuto in prima persona (non c'è traccia della figura di Piranesi, infatti, nelle Carceri d'invenzione, ma solo vaghe ombre, silhouettes, coni di luce che lasciano intravvedere l'esistenza di larve che potrebbero popolare quei luoghi fatti esclusivamente per essere vagheggianti durante l'abbandono al sonno; eppure, ognuna di esse sembra la proiezione di un luogo reale e concretamente situato nella realtà). Il racconto di De Quincey, per la sua natura fantastica e, contemporaneamente, autobiografica ebbe una diffusione straordinaria nella cultura anglosassone (ed è grazie al suo aneddoto che il nome di Piranesi è consegnato a Poe, ad Hawthorne ed a Melville, come si è visto (38) ).
Nella cultura francese, le Confessioni di un oppiomane godettero della traduzione che Baudelaire ne fece nei suoi Paradisi artificiali (1851). Ma se si va a cercare la versione che il poeta diede di questo singolare aneddoto di De Quincey, la ricerca risulta vana: risultano tradotte le parti immediatamente precedenti e quelle successive e manca proprio la storia che vede protagonisti Coleridge e Piranesi. AI suo posto, si trova, invece:
"Strane e mostruose architetture si drizzavano nel suo cervello, simili alle mutevoli costruzioni che l'occhio del poeta scorge nelle nuvole colorate dal sole al tramonto. Presto, a quei sogni di terrazze, di torri, di fortificazioni ascendenti verso altezze sconosciute, perdute nelle immense profondità, successero i laghi, le vaste distese d'acqua" (39).
Baudelarie riassume ciò che De Quincey ha scritto (come ha fatto nel corso di tutta la sua versione francese, concentrando, riducendo, tagliando), ma è pur sempre singolare che non faccia alcuna menzione di Piranesi (40).
Viene spontaneo chiedersene il perché e le risposte finora date (ad es., quelle di Focillon o di Keller (41) ) non sono particolarmente confortanti.
Una notevole proposta interpretativa è contenuta in un saggio di Arden Reed dedicato alla ermeneutica delle filiazioni letterarie ("Abysmal Influence: Baudelaire, Coleridge, De Quincey, Piranesi, Wordworth"(42) ): Baudelaire non avrebbe conservato il nome di Piranesi perché sarebbe stato spontaneo per i lettori accorgersi che le indicazioni di De Quincey andavano in quella direzione e che la descrizione delle allucinazioni dell' "oppiomane" è fin troppo piranesiana. Inoltre, la frequenza delle citazioni implicite nell'opera poetica è tale da poter considerare le acqueforti dell'artista di Conegliano uno dei motivi ispiratori "forti" delle Fleurs du Mal tanto da non renderne necessaria l'esplicitazione. A mio parere, la direzione è giusta, anche se Reed non tiene conto del fatto che tutti i luoghi in cui si trovano allusioni a Piranesi sono "notturni" ed in relazione ad una verifica soggettiva della visione. Il décor, in sostanza, è piranesiano quando la soggettività che si vuole rendere è tormentata, contorta, angosciata. Manca il senso delle rovine "oggettive" del passato remoto e storico e, di conseguenza, il lato solare che appare nelle visioni di Roma antica, ad es. Si tratta, naturalmente, dell'aspetto che meno interessava Baudelaire (ed i suoi contemporanei romantici Gautier e Hugo (43) ), ma è proprio paradossalmente, la sostanza dell'aneddoto di De Quincey. E, infatti, proprio immediatamente prima dell'inizio della narrazione, l'allucinazione descritta raffigura degli antichi romani ("[...] si sentiva il suono di quelle parole che mi facevano tremare il cuore: "Consul Romanus!". E immediatamente mi sfilavano davanti in splendidi paludamenti Mario o Paolo, circondati da una compagnia di centurioni con la rossa tunica issata su una lancia e seguiti dall'alalagmos delle legioni romane" (44)). La memoria della romanità descritta da Tito Livio innesca il ricordo delle incisioni di Piranesi e la contiguità delle descrizioni costituisce il sostrato su cui si innalza l'edificio artistico del racconto. Il tono solenne dello stile liviano (il suo "suono tremendo" (45) ) apparenta l'opera piranesiana all'epopea del Sublime in Inghilterra (46); le architetture da incubo delle visioni procurate dal laudano la legano, invece, alla poetica romantica della totalità espressiva e del trionfo dell'immaginario sulla descrizione neo-classica, nella direzione indicata da Coleridge (47). Il Piranesi di De Quincey (l'incisore delle rovine sublimi della storia (48) ) sarebbe stato fuori luogo a fianco dell'artista il cui "cerveau noir" avrebbe influenzato la fitta schiera dei testimoni dell'abisso. La presenza di un "diverso" Piranesi, la cui estetica risultava infinitamente meno interessante di quella dell'autore delle Carceri, può averne determinato la censura.
In entrambe le due versioni, tuttavia, esiste un elemento unificante ed è quello del silenzio. Sia Roma antica sia i prigionieri del carcere "gotico" tacciono; i luoghi sono singolarmente assorti e vuoti di presenze viventi; il loro abisso non risuona di grida, ma ricorda la gravità che si ritrova all'interno delle camere mortuarie delle Piramidi o della Valle dei Re. I labirinti piranesiani sono intessuti di silenzio e, per questo, il loro tono non è mai accordato sul registro del Bello, ma sempre su quello del Sublime. In essi domina la compostezza e l'intensità della morte: dopo le grida dei torturati e le invocazioni dei prigionieri, sulle Carceri domina, incontrastato, il silenzio della morte. Essa governa, infatti, allo stesso modo, i deserti assolati e le profondità notturne.


36) Thomas De Quincey, Confessioni di un oppiomane, trad. it. di F. Donini, Einaudi, Torino 1973, pp. 87-88.
37) De Quincey, "Chiede aiuto" per questa descrizione a Wordsworth e cita The Excursions, libro II.
38) Il rappor