mo(n)do solare mo(n)do notturno 
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Alfonso Cardamone
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DINO CAMPANA: LA NOTTE E IL PIU' LUNGO GIORNO -
PREMESSA
 
Dicembre 1913. Firenze, presso la tipografia Vallecchi (dove si stampava la rivista Lacerba): uno strano tipo, male in arnese, gli abiti trasandati, la barba ed i baffi biondo-rame e la capigliatura dello stesso colore folta e ricciuta, avvicina Soffici e Papini, principali esponenti della cultura letteraria fiorentina del momento.
Così è descritto l'incontro dallo stesso Soffici nei Ricordi di vita artistica e letteraria: "Ci disse che si chiamava Dino Campana, che era poeta e venuto appositamente a piedi da Marradi per presentarci alcuni suoi scritti, averne il nostro parere e sapere se ci fosse piaciuto pubblicarli nella nostra rivista. …Tirò fuori di tasca un vecchio taccuino coperto di carta ruvida e sporca, di quelli dove i sensali e i fattori segnano i conti e gli appunti delle loro compere e vendite, e lo consegnò a Papini".
Il manoscritto passò presto dalle mani di Papini, che vi aveva trovato "cose molto buone", a quelle di Soffici, che espresse giudizi non dissimili, ma il cui entusiasmo dovette essere di breve durata e di scarsa consistenza, se è vero che finì rapidamente per dimenticarsi e di Campana e della sua opera. D'altronde, "Campana, dopo quel primo colloquio, non s'era più fatto vedere, non aveva dato più segno di vita né con imbasciate né con lettere; era insomma sparito del tutto".
Alcuni mesi dopo. Sempre a Firenze: Campana si rifà vivo e prende a frequentare l'ambiente letterario fiorentino per qualche tempo, ma -scrive Soffici- "cosa strana, durante tutto il tempo, non fece mai più parola né con Papini né con me del taccuino affidatoci ... A un tratto sparì di bel nuovo e nessuno seppe più nulla di lui".

Primavera 1914. Ardengo Soffici riceve da Marradi una lettera con la quale Campana gli richiedeva il manoscritto, di cui -scrive sempre Soffici- "mi diceva non aver altra copia, e che intendeva pubblicare in volume. Ma io dovetti allora scusarmi di non poterglielo mandare: in un trasloco che nel frattempo avevo fatto da una stanza ad un 'altra dei miei libri e delle mie carte, il libriccino era andato confuso nel gran sottosopra...".
Ogni ricerca fu inutile.

Estate 1914. Un giorno, mentre passeggiava per le strade di Firenze, Soffici, guardando distrattamente nella vetrina di un libraio di via Martelli, scoprì i Canti Orfici: "Lessi il nome dell'autore: ed era quello di Dino Campana ... la materia del volume, che subito entrai a comprare e sfogliai febbrilmente, era la stessa di quella dello scartafaccio smarrito...".

Queste, Campana in vita, le notizie su un manoscritto apparso all'improvviso nella cerchia di Lacerba, e altrettanto improvvisamente scomparso, e poi tramutato, parrebbe per pura virtù mnemonica, in libro a stampa (e fu uno sforzo tremendo della memoria, si disse, che certo costò al poeta di Marradi un duro colpo al suo già precario equilibrio psichico) (1).

Una nuova data, a distanza di decenni, doveva invece venire ad aggiungersi a quelle che sembravano definitive.

Primavera 1971. Poggio a Caiano: riordinando le carte di Ardengo Soffici, la moglie e la figlia dello scomparso scrittore-pittore ritrovano il quaderno che sembrava "un vecchio taccuino ... di quelli dove i sensali e i fattori segnano i conti ..." (Soffici).
La notizia eccezionale venne prontamente data con grande risalto da Mario Luzi dalle colonne del Corriere della Sera del 17 giugno 1971. Il Luzi, dopo aver fornito una sommaria ricognizione del prezioso quadernetto, notava come il titolo, Il più lungo giorno, fosse una locuzione che si poteva supporre di natura esoterica e che, come tale, preludesse bene a Canti Orfici.
Suppongo di natura esoterica. L'esitazione del Luzi veniva a confermare la non risolta ambiguità di fondo in cui la critica campaniana si è sempre dibattuta sin dalle prime testimonianze e prove esegetiche tentate sui Canti Orfici. Campana è un poeta "visivo" o un poeta "veggente"? La sua è una poesia "orfica" e "visionaria", o "realistica- impressionistica"?
Visivo/Visionario. Non si tratta di un semplice bisticcio di parole, ma di un'opposizione interpretativa radicale, che impone di essere risolta, nonostante gli ovvi limiti di schematismo che un'operazione del genere comporta, perché l'adesione all'uno o all'altro di questi concetti esegetici -e soprattutto il grado di adesione- costituisce al tempo stesso la causa e l'effetto di un opposto ed alternativo atteggiarsi della considerazione critica dell'opera campaniana, che investe tanto la personalità umana ed artistica del poeta (problema della follia di Campana e della sua incidenza sulla poesia), quanto la verità e la validità dell'opera, i suoi legami con questa o quella tradizione letteraria, la zona d'interessi culturali ideologici ed artistici che hanno presieduto al formarsi e determinarsi della poetica campaniana.

Il 1937 è l’anno in cui le due tendenze fondamentali della critica campaniana assumono veste e corpo compiuti. In quell’anno, infatti, escono alle stampe, da una parte il saggio di Gianfranco Contini in Letteratura (per la corrente “visiva”), dall’altra quello di Carlo Bo su Frontespizio (per la corrente “visionaria”).
E proprio a proposito del titolo della raccolta di Campana, nel saggio di Bo leggiamo: “E intanto il titolo stesso qualcosa poteva suggerire, qualcosa della figura spirituale del poeta, anche se nella maggiore delle ipotesi fosse stato scelto per abitudine letteraria, i limiti stessi della lettera offrivano una notizia irriducibile e di un significato preciso. Sarebbe bastato l’aiuto della prima memoria, della storia delle letterature… un carattere religioso appariva”.
Con queste parole il Bo, partendo dal suggerimento proposto dal titolo stesso dell’opera di Campana, stabiliva la letterarietà ad un tempo e la spontaneità dell’orfismo campaniano, “in una direzione che può dirsi religiosa e mistica”.
Il critico rilevava nella poesia di Campana due cifre che definiva preziosissime: la sorda lotta notturna e l’infrenabile notte. Occorre comunque avvertire che l’analisi del Bo perveniva ad un esito paradossale, poiché, mentre accertava nel poeta di Marradi la presenza di una voce orfica e la volontà di farsi portatore di un messaggio spirituale, concludeva poi su una sua pretesa incapacità e impossibilità a “spiegare la visione nella cifra del linguaggio umano”, venendo così paradossalmente a coincidere proprio con la posizione di Contini e di quasi tutta la critica di tendenza visiva, per cui Campana alla fine è sempre stato, è e resterebbe semplicemente un poeta irrealizzato in quanto comunque irrimediabilmente intaccato dalla sua follia.

In realtà, è nel quadro dei nuovi e più vivaci fermenti prodotti dall'esperienza dei vociani che vanno collocate la figura e l'esperienza di Dino Campana, il quale, anche e soprattutto per le condizioni eccezionali della sua avventura umana (il suo naturale e fatale derèglement, la sua incrollabile fiducia, fino al sacrificio estremo della ragione, nell'unione profonda tra arte e vita e, "last but not least", la sua conoscenza diretta delle lingue e delle letterature europee d'avanguardia), diviene il "lirico più significativo del decadentismo italiano", come riconosce Sergio Solmi. Quello in cui –aggiugeremo noi- la fiamma del decadentismo europeo, che in Italia non aveva mai potuto divampare sino allora in profondità, brucia per intero, consumando le stesse scorie della tradizione romantica ed aprendo preziosi varchi alla lirica nuova del Novecento.

Già la Notte, la lunga sinfonia in prosa, vero e proprio poemetto in prosa, con cui si aprono i C.O., con il suo stesso titolo ed i sottotitoli "La Notte", "Il Viaggio ed il ritorno", “Fine”, dà la misura di una scelta, di un tono, di un'atmosfera ben precisi. E stabilisce i legami che, attraverso Novalis e tutta la tradizione misteriosofica romantica e decadente, riconducono Campana a Nietzsche, al mito antico e moderno dell'eterno ritorno.
La Notte è infatti per Campana (come per Novalis) ad un tempo la condizione effettiva -l'ambiente più adatto al manifestarsi della rivelazione- e la rappresentazione simbolica del "viaggio" verso l'assoluto, l'atemporale, il metempirico.
In più, in Campana, nella circolarità antinomica che è alla radice della sua poesia, ha anche il significato drammatico della notte dello spirito, delle tenebre dello smarrimento dell'anima nella penosa schiavitù del tempo e nell'arbitrarietà del reale: ha, spesso, il senso della caduta esistenziale.
La Notte è, cioè, per Campana, sia l' "iniziatrice alla vita profonda,, di Novalis, sia il "gorgo vibrante di fremiti sordi" in cui si frammenta e si disperde il reale.
È l'antico "cupio dissolvi", inteso come situazione magmatica, annullamento dei confini, dei limiti e delle apparenze del mondo empirico, condizione di armonia e di liberazione nell'assoluto, occasione di riconquista dell'unità primigenia, "ebbrezza d'infinito" (Novalis “Inni alla Notte”), ma anche -improvvisamente- ricaduta nel buio della coscienza, coscienza dello scacco e della sconfitta: "la lunga notte piena degli inganni delle varie immagini" (C. La notte).
La poesia di Campana è tutta una tensione mistica verso il superamento delle angosciose contraddizioni e divisioni del reale, una fuga continua -o meglio continuamente ripetuta e ritentata-verso l'orfica realizzazione dell'unità primigenia ed indistinta.
"Ora tutto potesse per un momento almeno ritornar divinamente semplice e uno" (Campana, da una “lettera a Carrà”).
Il che è molto simile alle operazioni di soluzione del dualismo fra spirito e natura, io e non-io, vagheggiate dall' "idealismo magico" di Novalis.
Novalis, in particolare, che proclama "materna la notte" al cui colore attribuisce "tutto ciò che ci entusiasma", è certo un antecedente importante di Campana, il quale per la notte "ha una struggente predilezione" (Petrucciani) e non a caso apre i suoi Canti Orfici con un poemetto in prosa dal titolo La Notte, appunto.

1) Questo giudizio sulla "forza di memorabilità" di Campana va oggi riconsiderato, alla luce della pubblicazione, in riproduzione anastatica, del manoscritto del "Più lungo giorno" (Archivi di Roma, d'intesa con l'Editore Vallecchi di Firenze) e in considerazione dei risultati a cui è approdata la minuziosa indagine che su quel testo ha condotto Domenico De Robertis (cfr. l'intervento di De Robertis al Convegno di Firenze su Dino Campana organizzato dal Gabinetto Scientifico Letterario G. P. Viesseux il 18 e 19 marzo 1973 e la prefazione del medesimo all'edizione anastatica del manoscritto). Come ha ricordato Geno Palmpaloni nella "Prefazione" al recente volume "Dino Campana Oggi" (Vallecchi, Firenze 1973), che raccoglie gli atti del Convegno Viesseux, Domenico De Robertis "ha concluso la sua argomentatissima indagine con l'ipotesi che il manoscritto ora ritrovato sia un codex interpositus, tra un testo base e il testo dei Canti Orfici del '14; testo base perduto o distrutto, da cui derivarono sia Il più lungo giorno sia Canti Orfici, 'in due successivi e distinti momenti', Di qui, dall'accertamento che il testo dei Canti Orfici, quale si conosceva non è già il faticoso recupero, fatto a memoria, di un manoscritto perduto, come voleva la leggenda, ma il frutto di una profonda e ben consapevole rielaborazione poetica, nasce quella che Enrico Falqui ha definito 'delusione' ".
Ma, se è vero (e le conclusioni dell'indagine del De Robertis non sembrano in alcun modo contestabili) che, contrariamente a quanto aveva potuto far pensare una enfatica dichiarazione dello stesso Campana al Boine, il poeta di Marradi non fu costretto a riscrivere a memoria l'intero libro dei suoi versi, è pur vero, come ha enunciato Neuro Bonifazi al Convegno Viesseux, che "la memoria c'entra in qualche modo", perche il manoscritto "si presenta per molti passi come una copia di lavoro" e "ciò vuoI dire che al momento di copiare il poeta ha operato numerose correzioni, tentato abbozzi e lasciato spazi vuoti in un certo ordine, e tutto ciò non era facile ricordare, e quindi la memoria c'entra in qualche modo". D'altronde, lo stesso De Robertis, mentre individua nel "fascicolo marradese" di Federico Ravagli l' "ipotizzato archetipo" rimasto nelle mani di Campana anche dopo lo smarrimento del manoscritto de "Il più lungo giorno", riconosce che "è credibile che a questo libro (“Il più lungo giorno”) tornasse con la mente, a questa immagine battesse la memoria di Campana dopo la sua perdita, quel disegno cercasse il poeta nelle carte da cui l'aveva estratto. Il che, in linea generale, gli venne fatto con tutto l'altro che quel rinnovato sforzo fece precipitare".