mo(n)do solare mo(n)do notturno 
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Mario Amato
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IL CANTASTORIE
 
Felice colui che può ancora iniziare una storia con le parole c'era una volta.... Esse esistono in tutte le lingue del mondo e non sono pronunciate da scrittori cinti con foglie di lauro, ma da madri e nonne.
Chi insegna l'arte della narrazione? Quale musa è presente quando esse siedono vicino ad un caminetto ed incantano i fanciulli con la loro voce? Da dove proviene quella melodia?
Spero che un po' di quella magia sia rimasta nel mio animo, poiché anch'io ho avuto una madre capace di affatturarmi quando ero bambino.

Senz'altro indugio inizio anch'io la storia...

Giunse un tempo nella nostra antica cittadina uno straniero: la sua carnagione scura, il suo sorriso aperto, la sua allegria erano segni che egli proveniva dal Sud solatio. Egli pose una gran tavolozza con disegni multicolori proprio al centro della piazza principale dinanzi alla cattedrale e, indicando le figure, iniziò a raccontare storie.
All'inizio erano assai pochi gli ascoltatori, ma con il passare del tempo aumentarono sempre più. Ognuno, e questo fu l'avvenimento straordinario, veniva trasportato dalle parole del cantastorie in mondi magici; ad ognuno sembrava di regredire all'infanzia, quando - il capo chino sulla gonna della mamma - sentiva frusciare il vento, mormorare il mare, gorgogliare i fiumi, entrava in castelli incantati, parlava con gnomi e folletti...
Terminato il suo lavoro - perché pur di un mestiere si trattava- il cantastorie trasse una grossa tazza da una bisaccia e passò tra gli astanti, i quali volentieri donarono un obolo. L'assembramento si sciolse ed ognuno tornò alla propria dimora con una gioia che aveva lasciato lungo tempo addietro ed ora aveva ritrovato.

La fama del contastorie si sparse anche nel vicino contado e sempre più numerosi giungevano ascoltatori: il miracolo si ripeteva ogni volta.

La nostra cittadina era a quei tempi uno Stato libero, governato saggiamente da un nobile che era riuscito con arti diplomatiche ad evitare guerre con i grandi Stati confinanti, in modo da salvare l'indipendenza. Il Signore aveva una moglie amorosa ed una figlia bellissima. La bellezza è sempre motivo di dissidi! La fanciulla aveva più di un pretendente, ma si era sempre mostrata ritrosa ad ogni proposta, ed era stata necessaria l'abilità negoziatrice del padre e la gentilezza della madre per evitare, in alcuni casi, un conflitto, perché certo non s'intraprende un viaggio lungo e rischioso per ascoltare un diniego, a volte neanche dalla voce della ragazza, ché neanche s'era presentata, ma da quella della Signora madre.
Rosaspina - questo era il nome della principessa, e mai fu più indovinato!- si chiudeva per giorni nei suoi appartamenti, per riapparire poi d'umore ancora più bisbetico ed ascoltare, infastidita, le proposte di matrimonio di principi, conti, baroni, marchesi e altri ancora.
Il Re - perché tale era, anche se il regno si estendeva per poche miglia al di fuori delle mura cittadine- era preoccupato, poiché non era più giovane e desiderava un erede: quella figlia lo faceva disperare e la sua consorte versava ogni giorno lacrime, pensando al futuro, nel quale vedeva i confini assediati di armigeri bellicosi intenzionati a mettere a ferro e fuoco, come si dice, il piccolo regno.

Mia cara lettrice, credo che tu stia già figurando nella mente il resto della storia, ma io ti consiglio, non per mia vanità letteraria, di proseguire nella lettura, poiché vi sono sviluppi che forse la tua fantasia non ha immaginato. Io so che la vanagloria è uno dei pericoli per tutti coloro che prendono la penna in mano, ma questo racconto non è del tutto mio, poiché esso viene narrato ormai da lungo tempo dalle nostre donne.

La fama del cantastorie era giunta fino a castello e la nutrice di Rosaspina aveva procurato di decantare alla bella fanciulla le doti dell'uomo venuto dal Sud e, affinché uscisse alla luce del sole, l'aveva ripetutamente invitata a recarsi nella piazza. La nutrice amava Rosaspina come fosse figlia sua ed era ben allenata a tessere le lodi degli aspiranti corteggiatori. E questo non è fatto di poco rilievo, perché ella mise nella giovane mente della fanciulla un'irresistibile curiosità.

Venne dunque la mattina dell'uscita di Rosaspina: io narro così come ho ascoltato dalle vecchie del paese.

La ragazza uscì dal bagno fragrante di unguenti orientali, dono forse di qualche spasimante venuto da quelle lontane terre, indossava un abito di broccato prezioso, il bianco collo era cinto da una fine collana, le dita affusolate da anelli d'oro, dai lobi pendevano orecchini di pregiata fattura, ma la luminosità delle gioie non poteva competere con quella della fanciulla, i cui occhi avevano lo splendore tipico dell'età.

Giunta in piazza, la folla si scostava, piena di sorpresa e ammirazione e qualcuno commentava "Ecco Rosaspina", qualcun altro aggiungeva "Più Spina che Rosa!", perché il carattere lunatico della fanciulla era di pubblico dominio.

Il cantastorie iniziò il suo lavoro e nuovamente il miracolo avvenne: tutti gli astanti rimasero incantati sino al termine dei racconti.
Allorché l'uomo bruno s'avvicinò alla principessa, ella si sfilò un anello di gran valore e lo lasciò cadere nella tazza a lei porta. Anche Rosaspina era rimasta ammaliata dal cantastorie, ma non solo dalla sua arte. La fanciulla cominciava a provare un turbamento sconosciuto nel fondo della sua anima ed esso durò per l'intera notte e per quella seguente e ancora, fin quando non lo riconobbe per quello che era in realtà: Rosaspina era innamorata.

Era questo il logico sviluppo che tu, mia unica lettrice, avevi fantasticato, ma ti suggerisco di procedere nella lettura, perché fra non molto andremo insieme in un luogo più a meridione e in un tempo più lontano.

La principessa era ostinata nel suo amore.
Il Re era nelle sue stanze, occupato a guardare un mappamondo, forse per distrarsi dalle preoccupazioni che la figlia gli procurava. La nutrice annunciò la visita di Rosaspina.
"Padre" iniziò la fanciulla senza alcun timore "Io so che da lungo tempo voi e mia madre la Regina desiderate che io prenda marito e infine mi sono decisa". Il petto del Re si gonfiò di un respiro profondo "Figlia, tu infondi felicità in questo vecchio cuore, ma dimmi subito quale tra i tuoi corteggiatori hai prescelto".
Rosaspina abbassò gli occhi, le gote divennero rosse, poi disse "Il cantastorie". Di nuovo si gonfiò il petto del Re, ma questa volta di rabbia, la corpulenta figura cominciò a tremare, poi un urlo eruttò come lava da un cratere a lungo sopito dalla bocca del vecchio "Torna nelle tue stanze, pazza!"; Rosaspina s'inginocchiò "Vi prego, padre..." "VIA; nelle tue stanze e non comparire mai più ai miei occhi fino a quando non sarai rinsavita; mai più!". Rosaspina s'allontanò e lacrime piovevano copiose dai suoi occhi, ma ora il suo amore era ancora più tenace.

Non se la prendano i democratici, ma quelli non erano tempi durante i quali esistessero rapporti aperti tra i ceti sociali; rivolte ce n'erano state molte, ma le rivoluzioni, che son tutt'altra cosa, erano lontane da venire.

Lo stesso cantastorie, che se ne stava in una bettola in compagnia di una scodella di patate cucinate nel lardo e di una bottiglia di vino, non avrebbe mai pensato ad un matrimonio con una donna di rango superiore; nondimeno egli accolse la nutrice e le offrì un bicchiere di vino e ascoltò l'ambasciata d'amore.
Il cantastorie non fu però sollecito ad accettare l'invito di Rosaspina e non perché l'amore non fosse penetrato nel suo cuore, ma per ragioni più misteriose.

Questa è la parte più interessante della storia, almeno così credo.

Percorriamo un tragitto verso il Sud, giacché con la fantasia si può viaggiare verso qualsiasi luogo, e giungiamo in una bell'isola: gli aranci con i loro rami gravi di frutti ci suggeriscono che è la piena stagione invernale, la battigia con tante piccole barche ormeggiate e qualche bel peschereccio indicano che l'attività principale è la pesca.
Il mare però non è calmo, ed anzi il vento non promette niente di buono; troviamo sulla spiaggia un uomo adulto e un bambino intenti a scrutare le onde; i pochi altri pescatori che passavano gridavano dalla strada
"Dove vai? Non si esce per mare con questo tempo; è vento di burrasca", ma quelle parole forse si perdevano nell'aria, forse non volevano essere ascoltate. "Buoni a parlare quelli" diceva il pescatore in riva al mare, rivolgendosi al piccolo " Non hanno certo dieci figli loro! E una moglie più capricciosa di una principessa! Forza ragazzo, mettiamo in acqua la barca"; e così padre e figlio si avventurarono.
Era notte, ma non si vedevano né stelle né luna, il mare mugghiava come un mostro dalle mille gole, le onde erano alte come colline. Giunti a largo l'adulto ordinò al figlio di gettare l'ancora e prendere la rete, perché il posto pareva favorevole ad una buona pesca, ma, proprio nel momento in cui il ragazzo stava per mettere in atto questi comandi, un'onda prominente, non come una collina ma come una montagna, sovrastò l'imbarcazione, spaccandola di netto a metà, mandando la prua da una parte e la poppa da un'altra, laddove rispettivamente si trovavano padre e figlio.

Abbandoniamo l'uomo, il quale probabilmente sprofondò nel fondo dell'Oceano, per non essere mai più visto, e seguiamo invece il ragazzo, che per un miracolo ebbe salva la vita. Il bambino, sbalzato dall'onda dalla parte opposta a quella del padre, non chiamò aiuto, ma nuotò fin quando trovò un arbusto e vi si aggrappò. Il corpo giaceva nell'acqua, ma la testa era comodamente adagiata sugli arbusti, che facevano da cuscino. Fu forse l'istinto di sopravvivenza, forse l'incoscienza dell'età, il piccolo s'addormentò di un sonno profondo e senza sogni. La procella si calmò e il mare cullò il ragazzo quasi come fosse una madre amorosa e lo condisse a riva, in una terra straniera, ove fu raccolto da una carovana di zingari, perché due braccia in più fanno sempre comodo.
Durante i primi giorni il bambino pensava al padre che il mare aveva trangugiato senza chiedere permesso, alla madre che forse si disperava, ai fratelli e al suo paese, ma presto dimenticò la vita passata e s'adattò alla nuova.
Imparò la strana lingua degli zingari, imparò a suonare la chitarra, a spiccare salti mortali, a sputare fuoco e a compiere tanti altri esercizi divertenti. Era un vero divertimento vivere con quella gente, che non si fermava mai per lungo tempo in un luogo, ma viaggiava in
continuazione, vedendo terre, città e paesi diversi.

In tal modo crebbe il bambino depositato dal mare e divenne un bel giovane.

C'era fra gli zingari una vecchia donna che appariva soltanto la sera, quando tutta la grande famiglia si riuniva intorno al pentolone ribollente di uno scuro minestrone. Si faceva silenzio, la vecchia cominciava a raccontare e tutti gli astanti rimanevano affascinati dalle parole di quella donna anziana, vestita d'abiti sgualciti, anzi ormai cenciosi. Il ragazzo era, fra tutti, colui che più stava a bocca aperta e sognava al suono dei racconti.
V'era tuttavia un mistero che avvolgeva l'anziana donna, perché ella non si vedeva mai durante il giorno e il suo carrozzone restava chiuso fino all'imbrunire. Il giovane venuto dal mare s'aggirava spesso nei paraggi del grosso carro, ma da quel baraccone non proveniva mai nessun suono.

Trascorso molto tempo, il ragazzo bussò alla porta della vecchia zingara, la quale sulle prime cercò di scacciarlo, poi cedette alle insistenze. Il giovane avanzò la richiesta di conoscere il segreto della donna, in altri termini l'arte di affascinare con le parole. "Vuoi davvero sapere come faccio? Bada, marinaio - così lo chiamavano, a volte, gli zingari per canzonarlo - è un dono terribile, è una magia maledetta. A me la regalò un uomo di una terra molto lontana; non avessi mai accettato! Da allora ho vissuto straniera in ogni lembo di terra, da allora nessuno ha mai ricordato il mio nome, perché io sono soltanto una cantastorie. Ragazzo, io ti donerò quest'arte dannata, ma non ora. La mia vita sta per finire; quando verrà il momento, che, ti ripeto, non è lontano, portami nel bosco e seppelliscimi; non temere, conoscerai tutte le storie e diventerai un cantastorie. Sappi però che non potrai vivere nessun amore, perché per ogni storia che racconterai alla persona che ami, perderai un giorno di vita." Il giovane rispose "Vivrò più di mille amori con la fantasia".

L'uomo continuava a stare nei pressi del carrozzone chiuso della vecchia; e il giorno venne. Egli si precipitò fra la sua gente e gridò "La cantastorie è morta", ma qualcuno rispose con una scrollata di spalle, un altro con "Pensaci tu", un'altra ancora con "Tutti si muore".
Il ragazzo allora tornò al carro della morta e avvenne che il cavallo iniziò, a testa bassa, a procedere verso un bosco attiguo; egli lo seguì. Mentre lo strano corteo incedeva mestamente, il giovane ricordava una ad una tutte le storie narrate dalla donna. Giunti presso una radura, l'uomo prelevò una pala, già bella e pronta, e scavò la fossa.
Egli avrebbe voluto scrivere su una pietra il nome della donna, ma non lo conosceva e incise sul sasso la parola "Cantastorie".

Tornato dagli zingari insieme al cavallo e al carrozzone, ormai suoi, aspettò la sera per porsi in mezzo a loro e raccontare: subito incantò tutti i presenti, poi si ritirò.

Da allora fu il cantastorie e la sua vita scorse come la vecchia aveva predetto: durante il giorno viveva in disparte, nessuno mai lo visitava, tutti avevano gran cura di tenersene lontano.

Non sappiamo le ragioni per le quali egli si separò dagli zingari; andò errabondo di paese in paese, di città in città, imparò a raccontare le sue storie in molte lingue, finché giunse nella nostra cittadina, dove lo troviamo ancora seduto al tavolo dell'osteria.

Era ormai notte ed il cantastorie decise di accettare l'invito; era uomo aduso a camminare rasentando silenziosamente i muri, a scavalcare cancelli dotati di lance appuntite, ad arrampicarsi su alberi e saltare su balconi, ad entrare di soppiatto in stanze d'avvenenti fanciulli.
Trovò la principessa ad attenderlo; si amarono per quasi tutta la notte, ma le fiabe non raccontano mai intimi congressi, ed io mi attengo a questa sana regola.
Il cantastorie narrò a Rosaspina tutte le storie che conosceva!

Il racconto non riferisce altro; io ho immaginato l'epilogo, ma lascio a te, lettrice, concepire un'altra possibile fine della storia...