supplici e amazzoni - da Eschilo a Diodoro Siculo 
[ Testo:  precedente  ]  [ fascicolo ]  [ autore
Marcello Carlino
[ Marcello.Carlino@uniroma1.it ]
 
UN LIBRO DI CONFINE
 
Non è facile contraddistinguere con un’indicazione di genere Supplici e amazzoni di Alfonso Cardamone. Un po’ saggio, un po’ racconto – di quei racconti che ammettono nel loro svolgersi la figura di un narratario e lo convocano in scena spesso e volentieri –; fondato su di un capitale di letture assai cospicuo, come conviene agli studi scientifici e filologici, e tuttavia consapevole della necessità di intraprendere avventure ermeneutiche anche spericolate, in cui occorre affrancarsi dalle mappe già tracciate e la scelta di direzione interpretativa è d’obbligo, obbligatoriamente dirimente, né può ritenersi svincolata da ben marcati orientamenti di tendenza storico-civile e culturale; stilisticamente incline all’argomentazione e alla dimostrazione, spesso in contraddittorio con quanto da altri e di regola sostenuto, e nondimeno caratterizzata da una propensione tutta speciale per il linguaggio colloquiale, che dà del tu al lettore e non gli nasconde, anzi lo invita a considerare, lasciandovisi andare e godendone, la complessità come romanzesca degli intrecci e delle saghe familiari di dei ed eroi che si rende utile rinarrare; con una sua ben precisa cifra di scrittura, lineare nel suo impianto, eppure ospitale e indulgente verso i modi di una oralità vicina alla logica del racconto di tradizione popolare, Supplici e amazzoni mi piace definirlo un libro di confine, come già è capitato che abbia fatto per altri libri che Cardamone ha scritto e che di questo costituiscono la necessaria premessa. Del resto, nel risvolto di copertina, non si manca di sottolineare come si tratti della «ripresa» di un «cammino» sulle «tracce del femminino sacro», perciò congruente e conseguente a In traccia di luna, pubblicato sempre per i tipi di Pellegrini nel 2006. E infatti, dell’analisi contenutavi, Supplici e amazzoni realizza una sorta di compimento, portando a sviluppo e insieme ponendo in chiaro, a me sembra con tutta evidenza, le ragioni e il senso profondo di una ricerca che sta impegnando Cardamone da alcuni anni. Una ricerca essa stessa di confine, tra mito e storia, così come insiste sui luoghi di confine, per suo statuto, il repertorio di ricostruzioni mitologiche che, quando si voglia arretrare nel tempo e gettare luce su alcune fasi originarie, lontanissime e indistinte, della vicenda dell’uomo, interseca inevitabilmente e stringe in un abbraccio talora indistricabile i documenti che le scienze dell’antichità sono in grado di autenticare.
Trascorrendo da Eschilo a Diodoro Siculo, nominati del resto nel sottotitolo, ma escutendo volta per volta uno stuolo impressionante di testimoni, chiamati alla bisogna in ordine sparso, da Omero ad Euripide, da Esiodo a Erodoto, da Pausania a Strabone, da Igino ad Apollodoro per non citare che i più citati; confrontandone le posizioni e verificando le perizie tecniche a cui ciascuno dei loro referti è stato sottoposto secondo diversi approcci disciplinari (e non v’è dubbio che ad un libro di confine si attagli un’istruttoria plurifocale, condotta da molteplici versanti convergenti: finiscono così arruolati, per consulenze, aggiornamenti recenti di storia greca, studi di paleo e di mito-archeologia, saggi etno-antropologici, testi di critica della letteratura antica, classici di analisi e di visitazione di figurazioni e di racconti mitici con i relativi attanti); sciorinando, non senza un sottile divertimento che il lettore è invitato a condividere, una serie lunghissima di personaggi in sospeso tra mitologia e letteratura, o tra mito e storia, e vagliandone parentele e rimembrandone genealogie (ma, in una breve annotazione straniata ed autoironica, epperò illuminante come si dirà, il lettore è avvertito che è impresa ardua, lasciata per intero alla sua attenzione e alla sua responsabilità, seguirne le trame; e ciò sebbene in appendice si diano schemi e tronchi e rami di alberi genealogici e si segnino su tavole le carte geografiche di percorsi migranti lungo i paesi che affacciano sul Mediterraneo), Cardamone giunge ad una sequenza di conclusioni definite.
Elenchiamone alcune.
Mirina non è solo regina delle Amazzoni e impavida «condottiera di eserciti»; il fatto che abbia lo stesso nome con cui è chiamata la Grande Madre, nonché la sua provenienza dalla Libia e uno sciame di indizi che ne localizzano altrove tratti fisionomici e frammenti di significato esportati e condivisi, autorizzano una serie di inferenze: la prima è il compenetrarsi di figure di marca “femminile” in uno spazio multiregionale e in un tempo che si dilata scavalcando a ritroso la civiltà ellenica, così che se ne può disegnare un unico ritratto del «Femminino», composito e multianime per conciliazione degli opposti, sensuale e materno, ospitale e ferino, forte e lunare, dai lineamenti anche afroasiatici, che affiora tanto in Neith – la Vecchissima, la Madre degli Dei – quanto nella primitiva Atena e nelle tante, più tarde Madonne Nere; la seconda è la revoca, per ciò stesso, della damnatio memoriae toccata in sorte alle Amazzoni e alla dimensione di valore che ad esse si accompagna. Può trarne vantaggio, ed esserne riabilitata, la stessa Elena, vituperata perché fedifraga e additata a responsabile della guerra di Troia, ma in realtà non irriferibile a Iside, invocata con il nome di Elena in Bitinia, e certamente identificabile con le «diverse epifanie dell’antica Dea lunare», se ritorna sovente e si ravvisa di netto, già in Omero, un filo di congiunzione, un trait d’union: «La conocchia non è una semplice conocchia, è propriamente la conocchia d’oro che fa Elena simile ad Artemide, la vergine dea del notturno splendore lunare; è cioè un trasparente emblema lunare, il simbolo che la collega direttamente ad Artemide e, attraverso Artemide, alle più antiche divinità lunari».
Proprio Elena è segnale chiarissimo, in effetti. La civiltà greca ha impronte misogine patenti; e se la Grande Madre è totalità, pienezza come ermafroditica di manifestazioni e di disposizioni umane, di funzioni e di ruoli esistenziali, il mondo greco giunto a noi, quindi tradizionalmente inteso, e idealizzato, frantuma quella totalità, alienandone la misterica pienezza lunare, oscurandone la componente libera e sovrana, ovvero amazzonica, costringendo la donna nelle parti, servili e limitate, di sposa sottomessa e devota. Fuori da questo copione, e non appena accada che taluna esca dai ranghi, rientra nella letteratura il personaggio di Pandora, dispensiera di mali, e si profila per monito l’immagine negativa di Elena, l’innominabile macchiatasi del peccato di tradimento. È nella marginalizzazione delle deità femminili lunari nel pantheon degli dei e degli eroi, o nell’affossamento (che vale, alla lettera, come confinamento ipogeo) della tradizione religiosa e culturale d’appartenenza mediterranea che germoglia su quella semenza; è nella chiave maschilistica del dominio sulla donna che si edificano la civiltà e la storia greca e si produce l’immagine, illusoria e mistificante, di una democrazia in esse compiuta, da indicarsi a modello ancora oggi. Quella di Cardamone è, dunque, la demistificazione di una identità culturale, costituitasi evidentemente sui meccanismi di una dialettica del potere che ha coartato la donna; la sua, in Supplici e amazzoni, è operazione del tipo della critica della metafisica occidentale, considerato che la fondazione dell’Occidente si è soliti situarla nello sbalzo di un’identità greca delineatasi in autonomia spiccata, e solidamente determinatasi.
È dunque la decostruzione della identità autorizzata dalla tradizione ed è la rivendicazione e la rilevazione di una identità altra, da restituire e da schierare, nello stesso areale antropologico facente centro sulla Grecia, e cioè alla fonte della storia d’Occidente e d’Europa, in alternativa all’identità convalidata e ormai consacrata dal senso comune: è questo che impegna il libro di Cardamone e contiene e dichiara la finalità alla quale è volto.
Ad un compito siffatto, per esempio, si prestano – ed ad esse, nel frattempo, si legano altri ricavi consistenti del discorso condotto in Supplici e amazzoni – la verifica attraverso la letteratura del ruolo e delle gesta del popolo dei Pelasgi e la anamnesi della diaspora delle Danaidi, spintesi fino ad Argo.
I Pelasgi, sulla falsariga delle ipotesi di storicizzazione più accreditate formulate di recente, vengono riconosciuti alla stregua di una popolazione-“sostrato”: essi costituirebbero, in buona sostanza, una sorta di serbatoio comune per i flussi di insediamento umano che interessano tanto le terre italiche, quanto i luoghi che sarebbero stati teatro della storia ellenica. Deve accettarsi per corollario difficilmente smentibile, date le premesse, che un tale popolo, con funzione come di dna che impronta i gruppi umani stanziatisi nelle diverse regioni, non può che caratterizzarsi per una “cittadinanza” mista, “comprensiva”, mediterranea, e per una sorta di meticciato culturale che ne giustifica, per altro, la forza di penetrazione.
A questo punto, contrariamente a quanto lascia intendere la tragedia di Eschilo, Pelasgo non appare credibile nella parte, assegnatagli dal grande tragediografo, di chi incarna l’archetipo antropologico-umano della grecità e, nella purezza autoctona e assoluta, alla lettera originale, dei valori di cui è portatore, rappresenta il cominciamento, di precisa determinazione, e il marchio incancellabile di una civiltà totalmente a sé e perciò più ricca di capacità irradiante, l’iniziatore e il garante di una identità che nella sua figura sembra trovare definizione e robusto ancoraggio. Infine, tra i Pelasgi e i Danai, gli invasori, la guerra ha ragioni economiche e di dominio territoriale, quelle di ogni stagione e di ogni latitudine; e non può essere idealizzata, che è ciò che fa Eschilo risolvendo il conflitto in una contrapposizione di modelli, di anime culturali: gli uni e gli altri, infatti, connotandosi per la mediterraneità degli intrecci etnico-geografici e per la multiculturalità che segnano la loro origine, hanno ampi tratti di cultura condivisa sicché, nel loro caso, non può funzionare, se non per il rispetto delle regole di rappresentazione del tragico, lo schema secondo il quale lo sconfitto consegue una vittoria più importante, e di più lungo periodo, affermando la sua cultura e imponendone il valore più alto e infine riducendo a sé la cultura del vincitore.
Nell’attenersi a quello schema, Eschilo ribadisce la cogenza del codice regolamentare e della prassi consueta della tragedia, ma, soprattutto, opera a sostegno del progetto di configurazione e di codificazione di una ideologia specifica della grecità.
Non tuttavia senza sbavature o senza che il rimosso culturale ritorni: ed ecco le Danaidi, finalmente.
Le Danaidi sono, come le vuole la scrittura tragica eschilea leggendone la vicenda in questa chiave esclusiva, le supplici che ritualmente “vengono a Canossa” e si riconoscono nel sistema di valori, peculiari e propri, dell’ospitale e virtuoso Pelasgo – il quale li antepone a tutto e li consacra, non esitando a mettere a rischio la sicurezza del suo popolo: esempio altissimo di democrazia e di fede nei diritti civili – e ratificano, nel mentre, la normazione del ruolo della donna presso la società ellenica e, per futura memoria, nella cultura d’Occidente. Eppure non appaiono veramente cancellati i segni (ne danno avvertenza anche talune spie linguistiche dentro il testo della tragedia, che hanno come la funzione di lapsus o di semafori verdi per il ritorno del rimosso – e del represso sociale) che richiamano una volontà di indipendenza dall’uomo e un bisogno forte di autodeterminazione, che così apparentano le Danaidi alle amazzoni indicando una potenziale convivenza di stato (l’essere supplici non esclude l’essere amazzoni e viceversa; non necessariamente tra l’una e l’altra parte, o ruolo, si dà rapporto asimmetrico o di contraddizione) e delineando un’altra, diversa identità femminile, la quale non rinserra l’apertura, non esautora la pienezza di senso e di possibilità antropologico-umane contenute nelle figure totalizzanti e archetipe delle deità e delle “persone” mitiche del femminino. E giusto queste figure femminili e, ripeteremmo, ermafroditiche di conciliazione degli opposti finiscono evocate e comunque tornano presenti – come per dar forma e saldatura ad una struttura circolare, esse che avevano fatto la loro comparsa nel capitolo iniziale accanto a Mirina – al termine del libro.
Supplici e amazzoni chiama a leggere la “e” del titolo, alla lettera, come reale e virtuosa congiunzione, non come “medio” di esposizione di modalità disgiunte, impersonate da soggetti inassociabili, da tenere ad ogni costo distinti, che sono state valutate e sancite e considerate – nella scala di valori della cultura occidentale che prende le mosse dalla Grecia – sempre benedicendo le “supplici”, maledicendo le “amazzoni” e facendo divieto ad ogni loro contatto o contagio; Supplici e amazzoni mette Eschilo contro Eschilo, il tragico che si lascia sorprendere dai rinvenimenti del represso sociale contro il tragico di una consapevole normalizzazione ideologica e culturale della donna; Supplici e amazzoni pone a fondamento, del percorso identitario in cui siamo, e tutti dobbiamo sentirci, impegnati, un’altra identità di riferimento, femminile e più che femminile.
È ovvio che per ciò stesso, per questi significati forti di cui si rende espressione (ai quali altri, più circostanziati, se ne aggiungono nelle escursioni diramate volta per volta tra mito e storia, racconto e saggio), il libro di Cardamone abbia una sua motivatissima intenzione politica.
Oggi che ci si intrattiene, spesso sventatamente, sulla questione dell’identità e che l’identità è concetto speso pressoché da tutti nel senso della chiusura, del reperimento di un idioletto antropologico-culturale, o della demarcazione e qualificazione localistiche, Cardamone ci invita a considerare, intanto, che l’identità è un motore di ricerca da tenere acceso sempre e dovunque, anche nei saggi d’esplorazione che sembrerebbero mirare altrove e si ritengono disinteressati (non esistono analisi e studi disinteressati, alle corte), ed è, al medesimo tempo, questione che implica un confronto aperto tra le tradizioni pervenuteci e richiede il coraggio di una scelta (richiede la consapevolezza della inesistenza nel lavoro critico di una presunta neutralità o oggettività degli assunti; implica la coscienza del valore politico degli atti che si stanno compiendo, dandosi per certo che è in gioco ogni volta la costruzione impegnativa di una tradizione a cui fare riferimento). La scelta che Cardamone compie, con gesto politico calcolatissimo, sta nel profilare alle radici dell’Europa, alla fonte della cultura occidentale, non una identità escludente (sul tipo di quella affondata nelle radici cristiane, che alcuni poteri forti si battono per scrivere nella carta costituzionale), ma una identità inclusiva. I valori europei che, senza che li si dichiari esplicitamente, sono sul punto di fuga della prospettiva di questo libro, si rifanno, quanto all’origine situata tra storia e mito e quanto alla storia che a partire da essa è ancora da costruire, alla multiculturalità che il popolo-sostrato dei Pelasgi simbolizza, nomade tra le regioni d’Asia, d’Africa e d’Europa.
Quanta rilevanza abbia la proposta, rinvenuta all’origine ma sporta sul futuro, di una siffatta identità plurale, aperta e laica, rivendicata contro l’Eschilo “ideologo” e gli antichi errori della metafisica occidentale, in un frangente come l’odierno nel quale i fondamentalismi stravincono e da ogni parte si interviene a demonizzare l’altro, lo straniero (e come, nel presentare con forza questa sua identità plurale e nel regolare su di essa i suoi atti, l’Europa possa svolgere una grande funzione politica, una tra le poche rimastele nell’epoca della globalizzazione), è finanche superfluo sottolinearlo. È il caso di chiarire, piuttosto, che questa identità plurale è attestata esemplarmente dalle figure del “femminino”, che costituiscono il filo rosso di Supplici e amazzoni e che vi portano a compimento la loro vicenda, dando seguito ad un percorso cominciato nelle opere immediatamente precedenti dell’autore.
Una volontà “femminista” di risarcimento ideale per le libertà rubate, per i soprusi patiti e le “amputazioni” subite in secoli e secoli di storia (la stessa storia la cui culla sarebbe la civile e democratica Grecia dell’antichità classica) sorregge e sospinge la ricerca di Cardamone; ma la riscoperta del «femminino sacro» e la riabilitazione identitaria dei valori che vi sono racchiusi hanno una ragione, più che femminista, di progettualità e di rappresentazione politiche. Il nuovo e il meglio per pensare il futuro sembrano elettivamente consegnati a quanto sin dal principio si raccoglie e si addensa soltanto nei miti femminili che stanno prima di ogni storia (essi intrinsecamente ermafroditici) e nelle divinità lunari: la pluralità ospitale, l’accoglienza dell’altro, l’incontro non riduttivo o uniformante ma produttivo delle differenze, la dismissione dell’assoluto per l’ammissione del relativo, la concordia dei discordi (la congiunzione di norma e scarto, delle supplici e delle amazzoni). Il futuro più abitabile è donna, se donna è segno-“sistema di valori” che comprende la complessità accogliente delle Danaidi, restituite, contro Eschilo, ad una condizione di apertura polivalente, di disponibilità ad una ricca varietà di esperienze e di rapporti con l’altro: questo ci dice Cardamone, volendo far uso di una opportuna semplificazione.
Ci suggerisce anche che per questa pronuncia politica il ruolo della letteratura, che non a caso ha stretta contiguità con il mito, è determinante (si spiegano così il taglio da racconto di molte diramazioni di Suppici e amazzoni, o i titoli dei capitoli che sono rapidi e sapidi trailers metaforici, o il gioco di complicità con il lettore avvertito che il rigore della argomentazione saggistica confina per tratti estesi col piacere della narrazione, così che non risulta, al tirar delle somme, da esso spaiabile – e sollecitato nel frattempo, attraverso l’autoironia delle chiose autocritiche della scrittura, a regolarsi di suo interpretando, e ripassando le aggrovigliate trame genealogiche, e facendosi un suo convincimento lungo tutto il percorso del testo). È proprio la letteratura, infatti, che elettivamente si costituisce sul polisenso (e polisensa è la Neith, polisense le dee lunari, polisense le Danaidi, polisense le figure mitiche del femminino sacro); e che si modella per usi convenuti su di una logica simmetrica fatta per conciliare i contrari e realizzare la concordia discors. È la letteratura che fa conto sulle virtù e incentiva le risorse di una disposizione strutturale all’accoglienza.
Un futuro più abitabile passa anche attraverso l’ascolto attento della letteratura e la sua messa a dimora per la cultura e per la politica: mi sembra che quest’altra faccia di un’utopia possibile e conveniente, da scritturare per far da guida alla prassi, si stagli sullo sfondo di Supplici ed amazzoni.

26 settembre 2008