in traccia di luna - risalendo alle scaturigini del femminino sacro 
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Ugo Fracassa
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LE MITOLOGIE LUNARI DI A.C.
 
Tanti sono i fili da riannodare per presentare dignitosamente al pubblico dei futuri lettori questo In traccia di luna Mitologie lunari tra oralità e scrittur. Occorrerà cioè richiamare i due volumi saggistici che, nell’arco temporale di un decennio, fanno accanto a questo bella trilogia: Sui confini. Rilettura di Edipo (2001) e, prima, L’ultimo dei reami. Le divinità dell’ira (1995), antologia epico-mitico-fiabesca ad uso delle scuole; i versi, almeno quelli del parallelo trittico poetico composto da Le selve di Crono (1995), Arianna (1996) e Il centro del labirinto (2000 – nonché un mannello di rime pubblicato in rivista nel 2005 all’insegna dell’ “ombra lunga del mito”); infine, l’incessante direzione di Dismisura che all’inizio degli anni Novanta intitolava al “Mondo solare / mondo notturno” un fascicolo monografico. Il discorso peraltro non sarà completo in assenza di qualche comparazione tra questo libro e la letteratura prodotta tra la seconda metà dell’Ottocento e oggi su temi analoghi.
Ripartendo proprio dalla premessa posta dall’autore in apertura dell’antologia scolastica di cui sopra, ecco il “tema della connessione tra rito-mito-fiaba-leggenda-epos” che oggi diventa metodo ermeneutico. La connessione, postulata allora per utilità didattica (“il superamento della consueta scissione tra libro di narrativa e antologia di brani”) e subito ricondotta alla “più avanzata ricerca letteraria” e antropologica diventa ora pratica critica comparativa. Cardamone è passato dalla dimostrazione ad usum pueri della plausibilità dell’assunto, all’esercizio in prima persona, a vantaggio di lettori adulti, della commistione di materiali narrativi di tradizione orale prima che scritta e di provenienza non solo europea. Insomma l’autore, nel ripercorrere le tracce di una mitologia lunare/femminile attraverso leggende africane, cosmogonie minorasiatiche, riti e miti primordiali e poi classici (non esclusa la prosa scientifica del Seicento), guarda all’eredità antropologica sedimentatasi in infiniti racconti come a un “macrotesto organico”, giusta la definizione di Marcello Carlino. Va subito precisato, tuttavia, che l’intertestualità esercitata non riposa su un orizzonte testuale levigato e superficiale, inteso come praticabile tappeto di incursioni a-critiche, bensì su uno stratificato deposito di materiali di diversa natura e consistenza. Il mito, ad esempio, lungi dal disporsi docilmente alla citazione e al riuso a mò di racconto, intreccio, plot anodino e decontestualizzato, viene spesso ricondotto all’origine di hiéros logos legato ad un cerimoniale e ad un atto di culto (non diversamente Emilio Villa – come il nostro poeta del contemporaneo e studioso dell’antichità preclassica – annotava i versi dell’ Odissea per la sua inaudita traduzione, riconducendo la figura di Odìsseo, abusivamente psicologizzata per secoli, ad una dimensione non rappresentativa ma antropologicamente fondata).
Da subito l’antologia del ’95 centrata sulle “divinità dell’ira” incrocia il mito del matriarcato e cita figurazioni riconducibili al mito della Grande Madre (Rea, Demetra, Persefone, Ecate, Proserpina), ma è la rilettura di Edipo pubblicata nel 2001 col titolo Sui confini a orientare decisamente la barra di navigazione in direzione del Mutterrecht di ascendenza bachofeniana. L’interpretazione di Cardamone, infatti, vede in Edipo il “catecumeno della luce oscura delle divinità materne”, l’oppositore del veggente Tiresia, detentore di un sapere solare-apollineo, in nome di una più antica sapienza matrilineare.
Per quanto attiene alla poesia, Edipo, Arianna, Shintalimeni e gli altri fantasmi degli antichi racconti (mythoi) popolano da sempre, in scorante promiscuità con le tangibili presenze del vivere quotidiano, i versi di Cardamone e pertanto l’incrocio tra questi e la saggistica affabulativa del nuovo lavoro starà altrove, ad un livello meno statisticamente rilevante delle semplici ricorrenze onomastiche. A pagina 33 di Le selve di Crono leggiamo pochi versi da un frammento di evidente sostanza metapoetica: un vero programma di scrittura e di ricerca :
noi a cui i sogni più non schiudono la soglia
del mistero noi li inseguiamo desti fin dentro
le lor tane (…)

Inseguire cioè mettersi sulle tracce – del sogno, del mito – in stato di veglia (desti), consapevolmente orfani del mistero ma capaci di stanare il senso – delle immagini, del racconto – e con quello fare segno, significare nuovamente. Con gli occhi aperti, perciò, ma non come chi sogni bensì intento a rintracciare le orme del mito, Cardamone ha in questi anni, e da sempre, messo i propri piedi in quelle vestigia, inseguendo a ritroso il filo di un discorso intricato ed estraneo alla logica corrente. Passo dopo passo, all’indietro, ma guardando avanti – sì, proprio come in una fiaba ovvero nel kubrikiano finale di Shining – fino a confondere le proprie orme con quelle di innumerevoli e anonimi narratori, fino a far perdere le proprie tracce nel centro del labirinto. Cardamone appare insomma “felicemente convinto che il mito sia una narrazione che può essere capita solo narrando”, come egli stesso scrive a proposito di Roberto Calasso. Per il mito, infatti, non vige la medesima epistemologia delle scienze fisiche, ovvero conoscere non è misurare, verificare ma fare esperienza; replicare non è clonare poiché narrare di nuovo produce nuova narrazione, variazione dall’identico (tracce di una logica altra sono disseminate nell’ultimo In traccia di luna dove la Luna è femmina ma pure maschio, governa le maree ma pure il fuoco, si identifica con la bianca vacca ma pure col toro). In altre parole, il principio di non contraddizione perde forza nella trafila millenaria che risale agli archetipi, in quella “strettura tumultuosa ove un sentimento infinito trova stanza” (così Emilio Villa nel 1939, nella nota alla traduzione dall’accadico di Enuma elis su Letteratura).
Per questa ragione è anche possibile che i molti personaggi richiamati a nuova vita nei versi o nella prosa del saggio – maschi o femmine, bestie, uomini, divinità, eroine od eroi epici, fiabeschi, leggendari mitici di tradizione orale o scritta alludano infine ad una sola matrice. Un mito rivissuto come personale che muove la scrittura in un corpo a corpo coi fantasmi del reale – la durata, il caos, la follia del quotidiano (la vita mi passa attraverso come / un fantasma ed io smarrisco / nel mio studio le carte penso / scrivere uno due versi magari / la sera e continuare poi / faticosamente a glissare” Le selve di Crono) – e riconduce irrevocabilmente allo ou topos, al non luogo dell’utopia. Quale genere di utopia? Una risposta è forse negli esiti dei saggi su Edipo e sulle mitologie lunari: decisivo mi pare che entrambi i personaggi totemici di Cardamone – Gilgamesh da una parte, e Edipo dall’altra – vengano interpretati in chiave lunare (femminile cioè). Il secondo, come già ricordato, si svela nel finale di Sui confini portatore di sapere matrilineare, il primo, nelle pagine che chiudono In traccia di luna, prende il posto di Enkidu come incarnazione del dio lunare. Forte insomma è la tentazione di rileggere alla luce dell’ultimo titolo tutta l’opera di Alfonso come vera e propria istanza d’Anima, dove la maiuscola riporta alle tesi junghiane della proiettiva polarità femminile insita nel mascolino.
Pur brevemente sarà il caso ormai di richiamare i fondamentali dell’ipotesi matriarcale sottesa – come postulato e non come tesi da verificare – al saggio. In principio (1861) era Das Mutterrecht di Johann Jakob Bachofen, trattato che piacque a Marx/ Engels perché evocativo di “un altro mondo possibile” rispetto alla sedicente universalità borghese; considerato da Walter Benjamin profetico; strumentalmente ripreso dal primo femminismo; che da subito valse all’autore l’ostracismo della comunità accademica basiliense ma destituito di valore scientifico da più recenti confutazioni e , brutalmente , da Uwe Wesel (1980). Tale riferimento, già presente in Sui confini, è soggetto sottinteso della bibliografia che innerva In traccia di luna a dimostrazione della sua acquisizione a priori come spunto argomentativo sottratto al contraddittorio accademico. D’altra parte l’autore non avrebbe potuto essere più esplicito al riguardo quando in una nota conclusiva (caduta nell’ultima redazione) demandava ad altra fonte (Rian Eisler, Il calice e la spada ’87) l’onere di delucidare gli aspetti storico-documentari del tema. Se qualche funzione dimostrativa, infatti, In traccia di luna è chiamato a svolgere, essa è relativa al personale mitologema che informa la poesia di Cardamone, intorno alla quale i lavori saggistici , ivi compreso quest’ultimo, ruotano come un corollario. Non certo all’ipotesi ginecocratica bachofeniana col relativo stadio dell’amazzonismo e le vaghe datazioni dal neolitico preindoeuropeo all’ascesa di Ottaviano Augusto, per intenderci.
Piuttosto, all’orizzonte culturale evocato dal saggio meglio si adattano più generiche definizioni sociologiche, per esempio la coppia oppositiva “modello dominatore vs modello mutuale” di civiltà (Riane Eisler) ovvero il binomio antitetico “società dei conquistatori del mondo vs società della costruzione del sé (Alain Touraine) , definizioni non necessariamente vincolate a datazioni e localizzazioni protostoriche ma utili ora e qui per coniugare al futuro anteriore un assetto sociale e civile alternativo al vigente frutto di una modernità ormai incompatibile con gli equilibri planetari a livello geopolitico ed ambientale.
Intanto andrà segnalata questa sintonia nella elaborazione intellettuale al di qua e al di là delle Alpi che porta nel 2006 alla pubblicazione di due titoli (non ancora tradotto il francese Le monde des femmes) centrati entrambi, da diversi punti di vista, su di un’ipotesi/utopia di genere femminile. Alain Touraine, sociologo militante tradizionalmente impegnato sui temi del lavoro – ciò che nel Novecento ha significato conflitto di classe – dal 2000 si interessa di costruzione del soggetto come possibilità di intima resistenza alla de-socializzazione incipiente. Alla domanda: “Chi occupa il posto dei lavoratori manuali nella società industriale o dei mercanti che distrussero il sistema feudale?” si risponde: “sono le donne”, le attrici sociali più importanti” poiché non agiscono come “movimento sociale” ma culturale. Solo da loro è possibile aspettarsi “una ricomposizione del mondo”, il “superamento di antichi dualismi” , il rimarginarsi della “frattura corpo-mente”. “Superare il dualismo”, “ricomporre la frattura” sono operazioni che tendono all’intero, ad una dimensione olistica estranea (precedente, posteriore?) al principio di non contraddizione. Si tratta, anche qui, di un mito personale ad alto tasso di utopia ma intanto è significativo che uno analogo venga contemporaneamente coltivato In traccia di luna.
Per concludere voglio riferirmi al capitolo quattordicesimo intitolato “Da Galileo a Plutarco. Il volto della luna”, dove con grande consapevolezza viene individuata e nominata la scissione “tra le due culture (umanistica e scientifica)” alla quale tendenziosamente si reagisce inoculando nel “macrotesto organico” formato da epos mito leggenda e fiaba un campione di prosa scientifica galileiana di cui si mette in valore la palese “coloritura letteraria”. La condanna del particolarismo scientifico, della parcellizzazione di conoscenze specialistiche, portata avanti nei modi tutt’affatto originali di un saggismo affabulatorio, rimanda ad altre scissioni di taglio prettamente maschile che fondano l’egemonia scientifica economica politica e infine antropologica del principio maschile: la chirurgia del parto cesareo, il sistema di divisione del lavoro, la strategia del divide et impera, la mitica mutilazione inferta da Crono al padre Urano (il cielo) per separarlo da Gea (la terra), episodio alluso nei versi che aprono Le selve di Crono:
forse perché il taglio è obliquo dei tuoi occhi
e la bocca è larga nel sorriso torno
senza stupore ad osservare sulle tue
ginocchia le forbici del dio e di tanto
in tanto con il dito assaggio
della lama il rilucente filo

versi meritamente famosi tra i lettori di Cardamone e magistralmente interpretati da Marcello Carlino. Il sapore di quel taglio, di quel filo di lama è quanto ci resta di un inconcepibile passato ed i versi citati insegnano che è possibile farne esperienza solo grazie alla mediazione femminile, sulla soglia di un grembo muliebre.
Di questo si tratta nei pochi versi citati come nelle quasi centocinquanta di “mitologie lunari” che ho provato a presentare – me ne rendo conto – circuendo più che penetrando, e forse non a caso.
Vale la pena di aggiungere che l’archetipo di una femminilità lunare intesa come alterità irriducibile ed utopica, ripercorso ed esperito da Alfonso Cardamone in una bibliografia oggi più ricca per la pubblicazione di In traccia di luna è mitologema ineluttabilmente maschile?