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Marino Faggella
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ORAZIO: IL TEMPO, LA MORTE E L'ETERNITA'
 
Tra i cosiddetti tòpoi della tradizione non mi sembra si sia insistito abbastanza sulla persistenza del concetto tutto oraziano dell’arte, particolarmente quella dei poeti, di eternare l’uomo al di là della sua fisica deperibilità. Quest’idea non certo platonica di assegnare all’attività dei poeti una tale funzione demiurgica si riconosce, si può dire, senza soluzione di continuità in tutta la tradizione letteraria occidentale, come testimonia l’opera degli autori di ogni tempo, anche di quelli le cui tendenze estetico-filosofiche risultano non propriamente omogenee.
Accade, infatti, al di là delle loro specifiche diversità, di ritrovare un tale topos nella Commedia di Dante (si ricordi a tal proposito come vi si insista nel canto XVII del Paradiso) e anche nelle opere di un poeta come il Petrarca, che rappresenta, comunque, un momento nodale di quella tradizione classicistica che com’è noto prende le mosse proprio da Orazio (1).
Il concetto dell’arte quale supervalore è presente inoltre e fondamentalmente nella letteratura romantica, dove non confligge, anzi è esso uno dei punti di maggiore accordo con la concezione dei classicisti, come si può desumere dai Sepolcri del Foscolo, le opere del quale sono lì a testimoniarci, piuttosto che la diversità, una sostanziale sintesi fra le due tradizioni, quella antica e la moderna.
Seguendo il corso storico la ricerca in altre epoche non andrebbe certamente delusa, anzi si troverebbe certamente di fronte ad interessantissime scoperte che ci autorizzano a riconoscere attraverso il confronto critico la presenza dello stesso motivo anche in autori appartenenti all’area culturale del ‘900. Lucienne Deschamps ha riconosciuto “una certa somiglianza” tra la concezione oraziana e quella del romanziere francese Marcel Proust proprio a proposito del rapporto da essi instaurato tra il tempo e l’opera d’arte, che le pare significhino la stessa cosa quando essi ci comunicano la loro scoperta “che l’opera d’arte trasporta le cose fuori del tempo e mediante l’opera d’arte che dà a queste cose forme et realitè esse rimangono sempre vive per sempre”(2).
Premettiamo di condividere, ma solo entro certi limiti, un tale confronto ed in particolare solo la persistenza entro la storia di quel topos, che, probabilmente, se proprio non esclusivamente oraziano ha trovato, tuttavia, nel poeta di Venosa il suo primo e più convinto assertore. Quanto al resto, e particolarmente alla loro concezione del tempo è opportuno fare importanti distinzioni che, prima di tutto appaiono dettate dalla loro differente posizione storica che, condizionata dal pensiero e dalla cultura del loro tempo, ha finito certamente per determinare anche una specifica concezione dell’arte.

A questo punto, per andare più a fondo nella questione, mi pare opportuno analizzare quelle fonti del pensiero che in qualche modo hanno influenzato la visione estetica dell’uno e dell’altro. Occorre innanzitutto premettere che l’idea del tempo e la sua entità hanno sempre affascinato artisti, scrittori e filosofi, sicché si potrebbe dire che esistono tante concezioni di esso quanti sono quelli che se ne sono occupati. Per semplificare diremo che due sono le fondamentali nozioni del tempo:quello oggettivo, che riguarda la materia e il mondo che in qualche modo possono essere misurati (questa è la concezione del tempo che partendo dai Greci è arrivata al XVIII secolo); quello soggettivo, che non può essere concepito né tanto meno misurato se non facendo riferimento alla coscienza del soggetto: è questa l’idea del tempo che, intuita da S. Agostino è stata poi laicizzata da Bergson.
Se è vero che appartiene ad Aristotile la distinzione fra un tempo oggettivo, il movimento del quale non dipende dall’anima, e un tempo soggettivo che non può esistere senza l’anima, spetta però ad Agostino la riduzione del tempo assoluto alla coscienza, cui spetta unicamente la facoltà di misurarlo: ”come si assottiglia – dice nelle Confessioni – e si consuma il futuro che ancora non esiste? Come cresce il passato che non c’è più, se non perché nell’anima ci sono tutte e tre le cose, presente, passato e futuro? Essa, infatti, attende, porge attenzione, ricorda; di modo che ciò che aspetta diviene prima oggetto dell’attenzione, poi della memoria” (3).

Tempo perduto e tempo ritrovato


Prendendo in considerazione prima di tutto l’autore della Recherche, senza nulla togliere alla profonda intuizione agostiniana del tempo interiore, occorre dire che il procedimento proustiano del recupero del tempo probabilmente non sarebbe mai nato senza la fondamentale lezione filosofica che Bergson ha comunicato a tanta parte della letteratura del Novecento. Anche Proust, quale allievo del filosofo alla Sorbona, ebbe modo di assorbirne direttamente il pensiero, utilizzandolo poi quale base teorica della sua arte e fondamento essenziale della sua poetica, che, ponendosi sulla linea dell’avanguardia simbolista, si trova agli antipodi rispetto all’estetica naturalista fondata sul metodo dello scientismo.
La filosofia bergsoniana, nata proprio nel clima dell’antipositivismo, ha avuto all’inizio del ‘900 un’influenza enorme su tutto il pensiero del secolo, rivoluzionandone totalmente il metodo della conoscenza, condizionando conseguentemente anche l’idea dell’arte. In pratica Bergson ha sostituito al concetto di fissità delle nostre percezioni e delle nostre sensazioni il concetto di fluidità, per cui tutte le cose apparentemente sembrano stabili, fisse ed immobili, mentre in realtà sono mobili e mutevoli proprio in virtù della durata. Anche per il filosofo francese, analogamente a quanto aveva già affermato Agostino (“non ci sono propriamente parlando tre tempi, il passato, il presente e il futuro ma soltanto tre presenti: il presente del passato, il presente del presente, il presente del futuro”(4) ) proprio perché i tempi appartengono all’anima, il passato è presente nel presente in virtù dell’intuizione che, consentendo al soggetto di cogliere il tempo come durata, gli dà la possibilità di riattingere il passato attraverso il recupero dei momenti istintuali sepolti e dimenticati nella coscienza. Ciò sgombrava il campo ad una straordinaria ricchezza spirituale e inventiva. È comprensibile, pertanto, come un artista come Proust, per il quale la conoscenza razionale delle cose risultava oscura e ottusa, rinunziando al semplice procedimento di catalogare gli oggetti con l’applicazione di etichette, accogliesse con entusiasmo il procedimento analogico della durata bergsoniana in quanto gli consentiva non tanto di attingere la forma esterna delle cose ma la loro essenza più profonda, quella che San Tommaso chiamava quidditas. Questa eccezionale disposizione, se da un lato offriva all’artista la superiore capacità di realizzare una sintesi dell’io con il mondo (il simbolismo, come nota Gioanola, significa proprio la “rappresentazione attraverso le figure del mondo dell’intima sostanza psichica o, all’inverso, una dissoluzione della coscienza all’interno delle cose naturali”(4) gli consentiva, dall’altro, di nutrire la suprema speranza di vincere a suo modo la guerra contro il tempo, di operare con la continua riesumazione del passato la resurrezione dell’uomo eterno in quello contingente.

Tale disposizione soteriologia dell’artista che, salvando se stesso, diviene contemporaneamente salvezza del mondo, tale presunzione di eternità, pur presentando qualche analogia, non poteva essere la stessa in un poeta d’altri tempi come Orazio, al quale certamente mancò, per ragioni storico-culturali, quella linearità pacificata della più accomodante tradizione filosofica di matrice agostiniana che vedeva raccolto in un solo momento fondamentale, quello del presente, sia il passato che il futuro. A questa moderna concezione, per così dire lineare (o meglio circolare, se pensiamo alle applicazioni proustiane del metodo bergsoniano) che avrebbe consentito al tempo soggettivo, quello che si misura nella coscienza partendo dal presente, di riattingere con la memoria i momenti privilegiati di un passato mitico, Orazio sostituiva una concezione del tempo come frattura (l’irreversibilità dolorosa del passato) o dissolvimento (l’inesorabile passaggio del tempo come agente di distruzione e di morte) che, pur risultando apparentemente meno complessa, non era meno ricca di risultati poetici.
Egli era convinto, sia per ragioni filosofiche (quasi tutte le scuole di pensiero del suo tempo si erano soffermate sull’analisi del tempo) sia per esperienza di vita vissuta che il tempo dell’uomo, procedente in modo inesorabile verso la distruzione di sé, doveva fare i conti con un’altra dimensione del tempo, quello cosmico delle stagioni, che, soggetto ad un ciclico ritorno, non faceva che sottolineare con la sua durata il contrasto esistente fra la caducità della vita dell’uomo e l’eternità del tempo esterno. Non si riscontra, infatti, nella visione oraziana, come nota La Penna, identificazione alcuna tra la “temporalità dell’uomo con quella della natura”, esiste al contrario un abisso insondabile che separa tempo assoluto e tempo vissuto, in quanto le vicende della natura procedono secondo leggi che sono diverse da quelle umane: l’uomo è differente dalla natura, in quanto il suo tempo mena alla distruzione, la legge dell’eterno ritorno non è quella dell’inesorabile morte alla quale egli soggiace come tutte le creature viventi. Che cosa avrebbe mai potuto arrestare l’invisibile dissoluzione dell’ uomo e delle cose?
Se è vero che il tempo soggettivo si manifesta al poeta soprattutto come irreversibilità e frattura, se anche il tempo cosmico non gli appartiene del tutto a causa della sua insondabile profondità, c’è però qualcosa che è suo e che gli appartiene completamente come a tutta l’umanità, il miracolo della poesia e dell’arte che affidandosi alla parola è in grado di ricucire le lacerazioni del tempo, di sanare lo strappo esistente fra tempo assoluto e tempo vissuto, dandoci l’illusione di sopravvivere oltre la morte. Solo in questo Orazio e Proust si danno la mano, a queste condizioni, coincidendo la loro visione, è possibile realizzare un confronto fra il poeta antico e l’artista moderno, ma sarà inevitabile e necessario per noi sottolineare anche le differenze che li separano.

La “recherche” di Orazio


A questo punto, riprendendo il confronto, mi pare opportuno aggiungere le seguenti considerazioni che in qualche modo servono anche chiarire la natura dell’arte oraziana. Occorre dire subito che la poesia del Venosino, in linea con quella dei Greci, ebbe una sua specifica peculiarità non solo a causa di originali ragioni costruttive, ma anche per il modo della sua germinazione che non può essere certamente assimilata a quella dei moderni. Giustamente A. La Penna ha sottolineato le distanze che separano la poesia simbolista, caratterizzata da voluto ermetismo, dalla lirica di Orazio aperta piuttosto al dialogo a alla comunicazione tanto che il poeta, per dirla con le stesse parole del critico, quasi sempre è solito rivolgere le sue odi “ad un interlocutore esplicitamente nominato, o ad un pubblico” (5). Ma vi sono altre ragioni che allontanano Orazio dalla concezione lirica dei moderni, e dalla visione proustiana, che in qualche modo si potrebbe avvicinare ad essa a causa del procedimento del recupero memoriale del passato. Cercheremo di dimostrarlo proprio riprendendo l’idea oraziana del tempo, aggiungendo a proposito di quest’ultima qualche altro e più specifico riferimento.
Si è detto che il tempo oggettivo esterno è diverso, anzi ha poco o nulla a che fare con il tempo umano: le stagioni ritornano, dice Orazio, la vita nostra non mai. Di fronte a questa visione traumatica della irreversibile frattura della nostra esistenza, che è stata avvertita con uguale drammaticità in ogni tempo, si evidenziano più chiaramente sia le analogie ma anche le distanze intercorrenti tra il poeta antico e i moderni, siano essi romantici o decadenti, in quanto costoro prospettano diversi rimedi. Per superare lo “choc” del pensiero, che ha scoperto svelandolo il mistero tragico della consunzione della vita, essi, pur avendo in comune la fede nell’arte, seguono diversi procedimenti.
Certamente Orazio, sia per ragioni di sensibilità sia di cultura, non avrebbe potuto utilizzare il criterio di rifugiarsi nella memoria del passato, come accade ai poeti più recenti che molte volte fanno scaturire proprio di lì la loro arte. Egli non è un moderno, e proprio per questo non può conoscere né il procedimento memoriale di Leopardi, né tanto meno quello di Proust. Per lui la memoria del tempo passato, l’andare a ritroso della vita non produce l’arte, l’idea della sua lirica, insieme con la sua realizzazione, risultano completamente diverse da quella dei moderni, Proust compreso: né il procedimento della memoria involontaria, né l’originale criterio della sensazione che fa scattare il ricordo possono essere in assoluto forieri dell’arte per il poeta augusteo. Né del resto poteva essere altrimenti, data anche la dinamica visione del tempo di Orazio, drammaticamente oscillante tra un labile presente, pronto consumarsi e a vanire sempre, ed un improbabile futuro che comunque si aspetta e nell’attesa può impedirci di godere contribuendo a dissolvere delle gioie trascorse anche il ricordo.
Non c’è spazio, pertanto, nella visione di un poeta come il nostro, disposto a condividere una visione generalmente edonistica della vita, per questa ulteriore dimensione del tempo. Questo spiega perché nella poesia di Orazio il passato si configuri esclusivamente come rimpianto delle cose e dei piaceri perduti ma non è mai, come nei romantici, poetica nostalgia. Può essere illuminante, a proposito della riduttiva presenza del ricordo in Orazio, la seguente considerazione di Ramous :”la memoria ha il sostanziale difetto di farci riflettere su ciò che avrebbe potuto essere e invece non è stato: ancora una volta una facoltà che, oltre alla funzione di mantenere vivo il piacere delle gioie trascorse, ha in sé il dato negativo del rimpianto. In ogni caso la memoria nell’ambito esistenziale ha breve corso e in quello proiettato oltre che può promettere la poesia, se si toglie l’appagamento del proprio orgoglio, non è conoscibile” (7).

La morte e l’eterno


Orazio, come del resto tutti gli antichi, non fu certamente insensibile di fronte al problema del tempo che anzi fu concetto da essi indagato costantemente col sostegno delle varie scuole filosofiche, ma occorre sottolineare anche che il tempo, concepito soprattutto come fluire, fu avvertito in modo più particolare dalla sensibilità dei poeti, i quali proprio per questo hanno cantato, con il senso della caducità delle cose e della vita umana, l’incombente pensiero della morte. Questi temi ritornano frequentemente nei classici. Prima di pensare ad Orazio e alla tradizione che da lui si diparte per approdare fino a Petrarca, trasferendosi successivamente da quest’ultimo nelle pagine dei poeti del classicismo moderno, è il caso di ricordare un greco, Mimnermo, che per intima e profonda consonanza ebbe in comune con Orazio soprattutto il fatto di non poter guardare con serenità alla vita umana che, come tutte le cose belle, ha lo stesso destino di un fiore: quanto più presto nasce tanto più rapidamente appassisce. Chi non ricorda la tristezza dolorosa dei versi di Mimnermo dove i fiori della nostra esistenza, pronti a declinare, sono assimilati alla generazione delle foglie che germogliano nella stagione fiorita della primavera, sulle quali, analogamente a quella dei viventi, si stenderà dopo la paurosa vecchiaia il velo nero della morte.
È questo il motivo che, pur essendo presente nelle altre raccolte, ricorre varie volte e con particolare insistenza soprattutto nelle odi, dove a più riprese Orazio ritorna sul fatto che il tempo umano corre in modo irreversibile verso la distruzione, niente è destinato a durare nella vita, tutto è soggetto ad immutabile cambiamento tranne la morte che è stata, è e sarà per sempre definitiva. Anche nella costruzione poetica sia la scelta delle parole sia la loro stessa collocazione nel sapiente tessuto del verso risponde spesso al bisogno del poeta di insistere, di rincalzare la medesima idea: i giorni sono detti volucres, gli anni scorrono e sono fugaces; l’inarrestabile loro corsa, con un’espressione che forse meglio di ogni altra designa il passare del tempo, è potentemente richiamata nella solenne ode 30 del terzo libro: innumerabilis annorum series et fuga temporum. Ma se c’è un luogo che merita prima di tutto di essere ricordato sono i vv. 7-8 dell’ode I, 11 (“Dum loquimur, fugerit invida / aetas“) dove la voluta e particolare scelta temporale del futuro anteriore, che è per La Penna”di un’espressività mirabile”, accostato al presente, che inizialmente invita il lettore a fermare l’attenzione sul discorso spensierato dei due amanti, concorrendovi in modo straordinario e rincalzandolo, è li a ricordarci in modo icastico l’immagine centrale dell’irrefrenabile e fugace trascorrere dei giorni e della sua corsa verso la morte.
Si sa che la virtù è la qualità più importante dell’uomo virile, sicché nelle Tuscolane Cicerone diceva: “il coraggio disprezza la morte”. Poiché inevitabilmente la morte verrà e a nessuno è dato di sfuggirle, la cosa migliore è imparare a morire rifugiandosi nella filosofia e nell’arte. E’ la soluzione indicata dal sapiente: da Orazio a Seneca a Montaigne. Proprio per questo, pur in presenza dell’impasse della ragione, giunta ad una tale tragica intuizione, il poeta trovava una mirabile soluzione facendo scaturire, come si è detto, da questa lacerazione, dall’abisso di una tale frattura il miracolo della poesia, l’unico oggetto di nostra creazione che, è in grado di salvarci dalla dissoluzione, dandoci l’illusione di sopravvivere oltre morte.
Non c’è da credere, tuttavia, che un tale destino sia riservato ad ogni forma d’arte o contenuto della storia, ma solo a quelli che rispondevano all’idea storico-filosofica del monumento. Quando componeva il suo Exegi monumentum, pur senza respingerla del tutto, ritenendo probabilmente inadatta allo scopo di durare e di eternarsi una parte non cospicua della sua poesia precedente, quella che la tenuis camena gli aveva ispirato, Orazio pensava che la gloria gli sarebbe venuta piuttosto dalla musa sublime che ora gli dettava di cantare non in tono dimesso e per sé solo, ma solennemente e in modo dispiegato della grandezza epica di Augusto e dell’impero, quella grandezza che anche con i suoi versi egli, era convinto, contribuiva a far durare. Solo a condizione di poter edificare un monumentum egli era disposto ad aver fede nel futuro: sia che si trattasse dell’arte (che per essere veramente tale non poteva essere improvvisata ma organicamente ed armonicamente perfetta, cioè faticosamente condotta a compimento tanto da risultare compiuta, perfetta appunto) sia che si discutesse della costruzione storica dell’impero, anch’esso edificato tra mille difficoltà, ma ugualmente caratterizzato dalla perfezione e per questo destinato a durare per sempre nei secoli, come la vera opera d’arte poetica.
Queste ultime considerazioni ci fanno meglio intendere anche le ragioni della scelta oraziana della cosiddetta “poesia civile”, che dovrebbe, comunque, vedersi non in antagonismo con la poesia più leggera e meno impegnata, ritenuta da più parte, e secondo noi a torto, come la più vera ed autentica poesia di Orazio.

NOTE
1) Ciò è sottolineato, ad esempio, da A.Borgese nel suo giovanile e fortunato libro Storia della critica romantica in Italia
2) L. DESCHAMPS, Il tempo in Orazio, ossia dal “tempo perduto al tempo ritrovato”, in Orazio da Venosa, Venosa 1983, p. 66.
3) AGOSTINO, Confessioni, XI,
4) AGOSTINO, Confessioni, 20.
5) E. GIOANOLA, Il Decadentismo, Roma 1977, p.55.
6) A. LA PENNA, Orazio e la morale mondana europea, p. 111.
7) M. RAMOUS, Pref. ad, Orazio-Opere, p. XXXI