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Alessandro Liburdi
 
E' DIFFICILE PARLARE DI POESIA
 
È difficile parlare di poesia, oggi, nel 2009, tempo d’internet e di globalizzazione. E ancor più difficile è il farla. Ma certo, se ancora ci sono i poeti, se ancora esistono (e resistono) vuol dire che per loro c’è ancora una missione. Anche se qualcuno (la grande maggioranza in verità) vuole etichettarli come antiquati ciarlatani disadattati, evitando così di leggerli e di aprire interrogativi nelle loro vite imborghesite e perbeniste. Quei tanti signor qualcuno non immaginano, al contrario, che la poesia oggi sopravvive e che di essa c’è uno smisurato bisogno. Parole e immagini - quelle autentiche e sofferte intendo – possono essere le pacifiche armi che sanno graffiare l’insensibilità e l’indifferenza che purtroppo la società ci ha insegnato.
Fare delle generalizzazioni è sempre rischioso, ma sembra che il post-moderno (parlo di storia, non di letteratura) abbia relegato la poesia, più di ogni altro genere letterario e artistico, in una sfera di minimalismo: in un campo di esperienze ristretto fatto di angoli, di ritagli, di scampoli. La poesia ha perso il suo alone di mito, di classico intramontabile ed è diventata un modesto canzoniere compilato dietro il giardino di casa, un’oziosa canzonetta da salotto, o un aspro pamphlet registrato nei vicoli o nelle periferie delle metropoli avvelenate.
Un ruolo marginale, dunque. In un’epoca come la nostra bombardata ogni giorno da strilli di informazioni e controinformazioni; dove tutto è sintetizzato e impacchettato in scatoline da archiviare; dove non c’è più intimità ma un’ansia di prostituzione in nome del successo. Dietro questo meccanismo si cela un ulteriore paradosso: nel mondo globale – e globalizzato – ognuno pensa al suo “particulare” e tira l’acqua al suo mulino, per rinverdire la sua erba e competere col vicino. Guccini direbbe che «ognuno vive dentro i suoi egoismi/vestiti di sofismi». Ecco allora che la poetica del frammento – che annovera tra i primi Gozzano, Rebora, Boine, Sbarbaro e poi Montale – diventa un punto di vista privilegiato, diventa poetica dell’attimo scampato alla frenesia di tutti i giorni, poetica del momento rubato alla monotonia sociale. E in questo modo, anche se da un punto di vista personale, la poesia può tornare a restituirci uno “scampolo di purezza”, perché unisce la concretezza spesso buia del reale allo scatto liberatorio della fantasia.
Secondo me, questa purezza non è, né deve essere, purismo: deve esimersi dal diventare un esperimento troppo rarefatto. Invece penso che per raggiungere la purezza auspicata, la poesia debba “contaminarsi”, cioè mescolare il degrado con la bellezza, i pieni con i vuoti, il buio con la luce, la spazzatura con i fiori (e qui De Andrè forse sarebbe stato d’accordo: «dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior»). Così la poesia sarà sintesi dei contrasti del mondo o dell’uomo, e avrà raggiunto una sua prima missione: sarà diventata “spazzaPURA”.
E la poesia deve pretendere da sé stessa un altro tentativo, certo più arduo ma comunque necessario: farsi insieme critica della realtà e musa auspicatrice di un futuro più umano, dove il dolore non sia più vuota commozione e i valori divengano anche prassi. Ecco che così la poesia riacquisterebbe il senso antico del passato e darebbe una fisionomia attiva a questo presente magmatico e sfuggente, in vista di un futuro meno bestializzato e meno disumano.

giugno 2009