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Alfonso Cardamone
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LA FILOSOFIA DEL TRAMONTO NELLA PIÙ RECENTE OPERA DI MARCELLO CARLINO
 
Nel prendere in mano questo libro e nell’accingersi a sfogliarlo, il Lettore eventuale farà sicuramente bene a seguire l’ordine sequenziale dei capitoli, così come per lui li predispose, con provvida sagacia, l’ Autore. Magari chiedendosi, di tanto in tanto, il Lettore, nel processo di avanzamento e approfondimento della lettura, il senso di quel titolo, Ciociaria quella terra di viaggi che non dico, che è una promessa e al tempo stesso pare una ritrosìa.

Ma altra strada, alla prima opposta, sarà opportuno che il Recensore segua, rovesciando, e poi rimescolando l’ordine dei capitoli, incignando il ragionamento a partire dall’ultimo, Un giorno, in uno scompartimento del treno.
E non solo perché qui si parla apertamente di viaggi, e di viaggi attraverso la Ciociaria, che portano pendolarmente da Frosinone all’ Urbe e viceversa, ma soprattutto perché qui è il rinvio, implicito ma trasparente, del titolo del libro all’universo poetico gozzaniano, che generosamente fornisce la chiave di lettura, la cifra fondamentale per penetrare l’affascinante gioco combinatorio messo in atto da Marcello Carlino con questo che lui chiama, con signorile modestia e garbata civetteria, il mio libriccino, il mio saggetto.

La Ciociaria, quella terra di viaggi che non dico, sta a Marcello Carlino come il Canavese, quel dolce paese che non dico, sta a Guido Gustavo Gozzano, il poeta del Novecento tanto amato da Marcello quanto da chi scrive queste note (una passione in comune, e non la sola, che ci avvicina, come l’altra che per brevi citazioni pur tracima dalle pagine del libro, per Dino Campana, di cui ritornano le espressioni e del tempo fu sospeso il corso; e la notte delle varie immagini, quest’ultima presa in prestito a sottolineare l’ingannevole scenario di una piazzetta di Casalvieri, magistralmente interpretata).
La memoria di Gozzano richiama “al senso plurimo delle cose, alla relatività delle esperienze e alla attenuazione anche ironica, alla ‘perplessità’ crepuscolari”.
E, intanto, confessando questa intenzionalità di sostrato, l’ Autore chiarisce anche il senso del suo personale viaggio e del libro, che non sarà, per sua scelta, una guida né un saggio storico o sociologico. Niente ricerche documentarie particolari e approfondimenti eruditi, alla base del testo, ma una tessitura di ricordi e di rimuginii personali, per restituire una Ciociaria secondo me, secondo “la mia scala di valori, secondo il mio sistema di idee e le mie scelte, secondo le mie speranze”.

Speranze, già. Speranze per il mondo a venire delle nuove generazioni. E sì, perché il libro di Carlino è anche un progetto politico, oltre a tante altre cose. Oltre, per esempio, ad una sorprendente metafora del viaggio.
Si prova a dire, l’ Autore, che viaggia “in una terra il cui proprio può essere rintracciato nel viaggio”. E, a beneficio del lettore specifica: “Viaggio degli emigranti, viaggio di chi è venuto a popolare questa provincia, viaggio alla ricerca di una identità, viaggio come incontro con l’altro. Viaggio che può essere una ricchezza, una risorsa per il futuro”.

Sì, il libro di Marcello Carlino è tutto questo. E molto altro ancora, ponendosi come un libro stratigrafico, di una stratigrafia particolare ovviamente, letteraria, in cui a livelli diversi si incontrano, e pur si mescolano, felicemente contaminandosi e aprendosi ad echi di risonanze profonde, filoni di ispirazione differenti.

Ma Gozzano, allora, in tutto questo?
In questo libro si riesce a fare un uso politico della poetica di Gozzano, un trascinamento di alto valore speculativo del suo ironico reducismo dalla Morte.
In realtà il verso gozzaniano, nella sua intierezza, recita: Reduce dall’ Amore e dalla Morte, reduce cioè dalle due cose belle che mentirono al poeta. Ma non è questo che conta. Conta invece, e molto, l’operazione che Carlino compie a partire dalla reductio ad unum del binomio. È il sentirsi gozzanianamente reduci dalla morte che fonda quella “coscienza del crepuscolo, della fine” (la fine che è poi “il fine a cui tendono inesorabilmente le opere e i giorni dell’uomo”), su cui può depositarsi l’ironia, il disincanto, lo straniamento e, infine, la possibilità stessa di autocoscienza e di umana saggezza.
Marcello la chiama “filosofia del tramonto” e pindaricamente la incrocia con l’esperienza degli ineguagliabili tramonti che è possibile godere dalle balconate di Frosinone. “Mai altrove ho visto –egli ci dice- spettacoli di pre-crepuscolo più stupefacenti di quello che s’accende sullo schermo della finestra del mio studio”.
E, voglio dire, è esperienza questa, quotidiana, che può appartenere a ciascuno che abbia frequentato i panorami frusinati. Ma Marcello va oltre e, oltre a Gozzano, chiama in causa il Benjamin della teoria dei panorami, che “interseca l’allegoria” e “collude con essa”, talché, per esempio, alla sua sensibilità coltivata, Fermentino e Anagni, osservate da lontano, con zoom panoramico, vengono confuse alla vista, indistinguibili nei confini, e si fanno, ai suoi occhi, simbolo di una cultura dello spaesamento, che non nega le differenze, ed anzi le afferma necessarie e produttive, ma le stesse spinge a convergere proficuamente. E questa è già occasione per una critica dell’ideologia della globalizzazione, che tutto rende uniforme e normativo, e per un rafforzamento, al contrario, della virtù dello straniamento dell’osservazione, dello sguardo deviato, perché ogni terra non è riducibile ad un senso unico, ma è definita sempre da una “pluralità di aspetti, un fascio di relazioni, un ampio polisenso”. E le differenze ci sono –abbiamo detto- e hanno diritto a esserci, le difformità si presentano, ma possono coesistere e contribuire a creare l’immagine di una realtà altra, solidale, che non sia il semplice prodotto della loro giustapposizione.
Tale chiave interpretativa si applica con spontanea evidenza alla Ciociaria, terra che anche geograficamente non consiste in una identità fissa e inamovibile, coincidente con un territorio definito da confini fisici che la racchiudano in una dimensione identitaria inappellabile. Né è riducibile esclusivamente al territorio politico-amministrativo di una provincia. Ci si può approssimare alla Ciociaria solo attraverso una “pluralità di aspetti, un fascio di relazioni, un campo polisenso”, appunto. E qui Carlino dà prova di una sintesi bruciante: la Ciociaria è contemporaneamente “sottosuolo e superficie, preesistenza e innovazione, caducità e durata, attestazione e rimozione, presenza e assenza, rivendicazione e abiura, resa all’effimero e progetto, vita e pulsione di morte, polluzione e bellezza”.
Così procedendo per termini oppositivi, gli stessi che già avevano fatto capolino dalle prime pagine del suo densissimo “libriccino”, là dove, trattando di Ceprano e di Fregellae, e di Ripi e del suo effimero sogno di petrolio, aveva cominciato a svelare la trama binaria del tracciato che intendeva percorrere, o, per meglio dire, la metodologia di opposizioni binarie che sottostà al dipanarsi della trama.

Dall’ Archeologia pensata a strati, di preesistenza in preesistenza, scendendo giù giù fino al pozzo senza fondo del pre-paleontologico della geologia pura, all’eruzione in superficie del petrolio, alla terra che, impastata delle profondità insondabili del sottosuolo, pure trasuda, erompe in superficie.
Sottosuolo/Superficie, primaria opposizione fondante. E poi Superficie come erba che l’uomo calpesta e Sottosuolo come petrolio che dal Sottosuolo erompe.
Uno scenario di campagna toscana, la campagna di Ripi, oniricamente costellata di pozzi abbandonati, di inquietanti macchine estrattrici inattive, come dormienti: ecco definito in questo gioco di allegorie binarie il sogno ricorrente, e ricorrentemente deluso, di Ripi. Un’immagine di potente forza allegorica si staglia: “Una donna con due brocche, a raccogliere l’acqua con l’una e il petrolio con l’altra”.
Acqua e Petrolio, Tradizione e Innovazione, in perpetuo inseguimento e contrasto a definire la Ciociaria. Fiuggi e Ripi, Natura e Tecnica, Natura e Scienza, come in un vecchio depliant turistico che invitava a visitare la Ciociaria.
E ancora, il moto oscillatorio perpetuo tra Disperazione e Speranza, Attesa e Delusione. E, ancora, Campagna e Città, Radici e Altrove, come “luoghi del pensiero”, in un continuo andirivieni, come nel “migrante di ritorno” dei Mari del Sud di Cesare Pavese.

E seFumone è sinteticamente riassunto e rappresentato dal contrasto brutale tra il Castello, al sommo del colle, e la guglia del gigantesco ripetitore televisivo che lo affianca come “un luttuoso, decerebrato, inamovibile monumento alla civiltà odierna”; Fermentino celebra nella sua acropoli, e nel castello medievale ancor più evidenzia, l’ambigua doppiezza del potere, che da sempre accompagna l’uomo nello svolgersi della storia. Il potere nella sua rappresentazione urbanistica, come una “madre piovra”, al tempo stesso benevola, perché pronta alla protezione del popolo da attacchi esterni, e rapace, perché istituzionalmente votato a coartare, sfruttare, asservire, rapinare e costringere quello stesso popolo, come attestato dall’esibizione delle strutture alla sua (del Potere) persistenza necessarie: carceri, mercato, luoghi di culto, deposito militare.

Ecco allora che la Ciociaria, questa terra che geograficamente non c’è, e che pure è territorio sperimentalmente realissimo, questa terra in cui coincidono paradossalmente esistenza e non-esistenza, si fa paradigma di una possibilità di riscatto, pegno di un futuro differente e migliore, “insegnandoci che una terra può, forse deve pensarsi in un sistema più ampio di relazioni, di interferenze, senza confini che la costringano”.
In questa chiave, ancora, la paradossale compresenza di esserci e non esserci, di cui ci parlano i suoi stupefacenti tramonti, richiama e si proietta su quella filosofia del tramonto, su quella gozzaniana “perplessità crepuscolare”, che è contrasto forte e demistificante di ogni monumentalizzazione autoreferenziale del potere, di ogni smania fondamentalistica e totalizzante per il sacro, viatico per il recupero del senso della temporalità, della cultura del relativismo come connaturale all’essere.

La Ciociaria -e questo è in definitiva il messaggio forte del libro-, relativa com’è financo nel suo “statuto di terra che non c’è”, entità mobile e scentrata, impastata di una storia di contrasti e contraddizioni, fatta sì di distruzioni, sofferenze, emarginazioni, che l’hanno portata più volte ad attraversare la morte, ma anche di fertili incontri (in tutto ciò è il senso della terra di viaggi che non dico), è pur sempre terra che ha più volte attraversato la morte e, gloriosa di sempre rinnovati incredibili tramonti e, dunque, della loro formidabile simbologia, insegna la fede laica nell’utopia concreta del “superamento in viaggio dei confini”, dell’apertura alla filosofia del tramonto, al recupero collaborativo delle preesistenze, all’arte “di chi guarda alla vita con gli occhi della morte”.

luglio 2007


Marcello Carlino: “CIOCIARIA quella terra di viaggi che non dico”, Guida, Napoli 2007.