il tempo della festa 
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Mario Amato
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IMPRESSIONI DI UN BREVE VIAGGIO
 
In viaggio con Ismaele (In treno)

Chiamatemi Ismaele… sono le parole con cui inizia Moby Dick, libro da associare all’Odissea, alla Divina Commedia, a Don Chisciotte. Il narratore Ismaele rende partecipi i lettori del suo viaggio: è il rimedio alla morte ed al suo fascino. Quei grandi romanzi sono anche libri di viaggio, ma viaggiare non basta; non è sufficiente porsi davanti a paesaggi reali; i protagonisti sono sempre di fronte ad un paesaggio interiore.
L’Odissea è riassumibile in poche parole: è la storia di un uomo che torna a casa; Don Chisciotte è il racconto di un uomo che abbandona la propria casa; Moby Dick è la narrazione di una caccia ad una balena bianca. Il fatto che la balena sia bianca non è straordinario, poiché in natura sono innumerevoli i casi di albinismo; straordinario è l’odio di Capitan Achab per il grande cetaceo, come straordinari sono i racconti dello stesso Ulisse, il grande mentitore, e straordinarie sono le visioni di Dante.
La letteratura è lo scarto fra la normalità che ci sta di fronte e il modo di guardarla; la poesia nasce dall’eccezionalità della visione.
Tutte le religioni affermano che la vita è un viaggio e Dante ha costruito un libro che una metafora.
Un giorno accompagnai una scolaresca in visita al Palazzo dei Papi sito in Anagni: la suora che faceva da guida, non volendo rinunciare alla gloria cittadina di Bonifacio VIII sostenne che Dante non avrebbe scritto la sua grande opera, se non fosse stato esiliando, attribuendo, con marchiano errore storico, la pena inflitta al sommo poeta a Bonifazio. Ella difendeva, a torto, il suo concittadino, ma pure affermava una grande verità. Colui che sente la missione della scrittura ha un mondo o molti dentro di sé, ma deve confrontarsi con quello esterno, con il mondo finito, perché l’idea dell’infinito proviene dal limite, dall’orizzonte.
Viaggiare è una necessità dell’anima ed è giusto farlo, come ha scritto Marguerite Yorcenaur, con la curiosità dello straniero e la devozione del pellegrino. Dove i confini svaniscono c’è il Nirvana, scriveva Hermann Hesse. Viaggiare è il rimedio alla vecchiaia, alla stanchezza, alle delusioni, alla solitudine, a tutto ciò che diviene insopportabilmente troppo uguale. Il viaggiatore deve tuttavia essere disposto ad accogliere le esperienze con stupore meraviglia e non occorre che esse siano eccezionali: può essere un tramonto, una lacrima, l’immagine d’una passante, un sorriso, un sapore nuovo o ritrovato in una bettola, il suono evocatore delle campane… È il viaggiatore che rende eccezionale il viaggio e le proprie impressioni, anche se i luoghi visitati non sono di rara bellezza.
Il viaggiatore ideale è Odisseo, curioso di tutti e di tutto, tanto che, ritornato infine ad Itaca, non saprà resistere alla tentazione di rimettersi in mare. Ulisse insegna che viaggiare è anche un rischio ed è struggersi di nostalgia.
Prima della mia partenza un’amica, vedendomi nello stato d’animo d’Ismaele, mi ricordato alcune pagine di Hermann Hesse del racconto “Il difficile cammino”: si narra di un giovane che per la prima volta lascia la sua dimora. Egli pensa a quanto sta per lasciare e si interroga se valga la pena di partire. Si mette in cammino. A sera – la prima sera della sua vita lontano la casa- si stende sull’erba, la bisaccia sul cuscino, e s’avvede di tutte le stelle che non erano visibili dalla finestra della sua camera, s’avvede che fin allora aveva contemplato soltanto un angolo del tutto. Sa in quel momento che al ritorno sarà più ricco, perché avrà ascoltato altre lingue, assaporato altre pietanze, incontrato altri sorrisi, certamente con un fondo di nostalgia, che è un sentimento di melanconica felicità. Egli potrà raccontare.
Solo io sono sopravvissuto, per raccontarvi la storia, cita infine Ismaele.
Chi viaggia può narrare. Può essere Ismaele.
Si parte per non essere dimenticati, si viaggia per conoscere, si torna per raccontare.

Firenze 3 settembre 1992 su una panchina

L’impressione più viva che mi resta dell’Odissea è Ulisse che siede e racconta: è in viaggio e racconta dei suoi viaggi con la speranza di ottenere una nave per riprendere la via del mare; incanta i suoi ascoltatori ed è a sua volta incantato dalla possibilità di viaggiare ancora e ancora…

L’universo in un paese
Contemplo Firenze da Piazzale Michelangelo, ma non voglio descrivere questo spettacolo, che può essere visto sulle cartoline illustrate, meravigliosa invenzione per coloro che restano a casa e per coloro che le spediscono quale segno tangibile della loro presenza sulla terra, quale desiderio spirituale di condividere le sensazioni del viaggio con chi si desidera vicino.
La visione di Firenze evoca Dante.
Dal Medioevo al Cinquecento Firenza fu l’Europa, la Storia, la Civiltà, eppure le grandi opere dei fiorentini nacquero lontano dalle mura cittadine: la Divina Commedia, la Cappella Sistina, capolavori che hanno in comune la caratteristica di contenere la totalità, l’universalità. Nondimeno i toscani amano il paese, il quartiere, dove nascono rancori e odi che si tramandano di generazione in generazione, attraversando la storia.
Lo spirito della faida è in contrasto con la dolcezza dei colli toscani, con i declivi che invitano alla serenità e alla pacata riflessione. I poggi cingono la città come una rigogliosa corona sulla testa d’una affascinante regina.
Fra questi rilievi si possono trovare tesori nascosti. Salendo oltre Fiesole si incontra sul lato sinistro della strada un muretto che sembra eretto per far riposare il viandante; da quel luogo può essere ammirata una piccola chiesa romanica del secolo XI. Si trova in località “Vaglia”, in contrada “Bivigliano”. Al viaggiatore non resta che entrare ed ammirare un affresco di Andrea Della Robbia (1435-1525) raffigurante la Madonna che tiene nelle braccia Gesù Bambino, attorniata dai quattro Evangelisti. Essi rappresentano il messaggio cristiano verso i quattro punti cardinali. Maria stringe a sé il figlio come madre amorosa, ma lo sguardo del bambino è diretto lontano. Le idee viaggiano.

Firenze (dintorni) 4 settembre 1992

È un teso mattino: continuando a salire si giunge al monastero di Monte Senario, fondato da sette nobili fiorentini che nell’anno del Signore 817 donarono i loro beni materiali ai poveri ed istituirono l’ordine monastico dei Sette Servi di Maria. Dal loggione di pietra si apre la visione della verdissima valle compresa fra il Mugello e Montefalterone, là ove nasce l’Arno. Si comprende che quei sette uomini, che un dipinto moderno raffigura mentre scalano il monte sul quale luminosa appare la Madonna, abbiano dedicato l’ordine a Maria Vergine: ai loro tempi la valle doveva essere uno spettacolo di purezza, splendore e semplicità.

Vienna 5 settembre 1992
Bambole a Vienna
In un vicolo di Vienna mi soffermo dinanzi ad un negozio di bambole. È un tripudio di minuti abiti di velluto, raso, seta, piccoli variopinti capolavori artigianali e la maestria della mano forgiatrice è vantata sull’insegna lignea incisa in caratteri gotici. Le bambole hanno quasi tutte i capelli biondi, solo qualcuna ha la chioma rossa, ma tutte riproducono una carnagione rosea o candida.
Fra mille segni, questo mi appare fra i più evidenti della Finis Austriae, del sogno di uno Stato sopranazionale nel quale più popoli, biondi o bruni, potessero vivere nel rispetto delle reciproche culture. Ai miei popoli iniziava l’Editto con il quale Franz Joseph II dichiarava guerra nel 1914. le bambole nella vetrina oggi sono bionde. Roth, Musil, Kafka erano bruni. Tempo dopo i loro libri bruciavano nei roghi insieme all’Europa in un incubo biondo.
Mentre contemplo le Puppen dagli aurei capelli, vedo riflessi nella vetrina un rabbino ed un giovane studente. Vestiti di nero i loro riflessi passano inconsapevolmente fra le bambole bionde, ombre che passano fra l’ombra di un’Austria che fu, un’Austria non più felix, …ombre…

Vienna 6 settembre 1992
Cartoline
Anche le bambole ritratte sulle cartoline sono candide e bionde. Le cartoline sono un vero culto nella capitale austriaca: raffigurano ogni aspetto della vita cittadina, pietanze, sale da bigliardo, quotidiani, mercati, valzer, Caffè, ristoranti, gente a passeggio..
Nei Caffè la Mitteleuropea è diventata eterna. Joseph Roth ha narrato su uno di questi tavoli la fine di un mondo, Stephan Zweig ha raccontato “Il mondo di ieri”, Egon Schiele ha vissuto il suo delirio ed ora i suoi quadri sono anche immagini per calendari: l’eternità per sfogliare il tempo appeso alla parete.
In una Konditorei vicino al duomo di Santo Stefano un cameriere mi serve un bicchierino di Schnaps ed un fetta di Apfelstrudel: l’uomo ha i baffi alla Franz Joseph o alla Radeztsky. Forse è uscito da una delle pagine di un libro di Roth o di Franz Werfel, affinché potessi scrivere questi appunti. Brindo in solitudine, nessuno siede davanti a me, ma non sono solo, c’è l’Austria dei libri di Roth, Rilke, Musil, c’è l’Austria dei libri. I protagonisti de “La cripta dei cappuccini” brindavano intorno a tavole imbandite intorno alla morte, che attendeva nei campi di battaglia.
Chi tornò non trovò il mondo che aveva lasciato. Non furono più fortunati dei caduti.
Non si può non pensare alla caducità della vita a Vienna, soprattutto se si visita la Cripta dei Cappuccini.
I sarcofaghi della famiglia imperiale sono monumenti, ma non maestosi come le piramidi egiziane o i mausolei romani. In questo luogo non si è indotti a pensare alla grandezza dell’Impero, bensì alla transitorietà terrena. Qui campeggia la parola Silentium.
L’unico sarcofago dinanzi al quale ci si avvede della Grande Storia asburgica è quello di Maria Teresa, la sovrana illuminata.
I nomi segnano il destino: il suo era duplice come l’Imperial Regia Monarchia.

Vienna 7 settembre 1992
La storia a tavola
L’amore dei viennesi è per Elisabetta, per Sissi. La sua immagine guarda i turisti da tutti gli angoli, dalle carte che impacchettano i dolci, dalle cartoline, dai biglietti dei concerti. L’eterno femminino di Sissi ha vinto su Maria Teresa, sulla grande storia.
Le donne ungheresi fecero dono ad Elisabetta di una scultura bronzea raffigurante Maria, un voto d’amore per colei che le amò.
Sissi sorridi oggi dagli angoli della città; un sorriso che vuole essere eterno ed è struggentemente trascorso.
Resto a pensare alla caducità terrena nella sala da pranzo di Hofburg, ancor più che nella Kapuzinengruft.
La tavola è apparecchiata: una candida tovaglia la veste come un abito nuziale, i bicchieri di cristallo splendono, i bianchi piatti sono cinti da un sottile filo d’oro, nel mezzo regnano insalatiera e fruttiera che terminano in alto con l’aquila bicipite sorretta dallo stemma asburgico, la croce bianca in campo rosso. In un angolo tace il grande camino. In tutte le stanze si trovano grandi stufe in piastrelle di porcellana. Gli imperatori provavano freddo. Sentivano freddo i soldati mandati a morire sui campi di battaglia per un mondo già spento, come il grande camino nella sala da pranzo. Per gli altri, per i futuri vincitori ardeva inestinguibile la fiamma dell’indipendenza e della nazionalità.
Le guide turistiche non dicono chi sedeva dalla parte del camino durante i pasti, se il Kaiser o l’imperatrice. Il buongusto suggerisce che un gentleman avrebbe ceduto il posto alla regina. E gli Asburgo erano gentiluomini!
Il tempo è trascorso, i turisti fotografano questo inconsapevole monumento alla transitorietà.
La tavola è pronta: non aspetta nessun commensale.

Un gioiello
Che cos’è una collana chiusa in una vetrina? Che cos’è un vestito che nessuna donna potrà mai indossare? Sono reliquie di vanità trascorse gli abiti e i gioielli nella camera del tesoro di Hofburg. Furono indossati per gli occhi e forse gli sguardi delle turiste immaginano vesti e gioie su di loro.
In una di queste vetrine si può ammirare una scultura lignea raffigurante la morte di Ferdinando III d’Asburgo. L’opera di Daniel Neuberg (1621-1680) rappresenta otto scheletri intorno alla bara.
I nomi segnano il destino: Daniele è il nome di un profeta. Fra abiti e gioielli è l’unica scena di dolore. Anche il pensiero di coloro che indossarono vesti e monili provoca dolore.
Gli scheletri portano via l’impero, le vesti sono spoglie…

8 settembre 1992
A passeggio
Non so se i poeti meritino un monumento: quello dedicato a Goethe nel Burggarten è regale. Il poeta siede su una poltrona che pare essere un treno, le mani poggiate sui braccioli, guardando in basso, ma non sembra interessarsi di quanto accade sotto di sé, non sembra accorgersi del turista che giunge dalla scalinata e si trova sovrastato dall’imponente statua. Grandiosa è anche la figura di Mozart, che ha reso soprannazionale l’Austria più d’ogni Kaiser.
Fra questi marmi vi è anche quello di Franz Joseph II: ritrae un signore in borghese con cilindro e cappello, un signore che cammina nel parco, un po’ pensieroso.
Passeggiava nel parco l’imperatore dopo la morte dell’amata Sissi. Egli le sopravvisse, ma nell’Europa l’imperial regia Monarchia stava morendo. Viennesi e turisti incontrano l’imperatore nel parco. A cosa pensava il Kaiser durante quelle passeggiate? A Karl, che mai sarebbe stato un vero imperatore? Ai primi giorni felici con Sissi? Ai soldati inviati a combattere per un mondo che era alla fine? Forse nelle mattine di primavera o nelle sere d’autunno di quel 1915 e di quel 1916 Franz Joseph distribuiva briciole agli uccellini, come un vecchio signore in pensione.
Chi è imperatore tramonta, come gli imperi, non va in pensione.
Non poteva sopravvivere alla Imperiale Regia Monarchia.
È bene non fermarsi a lungo dinanzi alla statua di Franz Joseph II, ma salutare sottovoce e continuare il cammino…
Non disturbate quel vecchio signore che passeggia…