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Mario Amato
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I VIAGGI DI DEMETRIO FALEREO
A Franco e Alfonso
 
"E Tu Grecia felice"
Friedrich Hölderlin


Demetrio Falereo stava seduto di fronte alla linea dell'orizzonte.
I ricordi si affollavano nella sua mente e dinanzi agli occhi: la sua città, la bella e giovane moglie, i figli ancora infanti.
La sposa aveva ora forse i capelli bianchi ed il viso scavato da rughe o era morta, i figli si erano fatti uomini, si erano innamorati, avevano procreato, ma egli non aveva visto la semplice meravigliosa storia della sua famiglia.
La sua discendenza non sapeva nulla di lui, se non che un giorno era partito per un'alta missione.
Nella mente scorrevano i nomi di tutte le città visitate, i volti degli uomini ai quali s'era accostato e delle donne dei postriboli che lo avevano consolato nelle notti struggenti di nostalgia. E quelle notti erano state senza numero.
Sapeva che non sarebbe mai più tornato ad Atene, che la fine del viaggio sarebbe stato il termine stesso della sua vita, sapeva che la sua lapide sarebbe rimasta illacrimata e che il suo nome scolpito sulla pietra non avrebbe donato nessuna reminiscenza al passeggero. Di tutte le città in cui aveva camminato soltanto Atene gli pareva degna di essere ricordata, di tutte le donne conosciute soltanto la moglie ritornava nel ricordo, e quella memoria era nelle mani, nelle narici, negli occhi. Ad Atene, tuttavia, se mai un giorno avesse calcato nuovamente il sacro suolo della patria, sarebbe stato uno straniero; la moglie, se mai un giorno si fosse presentato nuovamente al suo cospetto, non l'avrebbe riconosciuto.
Pensava ad un altro viaggiatore di cui aveva ascoltato le gesta, pensava ad Odisseo, l'eroe già memorabile, che assiso dinanzi a re e regine narrava le storie dei suoi viaggi senza mai stancare gli ascoltatori.
Demetrio Falereo stava invece seduto in un angolo del mondo, solo e senza alcuna parola da dire, muto nelle labbra e nell'anima, consapevole che i suoi giorni terreni non sarebbero stati degni di menzione. I veri eroi vanno per mare, mettono a rischio la loro vita e quella dei marinai, e principesse e maghe e semidee si innamorano, pur sapendo di essere dimenticate in fretta, perché gli eroi hanno molti orizzonti, ma Ulisse e quelli simili a lui viaggiano per sé stessi, per i loro volgari piaceri, per cercare tesori e ricchezze, e diventano altéri, pretendono che le loro imprese siano riconosciute e celebrate come glorie del mondo e di tutti gli uomini.
L'umile studioso Demetrio Falereo invece aveva viaggiato non trasportato dalle onde del mare, non in compagnia di amici fedeli, non per proprio vanto e piacere. Aveva camminato con vigore da giovane, con cautela nella maturità, con passo lento e grave nella vecchiaia, e tutte le orme che aveva lasciato erano state incise per gli uomini a venire.
Egli non aveva dimenticato nessun passo, ed i suoi passi si erano diretti in tutte le direzioni.
Stava completamente immobile rievocando ogni momento del suo viaggio: aveva visto l'Oriente, aveva saggiato la calura del Meridione, aveva varcato i confini del Settentrione, aveva contemplato con rispetto le sacre colonne.
I volti degli uomini che aveva conosciuto si stagliavano nitidi nella memoria, ma uno su tutti prevaleva.
Una mattina, una bella mattina assolata si era destato felice, aveva ascoltato i servi lavorare, aveva ammirato il corpo dalla pelle levigata della sua giovane consorte, aveva guardato i campi ben lavorati e ricchi di messi, olivi e filari di viti, aveva camminato nella casa pulita ed addobbata con raffinatezza, si era infine sentito orgoglioso che nella sua dimora si poteva trovare refrigerio in estate e calore in inverno e che gli ospiti lodavano il suo nome.
Un ospite era giunto quella mattina. Era il nunzio del Grande Imperatore.
Prima ancora di leggere il messaggio, Demetrio Falereo aveva invitato il messaggero a smontare da cavallo ed entrare in casa ed aveva affidato lo stanco animale ai suoi servi, affinché lo strigliassero e gli dessero acqua e biada. Il legato era stato affidato alle ancelle.
Il messo, qualunque fosse stata l'ambasciata, avrebbe riferito al Grande Imperatore l'encomiabile ospitalità del saggio Demetrio Falereo, amante dei libri e del sapere.
Il latore imperiale aveva accettato di buon grado, poiché non gli era stato fatto espresso divieto del contrario.
Demetrio non ricordava il nome di quel giovane, ma il suo viso di guerriero macedone era scolpito nella mente come un segno sulla roccia, scavato da paziente pioggia secolare, come i segni che egli aveva raccolto in tutto il mondo noto e in quello ancora a molti oscuro.
A sera il macedone si ristorò con cacciagione ben cucinata e dolce vino, ascoltò un'avvenente serva cantare, ammirò un'altra danzare, ascoltò le fole di un rapsodo, riposò infine su un soffice giaciglio.
Terminato il banchetto all'alba, il padrone invitò a riferire il messaggio dell'Imperatore, ma il nunzio non proferì parola e consegnò uno scritto "Io Alessandro il Macedone, il Grande, conosciuta la fama di sapiente di Demetrio Falereo, ordino che egli compaia al mio cospetto". Invano l'ateniese chiese al messo quali fossero le ragioni di quell'ordine: egli non sapeva, aveva soltanto preso la pergamena dalle mani del Re dei Re e comprendeva che fra i suoi compiti vi era anche quello di scortare Demetrio Falereo fino ad Alessandria, fino al palazzo imperiale.
E sapeva che all'Imperatore non piaceva attendere.
Il messo imperiale non avrebbe rivisto né Alessandria né il suo imperatore, l'ateniese non avrebbe rivisto né la sua città né la sua casa.
Bisognava partire prontamente e Demetrio Falereo ordinò di preparare il carro ed i viveri, indossò la veste da viaggio, prese dalle mani della moglie la toga che avrebbe indossato dinanzi all'Imperatore, abbracciò e baciò la consorte e sentì nascere ancora una volta il desiderio. Alessandria era lontana ed il viaggio pieno d'insidie; il messaggio faceva cenno alcuno al ritorno.
Il desiderio rinasceva in quell'angolo di mondo ove stava seduto Demetrio Falereo.
Quanto tempo sarebbe stato lontano? La sua bella moglie avrebbe atteso il ritorno come Penelope aveva aspettato Ulisse? C'erano ad Atene uomini affascinanti ed anche nella sua stessa casa vivevano schiavi dalle belle fattezze. Quanto a lungo può resistere al desiderio una giovane donna? Chi avrebbe governato l'andamento della casa e delle terre?
Nel cuore di Demetrio Falereo si aprivano dubbi ed incertezze ed anche sottentrava un sentimento nuovo e terribile: l'odio.
Era odio per l'Imperatore, un barbaro venuto da monti rocciosi a portare violenza, dividere famiglie, sconfiggere la civiltà.
Quell'impulso non percorreva una via diritta verso l'Imperatore, ma deviava verso un'altra più breve e più angusta e giungeva al bersaglio più vicino, a colui che aveva recato il messaggio e che ora dormiva tranquillamente in una stanza della casa; anche costui era un barbaro ed aspettava che un ateniese, un uomo sapiente, un erede della Grecia delle città ottemperasse ad un ordine recato da lui, forse l'ultimo dei soldati di Alessandro.
C'era stato un tempo ad Atene durante il quale nessun uomo ordinava ad un altro, un tempo durante il quale le leggi erano discusse e decise in pubbliche assemblee e non vi erano re e sudditi, ma semplicemente cittadini. Quale fondamento aveva questo Alessandro per dirsi il Grande, per ritenersi Re dei Re se non quello del suo barbaro sangue che lo incitava a combattere, distruggere, saccheggiare? Chi erano gli avi di costui? Erano stati forse poeti o filosofi o piuttosto rozzi pastori puzzolenti di letame di pecore e capre? Ed anche gli antenati del legato, di quell'uomo che se ne stava cheto ad attendere obbedienza, avevano avuto lo stesso sgradevole odore e non avevano neanche immaginato che potessero esistere città, templi, teatri, leggi, scrittura, scuole: civiltà.
Il messaggio dell'imperatore giaceva aperto su un tavolo, inciso nei suoi bei caratteri sulla elegante pergamena simile ad una sentenza.
Demetrio Falereo stava immobile di fronte all'orizzonte: preciso dai ricordi sorgeva il volto del messaggero e gli pareva uguale a quello dell'Imperatore.
In quel lontano mattino Demetrio pensò che il messo incarnasse non soltanto la volontà di Alessandro il Grande, ma lo stesso Imperatore, pensò che i due uomini fossero fatti della stessa carne e dello stesso sangue: quando affondò il gladio nel petto del messaggero e spinse fino a trapassare il cuore barbaro, gli parve di uccidere Alessandro.
Il viaggio fu lungo e non facile: alcuni uomini e cavalli morirono, alcune merci furono perdute, altre acquistate.
Giunsero ad Alessandria, capitale del mondo: Demetrio non vide templi e teatri, ma un edificio grande quanto la città. Era il palazzo imperiale.
La costruzione constava di giardini, seguiti da saloni e poi ancora da giardini, e ovunque erano soldati in armi e più si avanzava più erano i soldati.
Ed era silenzio.
Giunse infine di fronte ad un'enorme porta di bronzo scolpita con bassorilievi raffiguranti le vittoriose battaglie di Alessandro il Macedone.
La porta si aprì lentamente e lo sguardo di Demetrio Falereo si perse nella lontananza come a volte accade guardando l'infinito. Alla fine del salone, laggiù all'orizzonte, sorgeva imponente il trono ove stava assiso Alessandro il Grande.
Demetrio Falereo stava seduto in un angolo del mondo.
L'Imperatore doveva aver fatto un cenno, poiché il corteo iniziò ad avanzare; i passi risuonavano nella vastità e nel silenzio, i soldati ai lati erano immobili, la stanza era piena di luce, sebbene non si comprendesse da dove provenisse, forse dallo stesso Alessandro.
Il tragitto dalla bronzea porta al trono parve a Demetrio durare quanto il viaggio da Atene ad Alessandria.
Sotto all'alto scanno l'ateniese chinò il capo. In verità nessuno aveva richiesto quel gesto servile, ma esso era stato generato dal silenzio, dai militi scintillanti nelle loro corazze, dall'imponenza del soglio, dalla maestosità della figura di Alessandro avvolta in una veste d'oro.
L'Imperatore si sollevò e discese lentamente i gradini ed indicò all'ateniese di seguirlo: uscirono su una terrazza ove altri soldati montavano la guardia, il Re dei Re parlò << Guarda, ateniese>>. Non molto lontano si vedeva una moltitudine di uomini che si muovevano con fervore intorno ad una costruzione in atto, una costruzione della quale non si scorgeva la fine. Osservando più attentamente, Demetrio Falereo distinse muratori, architetti e capomastri. <>.(1)
Demetrio Falereo chinò il capo e cominciò ad indietreggiare. L'Imperatore, che mai fino allora aveva guardato l'ospite, si voltò fissandolo negli occhi e chiese << Dov'è il mio messaggero? >>.
Stava seduto immobile dinanzi alla linea dell'orizzonte e ricordava con esattezza le parole dell'Imperatore, ricordava il viso imberbe, ma non ricordava se avesse risposto. Ricordava che in quell'ora era iniziato il suo destino. Era la prima volta da quel remoto giorno che pensava alla domanda di Alessandro e al messaggero, atteso forse da una moglie e dai figli. Pericoli si celano in tutte le vie e i messaggeri hanno scelto di essere messaggeri. Anch'egli era diventato un ambasciatore, era il nunzio di un sogno.
Demetrio Falereo vagò per tutto il mondo alla ricerca di tutti i libri ed allorché non trovava la copia di un volume, egli stesso provvedeva al duplicato.
Tornava ad Alessandria con il suo carico pregiato, sperando sempre nell'ultimo viaggio, confidando di poter riabbracciare la consorte, rivedere i figli, camminare attraverso le strade lastricate della sua città. In qualche luogo sperduto tuttavia era stato scritto un nuovo libro ed egli doveva rimettersi in cammino e a volte doveva percorrere le stesse vie, parlare con gli stessi uomini, ripetere parole già dette; altre volte doveva contrattare a lungo il prezzo di un libro, poiché i notabili della città dove era giunto volevano erigere una biblioteca universale ed erano restii a privarsi di un solo volume. Anche quando seppe della morte di Alessandro egli continuò il suo compito.
Dov'è il sepolcro dell'imperatore? Esso è perso per sempre, ignoto come l'urna che racchiude le ossa di Demetrio Falereo.
Gli scribi della biblioteca di Alessandria prendevano i libri dalle sue mani senza mai ringraziarlo, indifferenti alla fatica del viaggiatore, alla polvere che respirava nelle strade, alla fame, alla sete, alla pioggia, al freddo, all'afa, ai dolori, a tutto ciò che sopportava in silenzio; prendevano i volumi in silenzio, poiché il silenzio regnava in quel luogo.
E nell'anima di Demetrio Falereo.
Il silenzio regnava ovunque: un tempo le città parlavano, i rapsodi narravano, i versi degli attori echeggiavano nei sacri teatri, i filosofi discorrevano nelle piazze. Ora i teatri tacevano e a volte si vedeva un uomo solitario assorto nella lettura, seduto sulle gradinate; non v'erano più aedi, non più v'erano maestri che dialogavano con i fanciulli, ma si aggiravano muti nei ginnasi con le loro pergamene spiegate.
Il mondo taceva.(2)
Demetrio Falereo stava seduto di fronte alla linea dell'orizzonte e ricordava ogni singolo momento della sua vita. Dinanzi ai suoi occhi s'innalzavano le fiamme della biblioteca di Alessandria e fra esse appariva il volto del messaggero o forse dell'imperatore Alessandro il Grande.
Al dibattimento qualcuno disse di aver visto la figura di un vecchio allontanarsi, qualcun altro affermò che l'uomo visto fuggire assomigliava a quello che portava i libri.
La cenere coprì Demetrio Falereo, il Grande Imperatore, la Biblioteca di Alessandria. Da allora biblioteche vengono edificate in tutta la terra.
Da quel tempo noi scribi della biblioteca di Alessandria vaghiamo per ogni dove, perché soltanto i sogni sopravvivono.
Uno scriba si fermò un giorno sulla terra bruciata di Alessandria e scrisse la storia di Demetrio Falereo.

NOTE:
1) L'incarico di raccogliere tutti i libri esistenti fu assegnato all'arconte di Atene Demetrio Falereo da Tolomeo II. Vedi Luciano Canfora, La trasmissione del sapere, in "I Greci, Noi e i Greci", pag. 648, 649
2) La pratica di leggere in silenzio è successiva al tempo nel quale ho ambientato il racconto. J. L. Borges la attribuisce a Sant'Ambrogio. Del culto dei libri, Mondadori, pag.1010-1015. Per tale problema vedi anche Carles Miralles, L'intellettuale nella Grecia antica, in "I Greci, Noi e i Greci", op. cit. pag. 848-882