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Mario Amato
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LETTERE DA LONTANO - Seconda Parte
 
CAPITOLO SESTO


Perché Berlino?


Perché Berlino e non Praga? Federico aveva sperato che la destinazione di Iris fosse Praga. Se gli avessero chiesto quale fosse il suo scrittore preferito o il libro migliore che avesse letto, Federico non avrebbe saputo rispondere, perché ogni libro è un’esperienza diversa, tuttavia egli aveva un amore particolare per Franz Kafka. Non erano soltanto i racconti e i romanzi di Kafka che lo affascinavano, ma anche immaginare lo scrittore seduto nella sua piccola stanza in completa solitudine, teso ad ascoltare il silenzio della notte e dei suoi sogni. Molte volte aveva pensato e progettato di visitare Praga, ma aveva sempre rimandato. Ed anche ora questa occasione sfuggiva. In fondo non era un viaggio di piacere. In compagnia di questi pensieri Federico stava sprofondato nel sedile del vagone del treno per Berlino. Con gli occhi socchiusi sentiva il vocio della gente che saliva sul treno, sistemava i bagagli, ma ogni rumore gli giungeva attutito, come da una lontananza infinita, segno che stava per addormentarsi; infatti, non si accorse del momento della partenza. Era già stato una volta a Berlino, nell’età heidelberghiana, come egli stesso chiamava quella fase della sua vita, e ricordava come aveva raccontato quei tre brevi giorni a Pablo e Fiona.

«Cosa ci racconti di Berlino?».
«Che cosa vuoi sapere, Pablo?».
«Raccontaci la città».
«Fiona, hai letto “Berlin Alexanderplatz” di Döblin? Berlino non è diversa da quella rappresentata nel romanzo».
«Federico, l’ho detto già mille volte, tu sei troppo letterario e la vita non è un libro. Vogliamo sapere quello che hai fatto in quei tre giorni».
«Pablo, lo sai, sono stato interrogato da un Vopos».
«Sei andato a Berlino est?».
«Sì, Fiona».
«E perché sei stato interrogato? Che hai fatto?».
«Non ho fatto niente. Alla frontiera mi hanno detto di aprire la sacca da viaggio e dentro c’era un libro proibito nella Germania Est».
«Che libro?».
«I racconti di Joseph Roth».
«Ed è un libro proibito?».
«Sì».
«Racconta».
«Un uomo mi ha ordinato di seguirlo; siamo scesi per una scala strana, di metallo, a chiocciola, molto stretta, fino ad una stanza dove c’era soltanto un tavolo. L’uomo mi ha chiesto di mettermi con le spalle al muro ed aspettare ed è andato via. Subito si è acceso un riflettore, puntato su di me. Dopo un quarto d’ora è arrivato un altro uomo, ma io vedevo soltanto i suoi stivali. Stava dietro il tavolo ed ha cominciato a chiedermi il mio nome, la nazionalità, come mai parlassi tedesco, cosa facessi in Germania e poi ricominciava con le stesse domande, ma in ordine diverso».
«Quanto è durato l’interrogatorio?».
«Più di un’ora».
«Hai avuto paura?».
«Certo che ho avuto paura. Lo sapete, quando sono uscito dalla stanza, mi sono accorto di aver fatto pipì nei pantaloni».
«Che bambino!».
«Pablo, non sfottere Federico. Anche tu avresti avuto paura».
«Certo, ma immagina che puzza adesso ad Alexanderplatz!».
La conversazione si chiuse con una risata.
Il Neckar forse ascoltava, anche quando ognuno dei tre amici sedeva da solo sulla panchina e pensava. Fiona si chiedeva perché né Pablo né Federico la amassero e ognuno dei due si domandava se fosse innamorato di Fiona o se lo fosse l’altro. Il fiume continuava il suo mormorio eterno.


I ricordi si confondevano con il vocio dei passeggeri e con le scene che si alternavano al finestrino allorché Federico, di tanto in tanto, apriva gli occhi. L’altoparlante interno annunciò che stavano per arrivare a Berlino. Perché Berlino? Si chiese ancora una volta Federico. Che cosa rappresentava Berlino per lui, oltre al ricordo dell’interrogatorio con il Vopos? Forse niente, se non una città legata ai libri che aveva letto, però per Federico i libri rappresentavano la vita, soprattutto la vita notturna. Un verso di J. L. Borges, autore amato da Federico, recita “Le mie notti sono fatte di Virgilio“; le notti di Federico erano fatte di Thomas Mann, Joseph Roth, Borges ed altri autori. Berlino era un’immagine su libri di storia con bandiere con la svastica e il palco su cui era Hitler, era l’immagine della città rasa al suolo, era una scena in bianco e nero del film “Berlino anno zero” di Rossellini in cui donne trascinano carretti con poche coperte o di bambini che giocano tra le macerie, era il ricordo della pagina del romanzo di Alfred Döblin “Berlin Alexanderplatz” in cui Franz Biberkopf si trova solo nella confusione della piazza e comprende che tutta la sua vita disperata dipende da lui.

Era l’imbrunire e i tre amici si trovavano, come al solito a quell’ora, sulla panchina di fronte al Neckar, quando una ragazza con i capelli in disordine, la gonna lunga dal colore sbiadito, i sandali consumati, si avvicinò e chiese una sigaretta. Mentre Federico stava per regalarle l’intero pacchetto, un ragazzo, che i tre conoscevano, urlò ed iniziò a dire alla fanciulla di essere un commissario di polizia e di volerla condurre in questura. Fiona, Pablo e Federico rassicurarono la ragazza, palesemente spaventata, e riuscirono a mandar via quell’uomo con cui non avevano alcuna amicizia.
«Questo è il vero problema del mondo moderno» disse Federico.
«La ragazza o quello che l’ha spaventata?» chiese Fiona.
«Entrambi, naturalmente» aggiunse Pablo, come se sapesse già ciò che voleva dire Federico, forse per discorsi già avvenuti.
«Non capisco» confessò Fiona.
«Ascolta» precisò Federico «Con lo scoppio della rivoluzione industriale il problema era il raggiungimento della dignità, anche economica, da parte del proletariato. Molti passi avanti sono stati fatti per questo, anche se c’è molta strada ancora, ma sarà percorsa in qualche modo. Lo sai che la Germania ha la maggiore percentuale di vagabondi d’Europa?».
«La ricca Germania?» domandò sorpresa Fiona.
«Sì, la ricca Germania!».
«Che c’entra con il proletariato?» incalzò Fiona.
«In Germania molti adolescenti abbandonano le famiglie e vanno ad ingrossare il numero dei vagabondi, dei disperati che vivono sotto i ponti e diventano alcolizzati, drogati, criminali, mendicanti. Questo accade anche negli Stati Uniti. Il sogno americano è una delle più grandi bugie della storia» continuò Federico.
«Non mi hai risposto».
«Lo faccio subito. Il vero problema del mondo moderno è il sottoproletariato ed è un problema di difficile soluzione» concluse Federico.
«Perché di difficile soluzione?».
«Perché gli esseri umani che compongono il sottoproletariato sono di diversa estrazione sociale e non sono inquadrabili politicamente» intervenne Pablo.
«Tutto giusto. La ragazza rappresenta il sottoproletariato. E quell’uomo che l’ha spaventata? Perché è un problema sociale e politico?» continuò a chiedere Fiona.
«Anche religioso!» continuò lo spagnolo «C’è dunque un’umanità che vive ai margini, uomini e donne che sfioriamo ogni giorno della nostra vita e di cui non ci accorgiamo, se non raramente, se non per un attimo impercettibile. Noi non siamo religiosi, ma dovremmo ricordare che, volenti o nolenti, nella nostra cultura c’è il cristianesimo o almeno una parte di esso. “Non fare agli altri ciò che non vuoi sia fatto a te” non è un principio cristiano, è un principio sociale. L’uomo che ha spaventato la ragazza rappresenta il vero inferno della nostra società: l’incomprensione verso i più deboli, verso coloro che sono stati sconfitti dalla vita, anche se la vita non dovrebbe mai essere una battaglia o una guerra. Anche gli Stati sono colpevoli».
«Perché?».
«Che cosa fa lo Stato per queste persone? Dice: sei scappato da casa? Sei un mendicante? È stata una tua scelta, non è affar mio. E se crepi, è un pensiero in meno per me».
«Cosa si può fare allora?».
«Iniziare dai bambini» disse Federico.
«Dai bambini?».
«Certo. Iniziare dalle scuole: educare i bambini al rispetto per tutti».
«Io farò la maestra un giorno e se mi verrà in mente di dare uno schiaffo ad un bambino, ricorderò questo discorso. Credo che non dimenticherò mai il viso di quella ragazza».
La conversazione era terminata, si era fatto buio, i riflessi dei lampioni tremolavano nell’acqua del fiume, ma gli amici non avevano voglia di alzarsi. Il Neckar scorreva …


Erano immagini in bianco e nero e così gli sembrava la città allorché scese dal treno. In fondo non gli dispiaceva essere a Berlino, perché dopo aver subito l’interrogatorio da parte del Vopos, non l’aveva visitata ed ora si presentava l’occasione. Ecco ancora una volta si sentì in colpa: non era un turista ed aveva un compito da assolvere. Ma chi non ne ha? E bisogna trascurare i piaceri per adempiere il proprio dovere? La vita è fatta di pause come i viaggi sono fatti di soste e deviazioni. Erano forse soltanto auto-giustificazioni, ma che importava? Non aveva prenotato nessun albergo, però non gli dispiaceva andare, per così dire, all’avventura. Non aveva chiesto il nome dell’albergo dove risiedeva Iris, ma per timore di prendervi una stanza decise di telefonare. Aveva pensato che se si fossero incontrati per caso, Iris avrebbe potuto avere un’impressione troppo violenta, qualora lo avesse riconosciuto. Mentre si avviava verso la cabina, passò dinanzi al binario dal quale partiva il treno D 1249, diretto ad Astana, la nuova capitale del Kazakistan. Anna aveva lavorato e vissuto in Kazakistan, dove una sua parente aveva trascorso dieci anni in un Gulag. Era a Berlino, dove un pazzo di nome Hitler aveva avviato lo sterminio di molti esseri umani. Lager, Gulag! Perché gli uomini sono così pazzi! Anna ora era tranquilla, vagava per casa, leggeva libri, guardava la televisione, si occupava dei due cani e dei molti gatti, curava il giardino, ma si possono dimenticare anni oscuri e senza speranza? I nonni di Sirvat erano da qualche parte sul Mussa Dagh e forse i loro cadaveri non avevano avuto sepoltura.
Seppe il nome dell’albergo di Iris. Si recò all’ufficio d’arrivo della stazione e prenotò una stanza al NH Berlin Alexanderplatz, perché il nome della piazza gli ricordava la conversazione con Fiona e Pablo ed anche perché gli sembrava così di rendere omaggio a Franz Biberkopf, uno dei primi sottoproletari della letteratura. Il giudizio di Pablo era veritiero: Federico era malato di letteratura. Era mattina presto e Federico giunse all’albergo in orario per accedere alla camera e per fare colazione. La sala pranzo era ampia e il cameriere chiese al nuovo cliente se preferisse la colazione calda o fredda. Federico era abituato a mangiare abbondantemente al mattino: prese una tazza di caffè nero con un po’ di latte, tre fette di pane nero con varie marmellate e una porzione di Apfelstrudel. Infine si recò in camera per una doccia e si gettò sul letto. Il sonno venne senza farsi attendere. In fondo un viaggio in treno stanca, anche se si sta seduti in un continuo dormiveglia, tuttavia nel breve tempo anteriore al sonno a Federico pareva ancora di sentire il rumore monotono del treno, che custodiva i suoi pensieri o li conduceva lontano, forse a Praga, che non avrebbe ancora visto, forse a casa, insieme ad Anna, forse ancora una volta nella sua Heidelberg, sulla panchina con i suoi amici stranieri. Stranieri? Ci si può sentire stranieri ovunque, perfino nel proprio paese, perfino nella propria casa. Non gli erano sembrate forse sconosciute le stanze della sua abitazione dopo ogni trapasso dei suoi familiari o più semplicemente non gli era mancato l’odore delle mattine nelle vie e nei vicoli di Heidelberg al ritorno al paese? Ed anche ora, a volte, quando usciva di casa per recarsi al lavoro, il ricordo di quel profumo lo investiva e portava con sé anche le voci di Fiona e di Pablo. Dove si è di casa? Non erano state case – Heimat, per essere più precisi – le panchine su cui si era seduto, le taverne dove si era fermato, la lingua che aveva imparato e che faceva parte del suo essere, le poche donne che aveva conosciuto? Casa, patria, parole che avevano senso soltanto se le associava ad un volto, ad un aroma, ad un sapore, ad una voce. Fiona, Pablo, Patrizia, Anna, Angelika, la fanciulla, Franco, Renato erano la sua patria, come Antonio, la madre ed il padre. La parola “nazione” non aveva alcun senso senza di loro o senza il loro ricordo.
Si svegliò alle undici. Era ora di uscire e continuare la ricerca. Il clima era rigido, nonostante la giornata fosse illuminata dal sole. Federico alzò gli occhi verso la torre di Alexanderplatz, che prima della sua punta presenta una sfera. Sfiorò la stazione della metropolitana. La piazza era per lui quella descritta nel libro di Döblin, attraversata da tram che rendevano rumorosamente insopportabile la vita. Ora c’era la metropolitana, che portava la vita sottoterra, nascondendola. Pensò a Franz Biberkopf, appoggiato ad un palo della luce in Alexanderplatz, solo e sconosciuto anche a se stesso. Dentro di sé Federico sorrise: non si sentiva come il personaggio del romanzo. Il caos cittadino descritto da Döblin assomigliava ad un perfetto stato di calma, paragonato a quello delle attuali città. Si sentì comunque contento di essere solo. Anch’egli era in un perfetto stato di calma, sebbene la ricerca lo preoccupasse. Era forse lieto di non aver trovato ancora Iris? E perché? Per paura del turbamento che ella avrebbe potuto provare? Oppure perché in fondo gli faceva piacere girare per l’Europa, vagabondare per le vie delle città, trovarsi ora in Alexanderplatz ed interrogarsi sulle ragioni che lo spingevano a proseguire il viaggio? Era in Alexanderplatz, solo, senza sapere dove andare, come Franz Biberkopf oppure come Franz Tunda, il protagonista di un romanzo di Joseph Roth(5), che si ritrova, dopo la prima guerra mondiale, a Parigi, in piazza della Concordia ed “ascolta rapito il canto dei tarli”. Federico non era né un sottoproletario, né un uomo in perenne fuga e la sua non era una grande avventura, ma una semplice storia personale. Era in Alexanderplatz: ripeteva spesso dentro di sé di essere là. E si domandava perché. Da quale biblioteca iniziare? Presso un chiosco comprò una cartina della città: a Vienna era stato in grado di girare senza mappa, grazie ai romanzi degli autori letti, ma Berlino era cambiata totalmente rispetto alla città che conosceva dai libri. Berlino sembrava un cantiere aperto. Iniziò dalla Universitäbibliothek, sebbene fosse distante. Scese nella stazione della metropolitana: migliaia e migliaia di esseri umani nascosti, sogni, delusioni, speranze, amori, odii che scorrono sottoterra in tutte le grandi città. Nel silenzio della biblioteca universitaria non trovò Iris. Il mezzogiorno era passato. Guardò sul retro della mappa i nomi dei ristoranti e decise di andare all’Oberbaum Restaurant. Fu contento della scelta, perché qui, mentre mangiava una Boulette, una polpetta fritta, e beveva la tipica birra Berlinerweiβe, poteva guardare il fiume Sprea. Gli parve di veder passare Iris sul ponte. Sul Ponte Vecchio di Heidelberg si erano conosciuti ed era logico che si incontrassero nuovamente su un ponte. Pagò in fretta ed uscì, ma giunto sul ponte, si trovò completamente solo. Da che parte andare? Si sporse per guardare il fiume ed ancora una volta quelle acque si confusero con quelle del lontano Neckar.

«Qual è l’ultimo libro che hai letto?» chiese Federico a Fiona.
«Quello che mi hai consigliato».
«“Il ponte sulla Drina” di Ivo Andric?».
«Sì».
«Che ne pensi?».
«Avevi ragione. È un grande romanzo, un capolavoro assoluto. Il terzo capitolo mi ha sconvolto»(6).
«Perché?»
«Per la descrizione dell’impalata a cui viene sottoposto l’attentatore. È eccessivamente minuziosa».
«Doveva esserla».
«Per te non è stato sconvolgente quel capitolo?»
«No. È un altro capitolo che mi ha sconvolto».
«Quale?».
«Il capitolo in cui l’imam, il rabbino ed il pope discutono, seduti sulla panchina, sul sofà di pietra, per decidere chi debba andare a parlare con il comandante austriaco».
«Cosa c’è di sconvolgente?».
«È un’immagine di un mondo perduto: tre rappresentanti di tre religioni e di tre culture diverse siedono e parlano da buoni amici, ma questo è possibile per l’ultima volta, perché di lì a poco si sarebbe scatenata la prima guerra mondiale e con essa i maledetti nazionalismi. Solo negli Imperi era possibile vivere tutti insieme senza odiarsi, senza idee di supremazia di un popolo su un altro».
«Anche noi tre apparteniamo a nazioni e culture diverse e siamo buoni amici».
«Certamente, ma noi non rappresentiamo nulla. Siamo pur sempre stranieri qui. A proposito, dov’è Pablo?».
«È andato a Stoccarda. Torna domani. Federico, lavori stasera?».
«Certamente».
«Avevo pensato di cenare insieme da qualche parte».
«Non posso. Avrei dovuto avvertire almeno con due giorni di anticipo».
Chissà se Fiona aveva fatto la stessa proposta a Pablo, quando Federico si trovava a Berlino.
«Ho un’idea».
«Dimmi».
«Hai mai visto Heidelberg deserta?».
«Come è possibile? È sempre piena di turisti e di studenti come noi».
«Lo sai che dopo il lavoro in birreria vado al forno e prendo il pane per portarlo in vari ristoranti. Vieni alle tre e mezzo dinanzi al forno con la bicicletta».
«Alle tre e mezzo di mattina?».
«Ovviamente».
«Va bene. Metterò la sveglia, ma non sono sicura di alzarmi».
Fiona fu puntuale e cominciarono il giro per la cittadina. Entrando sul Ponte Vecchio echeggiò lo sferraglio delle vecchie biciclette sulle poche assi di legno che si trovano all’inizio dalla parte della nuova di Heidelberg. A metà ponte Federico fece segno di fermarsi.
«Ascolta».
Fiona non aveva mai sentito prima d’allora tanto distintamente il mormorio del Neckar. Esso sarebbe rimasto per sempre impresso nella memoria.
«Tra poco ci addentreremo nei vicoli. Respira intensamente i profumi».
L’aroma di pane appena sfornato li investì.


Federico si sentì scuotere per un braccio.
«Alles in Ordnung?» (Tutto a posto?)
«Alles in Ordnung. Danke».
Era una poliziotta. Era già l’imbrunire. Quanto tempo aveva guardato il fiume? Le ore erano trascorse trasportate dall’acqua dello Sprea o del Neckar verso un mare di ricordi. Quel tempo era lontano: Heidelberg era lontana, Fiona era lontana, le biciclette erano lontane. Erano nelle acque del Neckar. Ora c’era altro da fare: non più vagabondare per ascoltare il mormorio del fiume, per respirare l’aroma del pane, per cogliere attimi da imprimere nella memoria, ma cercare un filo che potesse ricomporre una storia spezzata, che potesse dare un senso ad un amore incompiuto. Dopo aver mostrato la carta d’identità alla poliziotta, Federico si avviò per tornare in albergo. Un negozio nei pressi della stazione della metropolitana offriva a poco prezzo un pezzo del muro di Berlino. Quante vite aveva spezzato quel muro? Mogli, mariti, sorelle, fratelli, madri, padri, figlie e figli divisi in una sola notte. Una donna forse era andata a fare spesa ad est e non era mai più potuta tornare dalla sua famiglia. Una terribile meritata punizione! Dinanzi all’albergo decise di non entrare, ma di andare a vedere la porta di Brandeburgo, che aveva disegnato il destino della Germania e dell’Europa. Federico percorse a piedi il lungo viale Unter den Linden e ai piedi della quadriga che sormonta la porta si chiese da quale parte sarebbe stato, se fosse vissuto durante il nazismo. Quante discussioni aveva intessuto con Fiona e Pablo su questo argomento? Sarebbero stati anch’essi coinvolti in quella follia di massa? Avrebbero invece avversato quell’omuncolo che arringava ed istigava il popolo con argomenti assurdi? Si sarebbero fatti affascinare dall’apparato scenico delle adunanze di popolo? Nella piazza c’erano poche persone, ma nell’immaginazione di Federico risuonavano le urla del dittatore. Un anziano tedesco, che aveva fatto parte della “Rosa Bianca”, aveva detto una volta a Federico che Hitler parlava un tedesco sgrammaticato e abbaiava dal palco, ma la gente che si radunava dinanzi a lui non ascoltava le sue parole, ma era semplicemente trascinata dalla musica, dalle bandiere che sventolavano, dagli uomini in divisa. Federico si immaginò tra la folla, ma immediatamente un altro ricordo lo assalì.

Camminava per i vicoli di Heidelberg insieme a Fiona e Pablo, guardavano le vetrine dei negozi che a quell’ora di sera erano illuminate, ascoltavano il brusio della folla, che quel giorno di sabato sembrava più gioioso del solito. Finalmente entrarono in una delle tante librerie che la cittadina offre. Là il bisbiglio era più sommesso. Federico fu attratto da una fotografia che la cassiera teneva sul bancone. Egli sapeva bene chi era la ragazza ritratta, ma quella foto non l’aveva mai vista: ritraeva la giovane seduta sull’erba, con un libro sulla gonna a scacchi, i capelli mossi dal vento, in compagnia di un ragazzo. Era Sophie Scholl, appartenente alla Rosa Bianca, un gruppo di studenti universitari che lottò contro il nazismo. Federico aveva una foto di Sophie Scholl sul comodino accanto al letto, ma quell’immagine non la conosceva; da essa emanava una sensazione di serenità e d’amore, lontana dalla lotta che quei ragazzi avevano intrapreso. Forse da tutte le fotografie scaturisce la stessa sensazione, perché il passato appare sempre migliore del presente. A Federico piacevano le foto in bianco e nero, quelle da cui emanava un senso di anni lontani, di persone che sembrava sfidassero il tempo, quelle che erano sul mobile lungo in camera da pranzo e che Anna guardava spesso con curiosità e nostalgia, anche se quegli uomini e quelle donne non appartenevano alla sua storia personale. Forse anche in quel momento Anna stava guardando le fotografie, forse la preferita di Federico, nella quale appariva il padre con la cravatta all’anarchica. C’erano altre immagini, tutte in bianco e nero e qualcuna ingiallita dal tempo, di fronte alle quali Federico si fermava a guardare per molto tempo: una fotografia raffigurava soltanto giovani donne di una scuola di ricamo del paese; c’erano ragazze in ginocchio con in mano un pezzo di stoffa già ricamato, ma sua madre si vedeva appena, perché era in piedi in ultima fila, nascosta da altre fanciulle, con la testa un po’ reclinata. Doveva avere forse sedici anni quando la foto era stata scattata. C’era la fotografia del matrimonio di una delle zie di Federico, in cui apparivano solo pochi familiari; anche qui la madre era seminascosta. Infine il pensiero andò all’immagine di due bambini immersi nella neve, sorridenti.

In quel momento Federico s’accorse di avere il cappotto bagnato di neve. Era dunque ora di rientrare. Chiamò un taxi. In albergo si distese sul letto senza svestirsi e aprì uno dei libri che aveva comprato a Vienna, “Deutschland, ein Wintermärchen” di Heinrich Heine, libro, che, nonostante il titolo, era molto polemico. Non lesse a lungo, perché s’addormentò. Quando si destò, era già buio. Scese nella hall e finalmente telefonò ai genitori di Iris. Ella si trovava nello stesso albergo di Federico. Come mai non l’aveva incontrata? Forse non l’aveva voluta incontrare? Chiese al portiere. Iris era partita! Federico si sentì sollevato, anzi quasi felice di poter proseguire il viaggio, ma subito sottentrò un senso di colpa. Era possibile che egli avesse visto Iris in quei giorni ignorandola? Sì, era possibile. Il senso di colpa ebbe il sopravvento e Federico uscì in fretta, chiamò un taxi per recarsi alla stazione. Con calma cercò in tutti i binari, ma non trovò Iris. Avrebbe dovuto telefonare ancora, invece comprò un biglietto per Praga!


CAPITOLO SETTIMO


Una sera praghese


Mentre la luce del tramonto colorava i binari, Federico, già seduto comodamente nel suo scompartimento, si chiedeva se egli stesse cercando Iris o piuttosto fuggisse. E se fuggiva, da che cosa e perché? In fondo, si autoingannò, la vita stessa è una fuga. No! Egli cercava qualcosa, ma non soltanto Iris. Perché alimentare il senso di colpa? Avrebbe dovuto telefonare alla madre di Iris ancora una volta per sapere la nuova meta di Iris. Madre! Quella parola suscitò una serie di pensieri. La madre di Federico parlava spesso della guerra, della seconda guerra mondiale. Federico la immaginò giovane, non ancora sposata, in fuga con la madre, sotto i bombardamenti. Mentre guardava attraverso i finestrini succedersi campi coltivati e paesi, immaginava quelle cittadine ferite dalla guerra. Chiuse gli occhi, ma non si assopì, perché la memoria viaggiò di nuovo a ritroso, verso il suo paese, verso gli anni dell’infanzia, del secondo dopoguerra. Non gli piaceva fare esami di coscienza, ma era esattamente questo che stava facendo, sebbene non se ne avvedesse. In fondo era ancora troppo giovane per fare un bilancio della sua vita. C’era qualcosa di strano in quei ricordi: per quanto Federico si sforzasse, le immagini non avevano colori, apparivano in bianco e nero. Questa stranezza era forse dovuta alla sua preferenza per i vecchi film o alle fotografie in sala da pranzo. Tra queste foto apparve quella raffigurante Antonio e lui tra la neve, quella caduta in abbondanza nel 1956, immersi nel manto bianco, senza guanti, ma con indosso il montgomery, che, chissà come, la madre era riuscita a comprare. La grande nevicata del 1956! I montgomery! Come aveva potuto comprare quei due costosi capi d’abbigliamento la madre? Federico riannodò i fili di quegli episodi lontani: nella casa, ancora da ristrutturare, c’era un giardino a due terrazze e la madre era una sapiente contadina ed aveva piantato fiori dappertutto, fiori che vendeva a fiorai di Roma a poco prezzo. Il giorno della grande nevicata Federico era andato a Roma con la madre, in autobus, perché i biglietti del treno erano troppo costosi. Un viaggio di duecento chilometri, che a quel tempo durava sei ore, sia il tragitto di andata che quello di ritorno. Mentre lo sgangherato autobus, o meglio la corriera, come si diceva allora, percorreva le strade del ritorno, la radio, unico lusso su quel mezzo di trasporto, raccontava una tappa di montagna del giro d’Italia, passata alla storia sportiva con il nome di “Tregenda del Bondone”. Federico ricordava i grandi fiocchi di neve e la voce del radiocronista, che si esaltava, ma allo stesso tempo si lamentava del freddo e della bufera di neve. Allora Federico non poteva immaginare quanto quell’episodio lontano avrebbe segnato la sua vita. Che cosa c’era di speciale in quell’avvenimento sportivo? Un uomo, piccolo di statura, mingherlino, staccò tutti gli avversari in quell’inferno bianco e vinse il giro d’Italia.

«Che cosa c’è di speciale in quest’avvenimento sportivo? Forse ti senti come Charlie Gaul, quando percorri le strade di Heidelberg?» chiese ironicamente Pablo ed anche Fiona sorrise.
«Charlie Gaul mi ha salvato».
«Ti ha salvato! Che significa?» Fiona era incuriosita.
«Non ho voglio di parlarne».
«Eh no, Federico! Se cominciamo ad avere segreti tra noi, non c’è amicizia» sentenziò Pablo.
«Sono questioni molto private ed anche tristi e poco interessanti».
«Se sono poco interessanti, lo decidiamo noi. Tra amici non esistono solo questioni private».
«Pablo, dove trovi sempre le parole giuste?».
«Non cambiare discorso. Racconta».
Per un po’ di tempo restarono in silenzio, poi Fiona prese la mano di Federico. Era la prima volta che accadeva. Federico tremò, ma Fiona prese anche la mano di Pablo.
«Un segreto merita di essere celebrato da un gesto d’affetto. Racconta».
«Va bene. Non è stato molto tempo fa. Voi lo sapete, mio padre è medico, un grande medico. Quando lo vidi turbato come non mai, pensai che fosse per uno dei suoi malati. Mi chiese all’improvviso della mia salute. Tante domande, tante quante non me ne aveva mai poste. Io mi sentivo bene, andavo in bicicletta, giocavo a tennis. Era primavera, ma c’era un freddo terribile, nevicava. Nonostante il tempo mia madre decise di fare un viaggio a Roma. Sapete, era il 1956, ma possiamo dire che era ancora il dopoguerra. Mio padre non riusciva a chiedere denaro per le sue visite e pensava lei a procurarsi qualche denaro, coltivando fiori e vendendoli ai fiorai. Partimmo all’alba, sotto una nevicata incredibile; il viaggio durava sei ore. Al ritorno, su quell’autobus sgangherato un radiocronista commentava una tappa alpina del Giro d’Italia: un uomo magro, basso aveva staccato tutti gli avversari tra una bufera di neve. Charlie Gaul fu il mio eroe e quando mio padre diagnosticò la malattia, pensai a lui».


Finalmente a Praga. Sì, finalmente a Praga, ma a che fare? Federico non doveva cercare nessuno, era soltanto una deviazione del suo viaggio. Non sono forse importanti i cambiamenti di direzione nei viaggi come nella vita? Angelika era stata una deviazione, una meravigliosa pausa. Visitare la casa di Kafka. Aveva una mappa della città. Chiamò un taxi. Si fece consigliare dall’autista un albergo e un ristorante. Mentre nella camera disfaceva il bagaglio, dentro di lui nacque ancora il rimorso. Aveva interrotto la ricerca, ma si giustificava con se stesso, pensando che era solo un’altra pausa. Sulla cartina lesse il nome “Alchimist Grand Hotel”, che gli ricordò un libro di Gustav Merynck. L’albergo era molto costoso, ma lo affascinava. Dopo aver cenato nel ristorante dell’albergo, Federico s’incamminò senza meta, guidato piuttosto dai suoi pensieri. Leggeva i nomi delle strade e li guardava sulla cartina. La mente ora era rivolta a Iris e, strana associazione, ad Angelika. E se in quei giorni, in quella che era stata la più eccentrica avventura della sua vita, avessero concepito un figlio? Ora forse invece di cercare Iris e sua nipote Antonia, sarebbe stato alla ricerca di suo figlio? Che cosa lo legava ad Iris ed ad Antonia? Questa era sua nipote, ma Iris non era mai stata sua cognata, eppure si sentiva legato a lei dal ricordo del tempo trascorso ad Heidelberg. C’era una domanda nella sua mente: come mai non era stato lui ad innamorarsi di Iris? O forse si era innamorato di Iris e aveva immediatamente rifiutato quel sentimento? Era un rimpianto d’amore la nostalgia delle ore trascorse sulla panchina del Ponte Vecchio? Perché non era nato l’amore per Iris o per Fiona? I ricordi lo guidavano e lo condussero dinanzi al palazzo dove aveva abitato Kafka. Un altro strano pensiero: Kafka aveva pubblicato a sue spese i primi racconti in undici copie, ma dieci le aveva comprate lui stesso, tuttavia non aveva mai saputo chi avesse acquistato l’undicesima. Come comincia il libro di Angelo Ripellino “Praga magica”? Kafka ancora rientra la sera e siede al tavolo della sua camera. Forse una notte Kafka era uscito per cercare il suo primo lettore e forse questi era uscito per cercare lo scrittore. Si erano mai incontrati? No! Era più probabile che ambedue si fossero persi tra il labirinto dei vicoli del ghetto. Un’altra frase letta su un libro: “Kafka, ti senti l’uomo più solo del mondo?” “Di più” “Solo come?” “Solo come Kafka?”. Risuonarono le solite voci dal Ponte Vecchio di Heidelberg.

«Non vi pare che vi sia qualcosa di espressionista nella scrittura di Kafka?» domandò Fiona.
«Che significa espressionista? Niente, nada de nada, secondo me. Si scrive e certo non si pensa: adesso scrivo un’opera espressionista o realista, vero Federico, vero scrittore?».
«Non lo so. Gli espressionisti fondarono dei gruppi, ma non si può limitare un grande scrittore in schemi rigidi. È come dire che Dante era uno stilnovista, tuttavia è anche vero che nello stesso periodo storico esistono modi simili di percepire la realtà».
«Allora il mio giudizio è giusto. Non ho detto che Kafka fosse un espressionista, ma soltanto che c’è qualcosa che ricorda l’espressionismo nei suoi libri».
«Ad esempio?».
«Non saprei dirlo con precisione, ma considera “La metamorfosi”, è scritta da un punto di vista interiore».
«A me pare il contrario».
«È una proiezione dell’anima di Kafka. Gregor si sveglia e si trova trasformato in un insetto e non esce più dalla sua stanza. Kafka non usciva quasi mai, stava sempre chiuso in casa o in ufficio e dalla sua camera angusta guardava il mondo».
«Fiona, sono contrario alle spiegazioni autobiografiche delle opere letterarie».
«Anch’io, Fiona».
«Anch’io, Pablo, anch’io Federico».
«Ma hai appena dato un’interpretazione autobiografica».
«Questo è come voi avete interpretato il mio discorso, ma lo avete travisato».
«Spiegacelo meglio».
«Tutte le opere letterarie sono autobiografiche, ma solo nel senso che sono possibili vite dell’autore».
«Touché».
«Touché»

Improvvisamente Federico si sentì solo: Anna era sola nella grande casa, con la sua eterna nostalgia, Iris viaggiava sola attraverso l’Europa, Antonia non aveva mai conosciuto suo padre, lui stesso non sapeva che cosa facesse in quel luogo silente. Lo assalì il rimpianto dei meravigliosi discorsi con gli amici, ma anche il desiderio di immergersi tra la folla. Non avrebbe saputo dire in che modo, ma ora era sul ponte San Carlo. Evidentemente i ponti avevano una particolare importanza nella sua vita. Mentre si sporgeva, guardando l’acqua scorrere, nella sua mente iniziarono a risuonare le note della Moldava di Smetana e ancora una volta pensò alla sua vita a Heidelberg. Quel periodo si poteva paragonare al brano musicale: le prime note, lente come quando era sceso dal treno e aveva cominciato a guardarsi intorno, così come da una piccola sorgente sgorga un rivolo d’acqua, poi scendendo a valle il getto si amplia e diviene parte del paesaggio, così come egli si era adattato a una nuova vita, a nuovi amici, odori, ad un’altra lingua, che era divenuta parte di lui; infine il fiume sembra aver fretta di immettersi in un altro corso d’acqua o nel mare e diviene impetuoso, e tempestoso era stato l’amore tra Antonio e Iris, ma se i fiumi trovano pace confondendosi con altre acque, per il fratello e per lui la pace non era giunta. Sì, c’erano stati molti giorni di serenità, che ora paragonava ai luoghi dove i fiumi scorrono lenti: erano le ore trascorse con Pablo e Fiona, discutendo sulla panchina del Ponte Vecchio o girovagando in bicicletta per i vicoli di Heidelberg. Dove erano i suoi due amici? In quale fiume della vita si erano immessi? Perché non si erano mai scritti? Eppure molte volte si era messo a tavolino, con la penna in mano e un bel foglio di carta dinanzi. Una di quelle volte aveva aperto uno dei cassetti della scrivania e aveva trovato le lettere di Iris. “Trovato” non era il termine adatto, perché aveva sempre saputo dove fossero. Ripensò alla notte antecedente alla partenza, trascorsa a leggere quelle lettere, a tessere i fili invisibili di vite che fino a quel momento gli erano sembrate note. Esse, al contrario, erano tutt’altro che conosciute. Egli, Federico, era stato il tramite involontario di un amore, ma non ne era stato partecipe: in quelle notti d’estate dal suo letto solitario sentiva i passi di Iris salire le scale, quando rientravano tardi o i passi di Antonio che andavano verso la porta della camera che ospitava la ragazza. In quelle notti era stata concepita Tonia. Che aveva a che fare Tonia con la sua vita? Quali fili potevano legarli? Federico sentiva quella sconosciuta ragazza come sua nipote, ma ella lo sentiva un familiare? Uno strano pensiero: anche Tonia si era seduta sulla panchina del Ponte Vecchio come tutti i giovani di Heidelberg. Questo bastava a legarli. Anch’ella aveva guardato incantata lo scorrere lento del Neckar e si era sentita parte di esso. Federico guardava la Moldava dal Ponte San Carlo, ma era come se guardasse ancora una volta il Neckar: due fiumi che non si sarebbero mai incontrati ora si incrociavano nella sua memoria, anzi in quella strana entità che chiamiamo animo. Si sarebbero mai incontrate la sua vita e quella di Tonia? Nell’acqua della Moldava si accesero i riflessi dei lampioni. Federico sollevò lo sguardo: si era fatto buio. Rientrò nell’albergo e si accomodò ad un tavolo del ristorante: c’era brusio intorno. Era quello che desiderava: gente intorno a lui, anche se sconosciuta. Mangiò würstel affumicati e gnocchi di pasta lievitata, accompagnando il pasto con un boccale di birra, concludendo con lo strudel, poi entrò nella sala dove erano giornali e tavoli dove alcuni signori giocavano a scacchi. Sedette e aprì un giornale in tedesco, ma i suoi occhi si erano fermati su due giocatori. Guardò di soppiatto la partita, poiché, da appassionato scacchista, sapeva che i giocatori sono spesso infastiditi da sguardi indiscreti. Infine uno dei due giocatori gettò a terra il re e si alzò frettolosamente, diede la mano all’altro e se ne andò; il suo avversario restò seduto dinanzi alla scacchiera, chiamò un cameriere e gli disse qualcosa. Il cameriere si avvicinò poi a Federico e riferì l’invito a giocare una partita. Giocarono più di una partita, fino a mezzanotte. La folla di turisti sul Ponte San Carlo, il brusio degli avventori nel ristorante sconosciuto non avevano mitigato il senso di solitudine, anzi la partita a scacchi con lo sconosciuto signore aveva aumentato la nostalgia di casa: c’era più di una scacchiera nelle sale. C’era la bella scacchiera regalatagli da Anna con i pezzi che riproducevano soldati romani e barbari, c’era la scacchiera che simulava crociati e barbari e c’era soprattutto la scacchiera con cui giocava con Renato. In camera Federico telefonò a Renato. Ancora una volta sentì forte il senso di colpa, ma si giustificò con la nostalgia che lo aveva invaso. Lesse una delle lettere di Iris:

Non temere se inizio ancora una lettera con l’aggettivo “caro”, ma tu mi sei ancora veramente caro. È nata! È una bella bambina, piena di capelli e con gli occhi scuri, molto scuri come i tuoi, ma non so dire se somigli a te o a me. Strano, ha i capelli rossi, anche se nella mia famiglia non c’è stato mai nessuno con capelli così. E nella tua? Forse tutto questo non ti interessa, ma non te ne faccio una colpa. Credo che fossimo ambedue (beide si dice così?) troppo giovani e non voglio caricarti di alcuna responsabilità. In fondo sono felice di essere diventata madre. Forse sarà più difficile studiare e laurearmi, ma m’impegnerò sia come mamma sia come studentessa. Mamma! Che strana parola!
Liebe, Iris



CAPITOLO OTTAVO


L’orologio di Marienplatz


Praga era già lontana, perduta dietro il finestrino del treno. In verità si vedevano ancora le case della città, ma la lontananza non è una misura matematica, bensì appartiene all’anima. Erano molto più vicine Anna, Iris, Fiona e Pablo e Renato. Dal finestrino Federico guardava i fiocchi di neve scendere lentamente. Chissà se al suo paese nevicava. Quando ciò accadeva Anna emetteva grida di gioia, come fanno i bambini. E certo ella di neve se ne intendeva. In viaggio verso Monaco di Baviera Federico guardava i binari scorrere veloci e ancora una volta li paragonava al corso di un fiume, pensando al viaggio di Anna. Egli vagabondava attraverso città dell’Europa alla ricerca di alcune vite, ma era anche un viaggio di piacere, mentre quello di Anna era stato un viaggio alla ricerca di una vita degna. Partita da un piccolo paese dei Carpazi, da qualche parte nell’est europeo, senza conoscere altra lingua che la sua, era giunta in Italia dopo alcuni anni, dei quali Federico non sapeva niente, nella sua casa e l’aveva riempita con la sua voce squillante, con quell’accento che Federico aveva immaginato sulle bocche dei personaggi di Dostoevsij, Tolstoij, Checov, Pasternak. Per tanto tempo, dopo la dipartita dei suoi familiari, Federico aveva desiderato che la casa, divenuta all’improvviso silenziosa, si colmasse nuovamente di voci. In verità il silenzio era iniziato subito dopo la morte di Antonio, un silenzio fatto di sguardi tra lui e i genitori, un silenzio fatto di occhi umidi e lucenti da pianti trattenuti, che sgorgavano tuttavia, per ognuno, in solitudine. Quanta solitudine aveva provato Anna nel suo viaggio? Quanta solitudine aveva sentito prima di approdare nella sua casa? Quanta solitudine era penetrata in lei ascoltando una lingua ignota? Si può misurare la solitudine? Quale corrente l’aveva condotta fin nella sua casa? La corrente impetuosa di avvenimenti che non dipendono da coloro che ne vengono travolti. La storia è un flusso turbinoso, del quale sappiamo poco. Il comunismo, un sogno prima tradito e poi infranto, era un ricordo. I binari scorrevano veloci sotto lo sguardo di Federico. Apparivano attraverso il finestrino campi e tetti di paesi e cittadine ammantati di neve, stazioni con panchine vuote. Su quante panchine si era seduto? Pensò alle poesie che l’amico Alfonso pubblicava. Solo per amicizia? In quelle poesie parlava di panchine, sulle quali aveva letto e scritto, spesso in solitudine. Si rese conto che da giorni non parlava con nessuno, eccezion fatta per le telefonate e per le poche parole scambiate con i signori delle reception degli alberghi: veloci saluti di buon giorno e buona sera, un numero di camera, nient’altro. I discorsi sulla panchina del Ponte Antico erano lontani ma vicini nella sua memoria. “Lontananza” pensò ancora, una dimensione dell’anima. Erano vicini Pablo e Fiona, e Angelika che aveva abbracciato e baciato con passione su altre panchine? Li sentiva accanto a lui, ma essi lo sentivano vicino? Anna sicuramente sì, ma gli altri, che avevano avuto una parte importante nella sua vita, anzi che ancora adesso ne facevano parte, avevano memoria di lui? I binari scorrevano veloci. Pensò ai piccoli viaggi che aveva intrapreso con Anna, viaggi di un solo giorno o due.

Paestum e Pompei distano soltanto pochi chilometri, eppure queste due città sono lontane millenni per lo spirito che le contraddistingue. La cultura greca e romana vengono spesso accomunate, tuttavia esse sono molte differenti. Paestum e Pompei testimoniano questa diversità. Fra gli antichi templi di Paestum, per fortuna mai troppo affollata, si cammina in silenzio, rispettosi degli antichi Dei, perché questo luogo è spirituale. Paestum ispira il raccoglimento; trasferendo un termine proprio della poesia alla geografia, si può affermare che è un luogo elegiaco. L’elegia era la poesia che gli uomini dedicavano all’amico morto, cantando le sue gesta e banchettando, perché musica e cibo consolavano dalla perdita, ma era anche la forma poetica nella quale le donne si rivolgevano agli Dei invocandoli per i loro amori. Forse anche oggi qualche turista li invoca.
Niente di così spirituale invece si trova a Pompei, forse perché è testimonianza della caducità terrena o forse perché le sue rovine raccontano di una città dove gli antichi Romani venivano a trascorrere ore liete, soprattutto sessualmente.
Erano due modi di combattere contro la morte.
Anche l’apparato turistico è dimostrazione di questa differenza: a Pompei i proprietari delle bancarelle che vendono orribili souvenir chiamano a gran voce i turisti, a Paestum aspettano che il turista entri volontariamente e non insistono. Forse le anime così diverse di Greci e Romani sono entrate nei contemporanei
.

Sì, la distanza è una dimensione dell’anima.

I giardini di Ninfa, fra Sermoneta e Norma in provincia di Latina, sono una meraviglia che resta negli occhi e nel cuore. Sono opera della famiglia “Caietani”, che diede al mondo uno dei Papi più terribili che la Chiesa abbia conosciuto, Bonifazio VIII, per il quale Dante prepara il posto nell’Inferno. Questo Papa però ci ha lasciato le acque di Fiuggi e parte di questo giardino. Non si arriva facilmente ai giardini, perché non sono segnalati e forse è un vantaggio; infatti, sebbene i visitatori siano sempre in numero notevole, questo non è mai eccessivo. Che senso avrebbe passeggiare in un giardino con il chiasso? Nei giardini si cammina rallegrandosi della conversazione a bassa voce, compiacendosi del rumore del piccolo ruscello artificiale, apprezzando il colore dei fiori, la magnificenza degli alberi, usufruendo dell’ombra e della frescura che essi procurano. Una sola pecca esiste in questi giardini: c’è una sola panchina. Certamente oggi non occorre, perché la visita ha la durata di un’ora per permettere a tutti i gruppi di vedere ogni singola parte di questa oasi. Quando era privato, i proprietari non si fermavano a discorrere, a riposarsi, a leggere un buon libro? Credo che sia un desiderio che sicuramente provano tutti i visitatori.

Ancora una panchina appariva nella sua mente, ma c’erano state anche tante piazze. Una volta, dopo una delle sue lunghe camminate lungo la riva del Neckar si era trovato in un piccolo paese del quale non ricordava il nome. Si era seduto, stanco e felice, sui gradini della cattedrale e aveva osservato la piazza illuminata dalla luna piena. Da una finestra aperta giungeva il suono di un pianoforte e Federico aveva paragonato i gradini ai tasti dello strumento suonato dall’insonne pianista. Aveva aspettato l’alba prima di riprendere il cammino. Sorrise pensando alla poesia che aveva scritto sulla scala della chiesa e la recitò fra sé.
Sono uno in cammino
ho dimenticato la meta
lungo la strada
il sentiero lo ignoro
Passo e vedo
Per raccontare
per dimenticare
Ah! Le città antiche!
Le osterie!
Suoni di lingue ignote
brusio indistinto festoso
parole scambiate con un oste
amico d’una sera
di sempre nel cuore
un bicchiere levato
con uno sconosciuto
uno in cammino
Ah! Le osterie!
Le città antiche!
Di notte deserte
sui muri ombre
e splendori lunari
sulle selci eco
di passi
sono uno in cammino
ho salito i gradini
della cattedrale antica
il respiro della città
assopita
affollata di sogni
nella bisaccia la memoria
del tuo sorriso!
Ah! Le piazze antiche!
Mi sono seduto
quanto basta per riposare
sugli scalini antichi
mi ha assalito la memoria
del tuo sorriso
i miei passi sono parole
ho guardato i gradini
della cattedrale antica
ombre e splendori
lunari
tasti d’un pianoforte
i tuoi passi sono note


A chi aveva dedicato quella poesia? Ad Angelika? A Fiona? Non lo ricordava. C’erano altre piazze: c’era la piazza che per lunghi giorni aveva guardato con Anna alla televisione, Piazza Indipendenza di Kiev, assiepata di folla con bandiere color arancione. Forse un tempo gli avi di Anna avevano sventolato bandiere rosse in qualche piazza. La storia è un fiume in tempesta. Aveva dedicato la poesia a Patrizia? Nella piazza di Lubecca aveva stretto la mano ad Angelika, sebbene avesse fatto quel viaggio per la sua amica d’Università. A Berlino, in Alexanderplatz, si era sentito come Franz Biberkopf: colpevole! Tutto era dipeso da lui: aveva condotto Iris nella sua casa, aveva assistito all’amore nato tra lei e Antonio e spesso aveva tradotto i discorsi di Iris. Che cosa cercava ora? Il perdono? Tessere i fili di una vita? O piuttosto cercava di riempire la sua solitudine con la conoscenza di una nipote, della quale aveva appreso l’esistenza da breve tempo? Ricordando il passato, cercava di dare un significato al vuoto precipitato nella sua vita dopo la morte dei suoi familiari? In quale mare sarebbe sfociato quel suo viaggio? Hanno memoria i fiumi? Federico avrebbe voluto sentirsi una goccia d’acqua tra le altre, senza memoria e responsabilità.

Seduti su una panchina sulla riva di Sulz am Neckar, Fiona, Pablo e Federico discorrevano:
«Non faremo in tempo a vedere tutte le cittadine attraversate dal Neckar. Che peccato. È stupendo!».
«Come sei romantica, Fiona».
«Vorrei sentirmi una goccia d’acqua di questo fiume» rispose Fiona, senza dare importanza al sarcasmo dell’amico.
«E perché mai?».
«Fiona ha ragione. L’uomo è l’animale più assurdo che esista, se mi permettete l’espressione. Si è allontanato troppo dalla natura».
«Se non fossimo esseri umani, non potremmo ammirare la bellezza della natura».
«Ma la vivremmo».
«Certo, ma guarda queste case, i ponti. Anche queste costruzioni sono parte della bellezza del luogo».
«Pablo, mi fai sentire triste».
«Perché mai?».
«Alle tue parole ho ricordato un verso di Rilke».
«Delle elegie duinesi?».
«Sì».
«Lasciami indovinare».
«Prova».
«La seconda elegia».
«Sì».
«“Guarda, gli alberi esistono; le case che abitiamo reggono ancora. Solo noi passiamo via da tutto come aria che si cambia”».
«Mein Got! Avete rovinato tutto» si lamentò Fiona «Godete questo momento, questa vista senza pensare ed in silenzio».
«L’ho già detto, Federico, sei malato di letteratura».
Fiona prese le mani degli amici e continuò a guardare il fiume.
«Ora siamo gocce d’acqua trasportate dalla corrente».
Aspettarono il crepuscolo, poi inforcarono le biciclette e cominciarono a pedalare in direzione di Heidelberg. Allo scendere del buio si sarebbero fermati, ma non avevano programmato dove dormire. Si fermarono in un Gasthaus, una di quelle locande di campagna che amavano. Era tutto occupato, c’era una festa di nozze. Spiegarono all’oste che erano lontani. Ebbero fortuna: intervenne la sposa e li invitò a partecipare al festeggiamento. Mangiarono con appetito e poi si accomodarono in giardino, dove iniziarono le danze. Federico e Pablo sedettero con i loro boccali di birra dinanzi, mentre Fiona fu invitata da molti giovani a ballare.
«Guarda Fiona, si dà da fare».
«Sei geloso?».
«Ma no! Anzi un po’. E tu?».
«Un po’».
I due amici risero, continuando a guardare Fiona volteggiare.
I boccali di birra andavano e venivano e sembravano non finire mai.
L’oste concesse ai tre amici di poter trascorrere la notte in cantina nei loro sacchi a pelo, ma Fiona non dormì al loro fianco. All’alba Fiona svegliò Federico e Pablo. Pedalarono fino a Horb am Neckar, dove misero le biciclette sul treno che li avrebbe riportati a Heidelberg. Nello scompartimento Fiona si addormentò, mentre i due ragazzi tacevano. Anche lei aveva deviato? C’è un luogo dove il Danubio scompare sottoterra, fenomeno che i tedeschi chiamano Donauversickerung, per riemergere dopo circa ottanta chilometri così come nella vita esistono periodi ignoti agli altri per ognuno. Donauversikerung, come se il fiume stanco di essere guardato e ammirato cercasse sicurezza nel sottosuolo. È così anche per gli uomini? La gelosia era scomparsa dalle anime dei due amici. Merito del pensiero della Donauversikerung.


Il treno entrò nella stazione di Monaco di Baviera. Federico trovò alloggio presso l’Aichner Hotel, grazie all’ufficio informazioni della stazione. Dal finestrino del taxi Federico continuava a guardare la neve cadere abbondante.

«Davvero una bella nevicata» commentò Fiona.
«Sì. Ma noi non abbiamo tradito la nostra panchina».
«Anche se non possiamo sederci».


In camera Federico si distese sul letto e aprì un’altra lettera.

“Caro Antonio, oggi mi sono recata all’Uni per la prima lezione. Si comincia a vedere il pancione. All’inizio mi sentivo osservata, poi ho capito che ero io stessa ad osservarmi o meglio osservavo se qualcuno mi osservava. Nevica in abbondanza. E da te? Perché mai ti pongo domande, sapendo che non mi risponderai? Lo sai, spero di potermi innamorare di nuovo, ma ora mi sembrerebbe di tradirti. È veramente strano questo sentimento. Ti mando un bacio.
Iris”
.

Federico telefonò all’albergo in cui alloggiava Iris. Era già uscita. Uscì anche lui. Iris era andata sicuramente in qualche biblioteca, ma non avrebbe potuto visitarle tutte. Si recò al Deutsches Museum. Non era forse anche un viaggio di piacere? Non chiamò un taxi. C’era gente sul treno della metropolitana. Un fiume nascosto che trasportava vite umane. Il museo fu costruito su un’isola. Chissà se anche il fiume Isar rallenta per visitarlo. Federico visitò il primo piano, fermandosi soprattutto nel reparto dedicato alle comunicazioni. Guardò attentamente il compasso della rosa dei venti di Wilhelm Hinrich Iven, esempio di una primigenia bussola, dove tuttavia manca il nord. La storia è un fiume o un vento? Pensò alle biciclette con cui andava in giro con Fiona e Pablo, al suo viaggio. Fermo dinanzi al dipinto di Michael Zeno Diemer, che ritrae le tre caravelle di Cristoforo Colombo elencò nella mente le frontiere che aveva oltrepassato. “Varcare le frontiere è il Nirvana. Ma splendono sempre per me le stelle della nostalgia” scrive Herman Hesse(7). Pablo aveva ragione: era malato di letteratura. Lo assalì la nostalgia della sua casa, dell’odore dei libri, della sua collezione di soldatini, ben ordinati secondo l’epoca storica. Ogni casa in fondo è un museo; gli oggetti ricordano chi vi ha abitato.

«Federico, che hai in mano?».
«Un soldatino»
«Sei un bambino?»
«Li colleziono»
«Di’ la verità, ci giochi?»
«Giocavo quando ero bambino».
«Ed ora?»
«Ogni tanto li guardo e li conto».
«Li conti?»
«È la mania dei collezionisti».
«Quanti ne hai?».
«Non lo ricordo».
«Li conti e non ricordi quanti ne hai?».
«Li conterò di nuovo a casa».
«Tutti gli uomini restano bambini … per sempre».
«È vero, Fiona. La parte ludica è importante nella vita. Aiuta».
«È importante anche la maturità».
«Noi non siamo maturi?».
«Siete bambini».
«Ci piace».
«Anche a me piace la vostra infantilità».
«E tu non sei un po’ bambina?».
«Un po’».


Viaggiare è il Nirvana. Dove aveva letto che viaggiare è il più personale dei piaceri? Non sempre chi viaggia lo fa per diletto. Navi cariche di emigranti che sognavano la terra promessa di tutti i poveri del Novecento partivano alla volta dell’America; su una di quelle navi si era imbarcato uno zio della madre di Federico. Era tornato, ma senza il sogno americano. Anna aveva viaggiato alla ricerca di un altro sogno, un piccolo sogno, una vita dignitosa. Di nuovo si sentì in colpa. Egli viaggiava, in parte alla ricerca di Iris, in parte per piacere. Meglio dare spazio alla parte ludica della sua anima. Erano già le undici del mattino. Sebbene al di fuori del museo vi fosse anche uno spazio dedicato ai giocattoli, Federico cercò un altro balocco, quello con cui si trastullano tutti gli abitanti di Monaco, l’orologio di Marienplatz, il Glockenspiel(8). Ad un quarto a mezzogiorno era nella piazza e aspettava a faccia in su che il carillon suonasse l’ora. Finalmente iniziarono i dodici tocchi: apparirono i festeggiamenti per il matrimonio del duca Guglielmo V con la principessa Renate von Lothringen, poi al piano inferiore la danza dei bottai. Aspettò che lo spettacolo terminasse, si guardò intorno e gli occhi vagarono da una birreria all’altra. In una di queste c’era stato Hitler. Per fortuna, pensò Federico, quel pazzo non aveva fatto modificare l’orologio. Mentre andava via, udì il canto del gallo che è posto alla sommità del carillon. Chissà perché quei tre versi gli ricordarono le danze di Fiona a Horb am Neckar. Aveva fame, ma non voleva entrare in una di quelle birrerie. Gli girò la testa. Sembrava che tutto il viaggio affluisse nella sua testa: Vienna, Alexanderplatz, la casa di Kafka, le note della Moldava che si mescolavano ai tocchi della campana e al verso del gallo, i binari che correvano sotto il treno velocemente, il fumo che saliva dai comignoli dei tetti del paese. Barcollò. Aveva fame. Entrò in una birreria, sperando che non fosse quella delle riunioni del dittatore. Ordinò Bretze e Weiβwurst(9) e un boccale di birra. Quando uscì dal locale, si sentì meglio. Telefonò e seppe che Iris sarebbe partita il giorno seguente. Si propose di andare al suo hotel a sera. Forse il suo viaggio stava volgendo al termine e provò un po’ di dispiacere. Ancora una volta s’insinuò in lui il senso di colpa. Probabilmente neanche Ulisse aveva desiderio di tornare ad Itaca. Aveva ancora un pomeriggio. Salì sul tram n.17, che lo portò fino a Nymphenburg. Visitò tutte le sale, sostando soprattutto nella Sala degli specchi, che gli sembrò alquanto strana. Perché mai era stata costruita una stanza che permetteva di guardarsi? Infine passeggiò nel parco e finalmente sedette su una panchina, osservando i bianchi cigni nell’acqua del lago. Ricordò di essere stato a Füβen, dove aveva visitato il castello di Neuschwanstein, ma non riusciva a rammentare né il periodo di quel viaggio né se vi era stato con qualcuno. Continuò a guardare i cigni. Quante volte aveva osservato i cigni nel Neckar con Fiona e Pablo dalla loro panchina sul Ponte Antico. Era ora di andare. Avrebbe finalmente incontrato Iris. Il viaggio volgeva al termine. All’albergo non trovò Iris, uscita da poco. Si trovò nuovamente in Marienpalatz. Erano quasi le nove di sera. Volse di nuovo lo sguardo in alto e aspettò: alle ventuno l’orologio suonò. Le piccole finestre ad arco ai lati del carillon s’illuminarono, apparve la sentinella notturna che suonò il corno e un angelo che benedisse un piccolo monaco, con il sottofondo di una ninnananna. Aveva nuovamente fame. Entrò nella stessa birreria. Ordinò Haxen(10) di maiale con crauti e birra. Mangiò e si ripromise di trovare Iris la mattina seguente. Voleva davvero che il viaggio finisse? In albergo, disteso sul letto, pensò alla giornata appena trascorsa. Era probabile che Iris fosse stata molto vicino a lui: a Marienplatz! Si addormentò insieme al senso di colpa.
Si destò di buon’ora, mangiò un’abbondante colazione e lasciò l’hotel. Iris era già partita. Si sentì felice e colpevole. Telefonò: Iris andava a Verdun.

(continua terza parte

5) Roth, Joseph, Fuga senza fine, Adelphi
6) Andric, Ivo, Il ponte sulla Drina, Mondadori, 2001
7) Hesse, Hermann, L’azzurra lontananza, Sugargo
8) Letteralmente “gioco di campane”
9) Bretzel = biscotto salato arrotolato; Weiβwurst = salciccia bianca
10) Coscia di maiale cucinata con aglio, pepe , dragoncello e rosmarino