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Mario Amato
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LETTERE DA LONTANO - Terza Parte
 
CAPITOLO NONO


La scacchiera di Verdun


Anche sul treno il senso di colpa non lo abbandonò, ma non riguardava soltanto Iris. C’era un luogo che non aveva visitato a Monaco, un luogo legato ad un suo grande amore, un amore insolito: la piazza dell’Università, la piazza dedicata ai ragazzi della Rosa Bianca. Su uno degli scaffali della sua casa c’era la fotografia incorniciata di Sophie Scholl, una foto trovata in una libreria di Heidelberg, che ritrae la ragazza su un prato; una immagine di rara felicità in una vita dedicata ad una lotta destinata alla sconfitta. Ma erano stati davvero sconfitti i giovani studenti di Monaco, che lottavano contro la follia nazista con la sola forza delle parole distribuite dai loro volantini? Ed ora egli non si stava recando presso un luogo di follia? Pensieri troppo seri per un viaggio, che in parte era di piacere! I binari scorrevano verso Verdun. I soldati mandati a morire in quel luogo erano gocce d’acqua trascinate dalla storia. Gocce d’acqua!

Il treno stava per entrare nella stazione di Tubingen. Fiona propose: «Abbiamo un altro giorno. Fermamioci qui».
«A Tübingen?»
«Volete?»
«Certamente. Può darsi che ci sia un altro matrimonio. Potresti ballare ancora, Fiona». La frase era stata pronunciata con un pizzico di gelosia.
Scesero con le loro biciclette e iniziarono a girare la città. Si confusero con altre biciclette di altri studenti.
«Il prossimo anno veniamo qua» disse Fiona.
«Sì, tradiamo la nostra panchina».
«Ne adotteremo una in questa città».
«Federico» chiese Pablo «è la città del tuo poeta prediletto?».
«No. È la città dove si è rinchiuso nella torre e dove è morto».
«Ci andiamo?».
«Andiamo».
«Sì».
In silenzio guardarono la casa gialla con la torre che aveva tenuto nascosto al mondo il poeta.
«Federico, perché si rinchiuse qui?»
«Non lo sa nessuno».
«In fondo è un bel posto. Tra gli alberi, sul fiume» commentò Pablo.
«Nessun posto può essere bello, se non esci mai».
«Ma Hölderlin usciva» precisò Federico.
«Di nascosto?»
«Non volevo dire questo. Ci sono mille modi di evadere».
«Che cosa intendevi?» insistette Fiona.
«Non ricordi le poesie scritte nella torre?»
«Certo che le ricordiamo».
«Parlano di sole, di fiumi, di prati, di stagioni, insomma parlano di natura. Usciva con la mente. Se ne stava nella stanza, eppure la sua mente si apriva al mondo».
«Basta secondo te per non impazzire?»
«Può bastare, ma bisogna chiamarsi Hölderlin».
«Forse hai ragione» ammise Pablo «In effetti nessun lettore di Hölderlin direbbe che è stato infelice».
«Io mi chiamo Fiona e ho bisogno di sentire il sole o la pioggia o il vento sulla pelle, di respirare i profumi dei fiori, degli alberi, di ascoltare la voce dei miei simili».
«Anche noi, Fiona, ma Hölderlin tutte queste cose le aveva sentite. Non c’è stato nessun altro poeta tedesco tanto vicino alla natura».
«Com’è possibile, Federico?».
«Federico ha ragione» intervenne Pablo «Hölderlin aveva un rapporto mitico con il mondo».
«Che significa?»
«Ci sono due modi di vivere: la maggior parte di noi guarda il mondo, ma altri, pochi, lo vivono, sono parte di esso. Fiona, ti ricordi quando ci hai detto che ti sentivi come una goccia d’acqua, ecco, in quel momento eri come Hölderlin, almeno avevi con la natura lo stesso rapporto che aveva lui».
«Bravo, Pablo. È il mio poeta prediletto, ma tu lo hai spiegato come io non avrei saputo fare».
«Spiegati ancora».
«Proverò» disse Federico «Hai nella mente i versi della poesia che Hölderlin ha dedicato a Heidelberg?»
Fiona chiuse gli occhi e cominciò a recitare la poesia.
«Fermati qui, dove dice “sul ponte mi prese l’incanto”. In quel momento, mentre attraversava il ponte, ovviamente il Ponte Antico, egli si sentiva trasportato da tutto ciò che gli era intorno, non solo il fiume, i vigneti, l’aria, ma perfino le case, il castello in alto, la vita degli uomini».
«Il castello, i ponti, le case sono opera dell’uomo, non della natura» obiettò Fiona.
«A tuo, a nostro modo di vedere, ma la visione di un poeta è più acuta, almeno è diversa. Le case, i ponti, il castello fanno parte della storia e la storia fa parte della natura».
«Com’è possibile?»
«Pensa all’idea che avevano i Greci del mondo: tutto, anche la vita degli uomini è parte del ciclo naturale».
«Hölderlin aveva abbracciato questa ideologia, secondo voi?»
«Non è un’ideologia, Fiona, è un modo di sentire, come tu avevi coscienza di essere una goccia d’acqua. A noi però succede poche volte».
«Peccato!» concluse Fiona «Si sta facendo buio».
«Ho un’idea. Mangiamo qui, da qualche parte e poi dormiamo sotto un ponte. Partiamo domani, ma non in treno».
«Vorresti andare fino a Heidelberg in bicicletta?»
«Fin dove ci portano le gambe» precisò Federico.
«D’accordo!»


Gocce d’acqua i soldati che andavano a Verdun, ma certamente non si sentivano parte della natura. L’autobus portava Federico nel teatro della battaglia. Apparivano croci distanti l’una dall’altra, poi esse aumentavano fino a quando diventavano distese a perdita d’occhio. Federico camminò in silenzio tra le croci; anche gli altri visitatori tacevano, perfino ragazzi in viaggio d’istruzione. Federico entrò nell’ossario, dove sui muri sono scritti i nomi dei caduti. C’era un silenzio che Federico definì, in cuor suo, infinito. Uscì e si recò al museo, costruito su una trincea. Un insegnante tedesco spiegava agli studenti che dovevano immaginare la trincea ai tempi della battaglia, tra il fango. Federico guardava le vetrine: tra le armi e maschere anti-gas lo colpì una piccola scacchiera spezzata. Pensò ai due soldati che avevano forse giocato la loro ultima partita su quella scacchiera, prima che una granata li uccidesse. Chissà se Dio era stato tanto comprensivo da aver permesso loro di finire la partita? Pensò al soldato che aveva portato con sé la scacchiera in quel luogo: un oggetto per provare un po’ di piacere dove c’erano soltanto dolore e morte. Sì, Dio doveva aver loro concesso di finire la partita. Immaginò lo scoppio della granata vicino ai due giocatori, poi uscì nuovamente e fu investito dal vento gelido. Pensò ancora alla scacchiera, ma alla sua, a quella con cui giocava con Renato.

Dormirono sotto un ponte, a pochi chilometri da Tübingen. All’alba ripartirono, riposati e felici. Scesero dalle biciclette soltanto vicino a Nurtingen e a Plochingen per ammirare il panorama. Alle tre del pomeriggio erano a Stoccarda. Tornarono in treno nella loro Heidelberg.
«Mancano ancora tante cittadine».
«Non credo che faremo in tempo a vedere tutte le cittadine attraversate dal Neckar».
«È un peccato».
«Lo faremo l’anno prossimo».
«Certamente».


Non era mai arrivato quell’anno; Fiona, Pablo, Federico si erano persi nel mare della vita come le acque dei fiumi si perdono irriconoscibili nelle acque di altri fiumi o dei vasti mari. C’era silenzio intorno a Federico. Le lettere di Iris erano rimaste silenziose nel cassetto della scrivania. In albergo aprì una di quelle lettere. Provò piacere nel toccare la bella carta, del colore delle antiche pergamene. Per la prima volta notò la bella grafia di Iris: chiara, scorrevole, ma che indulgeva nello scrivere le maiuscole in caratteri gotici. Una piacevole civetteria!

Carissimo Antonio, ti farà piacere sapere che mi sono laureata. Antonia è bellissima, ma forse tutte le mamme vedono bellissime le loro figlie. La porto spesso a passeggio per le strade di Heidelberg, in riva al Neckar, sul Ponte Antico, dove è cominciata la nostra storia. Tu non conosci la città. Avevo sperato che tu venissi a trovarmi, ma quella speranza risale a tanto tempo fa. Come ti ho già scritto, non voglio più sapere le ragioni del tuo silenzio. Anche per me l’amore è terminato, anzi no! Ora c’è soltanto l’amore per questa bambina. Sì. Il nostro amore iniziò a Heidelberg, quando conobbi tuo fratello Federico. Forse lui è tornato a Heidelberg e non ha avuto il coraggio di telefonarmi, ma a me avrebbe fatto piacere rivederlo.
Iris


Era la prima lettera che non terminava con tua Iris. Federico non era mai tornato a Heidelberg. C’era un’ingiustificata associazione nella sua mente tra l’incidente stradale in cui il fratello aveva trovato la morte e il suo periodo nella cittadina. Le ultime parole lette lo fecero sentire nuovamente in colpa. Iris lo avrebbe accolto con piacere. Era finalmente ora di trovarla. Telefonò. Era tornata a Heidelberg. Un senso di piacere si sostituì a quello di colpa. Avrebbe rivisto la sua cittadina, la sua panchina e forse, come in un libro di Charles Dickens, avrebbe per caso incontrato nuovamente Fiona e Pablo. Si sarebbe seduto con loro sulla panchina e avrebbero di nuovo parlato. Non avrebbero intessuto grandi discorsi, ma avrebbero raccontato le loro vite, le gioie e i dolori quotidiani. I tempi delle grandi speranze e dei grandi ideali erano trascorsi, ma forse c’è bellezza e grandiosità anche nei piccoli avvenimenti di ogni giorno.
I binari scorrevano come scorrono i fiumi, come fluisce eterno il Neckar.



CAPITOLO DECIMO


Come in un libro di Charles Dickens


Federico lesse la lettera che aveva appena scritto. Sul Ponte antico passeggiavano già i turisti e studenti pedalavano con le loro biciclette. Egli guardava il Neckar e aspettava Iris e Tonia o forse attendeva di vedere apparire Fiona e Pablo, come in un romanzo di Charles Dickens. Provava a ricordare i discorsi di vent’anni prima, ma essi si perdevano nel flusso del fiume. Chiuse gli occhi, ma i visi dei suoi amici non erano nitidi nella memoria. Si guardò intorno: volti ignoti. Non gli era forse sconosciuta la vita di Pablo e Fiona? Dove erano adesso? Che cosa era accaduto loro? Perché non si erano mai scritti? Un nuovo senso di colpa lo avvinse. Li aveva forse dimenticati o piuttosto ingannati? Non era stato un vero amico? Che cosa aveva avvicinato quelle tre vite tanto diverse? Solo un senso di transitorietà? La sicurezza che non si sarebbero mai più rivisti? Iris aveva continuato a scrivere ad Antonio, anche quando era stata sicura che non avrebbe mai avuto alcuna risposta. Non riusciva a rispondere alle domande che sorgevano nella sua mente. Si appoggiò allo schienale della panchina, chiuse nuovamente gli occhi e lasciò che un dolce senso di nostalgia entrasse in lui. Il brusio della gente sul ponte si confuse con il mormorio del fiume e con il ricordo delle voci di Fiona e Pablo. I visi dei due amici erano avvolti nella nebbia, ma avrebbe riconosciuto le loro voci, anche tra il mormorio della folla. Era freddo, ma continuava ad aspettare.
La sera precedente aveva cenato nella casa di Iris, ma aveva preferito dormire in albergo. Non era stato facile spiegare il silenzio di Antonio, un silenzio non voluto, del quale egli era il responsabile. Più difficile ancora era stato spiegare il proprio silenzio; parole pronunciate con voce titubante e a capo basso. Si aspettava un rimprovero, ma Iris aveva accolto la notizia dell’incidente in silenzio, poi era corsa via. Quando era tornata nella sala da pranzo Federico notò che aveva pianto. L’amore non era dunque svanito. Dov’era il suo amore per Fiona e Pablo? Era rimasto solo l’amore per il Neckar? Più tormentoso era stato per Federico spiegare perché avesse atteso tanto tempo per aprire le lettere. Aveva confessato la sua colpa. Si era sentito finalmente libero.
Sentì un lieve tocco sulla spalla. Come in un libro di Charles Dickens? No! Non era Angelika, non era Fiona, non era Pablo. Essi appartenevano alla memoria, appartenevano al Neckar che portava lontano ogni ricordo. Iris e Tonia, una ragazza dai capelli rossi, gli sorridevano, reggendo nelle mani i bagagli.
I binari scorrevano verso casa, dove Anna lo aspettava, con Renato, pronto ad una partita a scacchi, vicino al camino dove ardeva il fuoco.
La neve cadeva sui tetti del paese, dai comignoli saliva il fumo, accogliendo con un silente saluto Iris, Tonia e Federico. In cucina Federico aprì i regali per Anna, mentre ella cucinava e raccontò qualcosa del viaggio. Anna aveva imbandito la tavola come nei giorni di festa; cenarono poi chiacchierarono a lungo seduti dinanzi al fuoco. Anna non aveva smontato l’albero di Natale ed il presepe. Era ancora Natale nella sua casa! Essa accoglieva una nuova vita, una nuova giovane voce risuonava nella stanza. Anna consegnò una lettera: era un invito di matrimonio. Fiona e Pablo si sarebbero sposati il mese successivo, a Heidelberg, sul Ponte Antico, dinanzi alla loro panchina. Non era più la panchina dei tre amici, era di Fiona e di Pablo. Provò gelosia, forse per Fiona, forse per la panchina. Avrebbe aspettato un mese e sarebbe tornato a Heidelberg per festeggiare i due amici.
Si sentì felice, perché sarebbero scorsi ancora i binari, si sarebbe seduto ancora sulla panchina, avrebbe sognato di veder passare Angelika, come in un romanzo di Charles Dickens, si sentì felice perché il Neckar continua a scorrere.