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Mario Amato
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FRAMMENTI
 
Questi scritti sono frammenti di memorie, che dopo molti anni sono riemersi, certamente del tutto mutati, perché è mutato il soggetto che visse quelle emozioni.
Questi frammenti di memorie sono scritti soprattutto per gli amici, perché con gli amici ci si confida e spesso all’amico più caro si confessa anche l’inconfessabile, nascosto nelle pieghe interiori di ciò che chiamiamo anima.
Sono piccoli ricordi nati forse dal desiderio di viaggiare ancora, proprio quando malanni fisici lo impediscono, dalla voglia di tornare ad essere un viandante senza meta e senza orari, dalla vaghezza che si prova dinanzi ad un orizzonte, alla curva di una strada, all’ansa di un fiume che nascondono una nuova realtà, dall’eco di una lingua straniera che pure sembrava natia, dalla memoria di un sorriso che mai più si rivedrà. O forse queste reminiscenze sono scaturite semplicemente dal desiderio di parlare con un amico, che sta a sentire anche quando il discorso può diventare noioso e ripetitivo, ma l’amico è uno che ha pazienza, perché non può esistere amore senza pazienza.
Vi sono salti spaziali e temporali in questo viaggio mnemonico, perché un ricordo ne chiama altri, così come il viandante ama le soste e le deviazioni casuali, causate dalla stanchezza del cammino, dalla paura dell’ignoto, da un incontro, da un luogo affascinante, da una musica o da un nuovo profumo. Il viandante non si pone mai una meta, è il cammino che lo incanta. Scrive Eli Wiesel ne “Le porte della foresta” “Quando ero giovane conoscevo la meta e non il cammino, ora è esattamente il contrario”. In realtà anche il cammino resta sempre sconosciuto, anche dopo molti anni, perché se si scrivesse mille volte lo stesso viaggio esso cambierebbe mille volte.


GUGLIE (Agosto 1971)

Mi imbarco a Napoli sul transatlantico “Leonardo Da Vinci” che fra poco salperà verso New York.
Mia madre non riusciva a trattenere le lacrime, sebbene io mi imbarcassi come turista, ma ella ha nel cuore altre partenze: uno zio, al quale ora accudisce amorevolmente, avventuratosi nell’Oceano nel lontano 1920. Mia madre, allora bambina, piangeva. L’America! La terra promessa di tutti i diseredati, i traditi, i sognatori, i poveri del primo Novecento, ma anche terra di lacrime e di sangue, del sangue innocente dei nativi del continente americano, degli uomini di colore catturati in Africa e resi schiavi nelle ville di coloro che si vantavano della Costituzione e della democrazia, del sangue e delle lacrime di coloro che furono sconfitti dal sogno americano, delle lacrime e del sangue non raccontato da nessun film e da pochi libri, forse solo dai racconti e dal romanzo “Chiedi alla polvere” di John Fante. Lo zio di mia madre tornò dall’America, dal quartiere nero di Detroit, povero, ma non sconfitto; non era partito con il sogno americano nel cuore, ma soltanto per vivere con dignità, per non morire di fame. Altre lacrime versò mia madre su quel molo alla partenza del fratello diretto non negli Stati Uniti, ma in Canada. Mio zio, come si dice, “ce la fece”; trovò un posto di lavoro, generò insieme alla sua amata moglie tre figli ed imparò l’inglese.
Durante il viaggio spesso ci si annoia, ma lo spettacolo del mare aperto incanta e impaurisce. Si comprende qui, nel mare aperto e vasto, perché “Moby Dick” sia sempre affascinante anche alla quinta o alla nona lettura. E si comprende anche come i Greci abbiano creato una grande letteratura dinanzi allo spettacolo sempre uguale del mare. Il mare tuttavia genera paura ed induce a fantasticare mostri come il grande Leviatano. È una sfida perenne come quella di Capitan Achab o dell’Ulisse dantesco.
Dopo sei giorni di piacevole viaggio l’altoparlante annuncia che all’alba entreremo nel mare di New York.
Insieme ad alcuni compagni di viaggio aspetterò sveglio. La notte trascorre piacevolmente tra chiacchiere e giochi. Compagni di viaggio che mai più rivedrò; tutti lo sappiamo, ma ci scambiamo egualmente gli indirizzi. Vite che si sono incrociate per un periodo brevissimo, un frammento di esistenza per ognuno. Fra la nebbia appaiono le prime lontane luci di New York e poi intravediamo le punte dei grattacieli. Sembrano guglie di una gigantesca cattedrale, ma anche una nuova torre di Babele, una nuova moderna sfida. Rainer Maria Rilke affermava che le torri appuntite delle cattedrali nordiche gli apparivano come lance puntate verso Dio. Eppure questa visione è affascinante ed in fondo New York è davvero una nuova Babele.
Approdiamo nel nuovo mondo; la mattina trascorre banalmente sul porto infuocato di sole e di umidità; terminate le operazioni burocratiche e i saluti ai compagni di viaggio parto con mio zio alla volta del Canada. Un viaggio lungo in auto.
Qualcosa mi sorprende: la campagna americana è ordinata, coltivata alla perfezione, ma si vedono poche case. Mio zio spiega che qui si irriga con gli aerei. I campi di grano sono vastissimi. Pianure scorrono dinanzi ai miei occhi e mi addormento pensando ai film western, agli indiani d’America…
Indiani d’America! Ora sono nell’Alberta, fredda regione del Nord del Canada dove mia cugina insegna l’inglese ed il francese ai pellerossa, forse Crew o Manitoba, non ricordo. Parlo con uno di loro; è un uomo alto, robusto, con un nome appropriato: “Montagna che cammina”. È una conversazione difficile, con il mio inglese scolastico, ma mi colpiscono i suoi occhi tristi, gli occhi di un uomo che sente la sconfitta dei suoi avi. Mi mostra un dollaro e comprendo poche parole: il denaro per lui non ha alcun valore, è cresciuto con altri valori, quelli di un mondo che non esiste più, che vive soltanto nelle storie che ha ascoltato dai suoi nonni. Mentre parla un aereo sfreccia in alto e mi viene in mente l’espressione udita nei film western. Spero che “le praterie del cielo” non vengano invase.


ALTRE GUGLIE (FÜSSEN 1979, ottobre)

Il castello di Neuschwanstein si erge bianco e austero su questa cittadina tranquilla. Mi sveglio all’alba, piove copiosamente ma la decisione di visitare il castello è presa. La mia amica ed io siamo in anticipo alla fermata dell’autobus che deve condurci fino al maniero. Decidiamo di andare a piedi, stretti sotto un ombrello bianco e rosso, i colori della Baviera. Anche le fantasie degli ombrelli aiutano a non intristirsi nei giorni grigi.
È una bella passeggiata, non troppo faticosa. Entriamo da uno stretto portone. La guida ci illustra tutte le sale, racconta la storia di Ludwig II, che Heinrich Mann chiamerà “cigno”. A questo castello Walt Disney si ispirò per il cartone “Biancaneve”, ma oggi il maniero, avvolto nel grigio e in una fitta bianca nebbia, dona ai visitatori la sua vera anima, quella di un sogno mancato, della speranza mancata di trasformare la vita in una fiaba, perfino di notte, quando si dorme, quando non si è responsabili dei sogni. Borges dice che la letteratura è un grande sogno, ma la differenza è che chi scrive è responsabile: nel racconto “Sud” un uomo scende dal treno in una stazione deserta nella Pampa; mangia nel ristorante della stazione, dove ad un altro tavolo siedono quattro individui che giocano a carte ed iniziano a canzonarlo. L’uomo comprende che dovrà combattere un duello rusticano con uno dei quattro avventori e che inevitabilmente morirà, ma pure pensa che forse è un sogno e che si sveglierà e si salverà. La letteratura propone sempre un’alternativa, la vita soltanto qualche volta.
Non fu un sogno la vita di Ludwig II, nonostante il tetto del baldacchino del letto, con le sue piccole guglie a somiglianza di quelle di una cattedrale gotica.


RICONCILIAZIONE, (Heidelberg 1979)

A Heidelberg sono a casa! Questa cittadina è il mio sogno, il mio luogo delle fiabe. Qui, una notte, sulla riva del Neckar scrissi la mia prima fiaba, qui compresi che la scrittura era una parte della mia vita, non certo che fossi uno scrittore. Si racconta per amore di raccontare. Qui ogni volta che attraversavo il Ponte Vecchio recitavo tacitamente i versi di Hölderlin dedicati a Heidelberg “A lungo ti ho amato, te la più paesana di quante vidi città della patria”, e “Sul ponte mi prese l’incanto nell’ora che ci passavo”. Ogni volta che percorrevo all’alba sul ponte con la bicicletta, portando il pane caldo ai ristoranti, sul fiume, proprio là sotto, una chiatta traversava diretta a Stoccarda ed un uomo, di cui ancora non conoscevo il nome, ma che sapevo avventore della birreria in cui lavoravo come cameriere, gridava “Mario, wo fährst du hin?“ ed io rispondevo augurandogli il buon giorno. Era un segno di grande amicizia quel grido all’alba, quel volere informarsi del mio destino quotidiano, anche se quel marinaio di fiume non aspettava la risposta. Mi portò poi fino a Stoccarda con la chiatta, uno dei più bei doni che abbia mai ricevuto, sul fiume che fluisce tra colli coltivati a vigneti.
Il mio destino quotidiano era sferragliare con la vecchia pesante bicicletta tra i vicoli della cittadina, assaporare gli odori che cambiano a seconda dell’ora: il profumo di pane all’alba, lo stesso profumo delle mani delle donne di molto tempo fa’ del mio paese, delle mani di mia madre, l’odore di dolci al mattino, quando i negozi aprono, l’aroma acre delle senape nel meriggio, l’effluvio pungente dell’alcol a sera. Heidelberg cambia non solo a seconda della luce del sole, ma anche per gli odori diversi che si insinuano fra gli stretti vicoli.
Un odore forte è quello della zuppa di cipolle. Se avete percorso quaranta chilometri a piedi, da Heidelberg ad un’altra cittadina vicina e ritorno, seguendo il fiume, fermatevi in una birreria vicino al Ponte Vecchio ed ordinate la zuppa di cipolle.
Avevo camminato per quaranta chilometri, recandomi a Mannheim e tornando all’imbrunire a Heidelberg; sedetti, spossato per il cammino ma felice, in una birreria contemplando il fiume, ascoltando il brusio dell’ora. Chiesi al cameriere- un collega a quei tempi – quale piatto si potesse ordinare e la mia delusione fu grande ascoltando che l’unica pietanza pronta era la zuppa di cipolle. Proprio in quel momento però un altro cameriere serviva tale zuppa al tavolo vicino dove sedevano due coppie. Dalla zuppiera mi giunse un aroma che acuì il mio appetito, per la qual cosa ordinai a malincuore quel piatto. Mentre aspettavo sorseggiavo una buona e amara birra – “e della birra mi godo l’amaro” recita un verso di Umberto Saba – mi fu servita la zuppa. Ed era una zuppiera per quattro! Le cipolle erano solo la base del piatto, perché esso era arricchito con piselli, fagioli, lenticchie ed erbe di montagna, più pane nero abbrustolito e carne di maiale cotta alla brace e ripassata in vino Riesling, tipico della zona. Inutile dire che lasciai pulita la zuppiera.
Ci si può riconciliare con le persone, con la vita, con se stessi, ma anche con un cibo…
Sono tornato a Heidelberg nel 2003, non più studente e non più giovane, ma da insegnante con alcune mie scolaresche. La maggior parte delle ragazze ha passeggiato nella strada principale fra i negozi, ma con alcune colleghe e poche fanciulle saliamo l’erta che conduce al Castello. È una salita faticosa ora a causa dell’età e di acciacchi fisici, ma è pure sempre affascinante e da lassù si ha una visione spettacolare della cittadina. Racconto alle mie alunne la storia della riconciliazione con le cipolle, ma non possiamo fermarci perché l’autobus ci attende. Da quassù posso salutare la mia cittadina, come si saluta un’amante…


LA PARTITA SPEZZATA (Verdun 2003)

A coloro che si recano a Verdun, teatro della battaglia più sanguinosa della prima guerra mondiale, appaiono dapprima distese di erba che non fanno sospettare la tragedia svoltasi in questi luoghi, anzi le tragedie, perché ogni soldato morto in guerra è una tragedia, maggiormente quando non si comprende la ragione della guerra. Stephan Zweig scrive ne “Il mondo di ieri” che se si cercasse la vera ragione del primo conflitto mondiale nessuno riuscirebbe a trovarla e Benedetto Croce, alla fine della guerra, si chiedeva per che cosa si dovesse far festa: gli amici sono morti – diceva – imperi che furono forieri di civiltà per il mondo sono svaniti.
Il silenzio avvolge Verdun. Dopo i prati verdi iniziano campi colmi di croci, a perdita d’occhio. Scendiamo dall’autobus e ci avventuriamo tra le trincee; c’è dapprima il mormorio dei ragazzi, che man mano che si procede diviene sempre più sommesso, poi tutti tacciono. Il silenzio, in un luogo che fu rumoroso di granate e di fucili, penetra anche nei visitatori. Anche nel museo è silenzio, si parla sottovoce. Il museo è stato costruito su una trincea, che ora è secca, ma si può immaginare il fango, il fetore dei cadaveri, il freddo. Tra le armi esposte nelle vetrina c’è una piccola scacchiera spezzata in due da una granata. Chissà se quei due soldati hanno mai finito la loro partita, iniziata quasi sicuramente durante una pausa della battaglia; per qualche ora quei due militi avevano dimenticato di essere in guerra, di essere vicini alla morte; chissà se esiste un luogo nell’aldilà dove poter giocare a scacchi e dimenticare per qualche ora le tragedie del mondo…


LA PORTA CHE NON SEPARA (Metz 2003)

Quando si traversa la frontiera tra Stati Uniti e Canada si cambia nazione, si cambia atmosfera, sebbene la lingua sia la stessa, i negozi abbiano la stessa merce, i ristoranti abbiano gli stessi odori. A Metz c’è una porta che durante i secoli è passata dalla Germania alla Francia e viceversa innumerevoli volte. Ora è solo un monumento. Qui si attraversa la frontiera e muta la lingua, gli odori sono altri, l’aria è completamente diversa, anche se la distanza è di pochi chilometri. Ora l’Europa ha abbandonato gli odii tra i popoli, ma esiste sempre un senso di appartenenza. Certamente le guerre tra Francia e Germania sono state molte, ma se si scorre l’elenco telefonico di Metz si trovano cognomi tedeschi, e se si scorre l’elenco telefonico di Kehl, piccolo paese tedesco sul Reno, si trovano cognomi francesi. Tedeschi e francesi si sono sposati tra loro durante i secoli, nonostante le guerre, e la porta, orgoglio ora di una nazione ora di un’altra, non ha separato.


MAGGIO 2010

È una bella mattina assolata. Non ho voglia di leggere, né di scrivere. Cosa fare? Trascorrere il giorno in casa? No! Un viaggio, anche piccolo. Frugo tra ricordi letterari; vicino a casa, lungo la strada, c’è una grotta scavata nella roccia dove è stata collocata una statua della Madonna. Echeggiano nella mia mente i versi di Iacopone da Todi: “Madonna de Paradiso / lo tuo figlio è priso”.
Si riaffacciano alla memoria le lezioni del mio professore di italiano nel Liceo pre-sessantotto, noiose e pedanti. Che ne sapevamo noi di quei luoghi? di Todi? di Assisi? della Firenze di Dante e Petrarca? La letteratura non è forse immaginazione? Avremmo amato molto di più quelle pagine, che pure sono entrate nell’anima, se l’insegnante ci avesse mostrato dei poster di quelle città e ci avesse chiesto di immaginare una passione vivente per le vie di Todi o di Assisi ai tempi di Jacopone e di San Francesco o se, spiegandoci il Canto V dell’inferno, ci avesse fatto vedere le stanze del castello di Gradara, dove Francesca si recava nella stanza di Paolo, attenta probabilmente a non far udire i suoi passi.
È subito deciso: parto insieme alla mia badante ucraina, Anna, che di viaggi ben se ne intende, alla volta di Todi.
Giungiamo dopo mezzogiorno: le mura che cingono la città sono di per sé uno spettacolo. Entriamo in città da Porta Romana e cominciamo a salire la ripida salita che conduce fino alla piazza della cattedrale, ma abbiamo fame e gli odori che giungono dalle locande acuiscono l’appetito.
Decidiamo di rimandare la visita al pomeriggio, ma intanto camminiamo e pensiamo ai tempi di Jacopone, alle passioni viventi che sono state rappresentate in questa strada, forse più scoscesa dello stesso calvario. Camminiamo tra la storia; i palazzi sono antichi.
Entriamo in un piccolo ristorante. Lo stomaco ha le sue esigenze, anche se si è dentro la storia. Il menù ha una bellissima introduzione: un benvenuto e un ringraziamento ai clienti per aver scelto questo locale a conduzione familiare. Mi sembra un atto di gentilezza e civiltà. L’educazione è fatta di piccoli gesti; ed anche la civiltà! La proprietaria pone subito il cestino di pane sul tavolo, pane umbro senza sale. Spiego ad Anna che l’origine del pane senza sale nell’Umbria e nelle Marche risiede in un rincaro dell’aumento della tassa sul sale posto dallo Stato Pontificio, in seguito al quale i fornai decisero di cuocere il pane senza il prezioso alimento. Aggiungo che in un verso della Divina Commedia Dante dice
Tu proverai sì come sa di sale lo pane altrui, e come è duro calle lo scendere e 'l salir per l'altrui scale”.
Non conosco tuttavia la ragione dell’usanza toscana di cuocere il pane senza sale. Mi viene in mente che tutti coloro che per una ragione o l’altra lasciano la propria terra possono comprendere pienamente questi versi danteschi. Ho mancato di tatto.
Il pranzo è terminato ed ora dobbiamo immergerci ancora una volta nella storia. Non saliamo da questa strada, ma dal Porta Nova, dove un ascensore ci porta fino al centro della città. Dalle ampie vetrate si può ammirare la campagna ricca di oliveti e vigneti.
Passeggiamo ancora per un po’ tra le antiche strade, nella storia.
Avremo un bel ricordo e qualcosa da raccontare …


RECANATI (2001 forse)

La letteratura è fatta anche di luoghi.
Il luogo natio non è sempre grato, come non lo fu Firenze con Dante e Recanati con Giacomo Leopardi, eppure nei riferimenti che troviamo nei “Canti” traspare un amore infinito per questo paese, che sorge arroccato su un alto colle e dove ora ogni via, ogni locanda è dedicata al grande letterato.
Il suono che proveniva dalla torre del borgo evocava ricordi in Giacomo e c’erano gli odorosi colli, la finestra di Nerina, il mare lontano e i monti e il verso della rana remota alla campagna!
C’era anche il “Natio borgo selvaggio, intra una gente Zotica, vil; cui nomi strani, e spesso Argomento di riso e di trastullo …
È tuttavia necessario non confondere questa gente zotica con i concittadini di Leopardi, ma comprendere che l’obiettivo polemico del poeta erano gli intellettuali cattolici di Recanati. La cittadina era allora alla periferia dello Stato Pontificio e certamente un uomo che affermava l’inesistenza di Dio e del mondo ultraterreno dava scandalo.
Ed ancor più se si pensa all’immagine delle madri che il cattolicesimo veicolava, rifacendosi alla Madonna, mentre Leopardi lottava contro la sua di madre, la quale pregava per la morte dei figli quando essi si ammalavano, perché l’infermità le pareva un segno della predilezione di Dio. Leopardi al contrario esaltava il piacere: “Al mondo” egli scrive “piace ridere, non già di piangere”. Poteva la Chiesa Cattolica apprezzare uno scrittore che scrive di Roma che “puzza di sacrestia”?
Visitando casa Leopardi, soprattutto la famosa biblioteca, dove Giacomo fanciullo trascorse i celebri sette anni di studio matto e disperatissimo, si è spinti ad immaginare il futuro grande poeta seduto alla scrivania, che di tanto in tanto interrompe lo studio e volge lo sguardo alla finestra o tende l’orecchio ai suoni che provengono dal piccolo mondo di Recanati. Dalla finestra o dalla loggia egli guardava i monti e s’immaginava un giorno di varcarli, dalla loggia ascoltava il canto di Silvia, il fischiettio dello zappatore, i bambini che facevano un lieto romore, il verso delle galline dopo la tempesta.
E tutto confluì nella sua poesia. E li varcò quei monti il Leopardi, coraggiosamente, poiché se fosse rimasto a Recanati, sarebbe pur stato sempre il Conte Leopardi, ma non poteva, perché le ragioni, le sue ragioni urgevano dentro. Quest’uomo, tra i più grandi, che l’Italia ha avuto, fu incompreso per molto tempo, anche dopo la morte, quella morte che a lui sembrava un’ingiustizia. Lontano da Recanati la sua visione del mondo si fa più cruda ed a poco a poco scompaiono i rumori che evocavano in lui, ed evocano ora in noi, dolcezza e amore per la vita. Rumori, odori semplici; non a caso sarà uno dei poeti più amati da Umberto Saba, che nel Novecento valorizzerà ogni aspetto della vita, sebbene la filosofia di Leopardi sia tutt’altro che semplice.
È dono dei grandi saper parlare ai cuori semplici e agli intellettuali allo stesso tempo.
La visita a casa Leopardi è terminata; scendiamo le scale, insegnanti e studenti, convinti di aver arricchito le nostre anime. Dal terzo piano, abitato ancor ora, scendono tre membri della famiglia Leopardi. Un ragazzo mi dice sottovoce che deve essere difficile portare quel nome.

Recanati ospita una mostra dei pittori sacri delle Marche. Abbiamo camminato molto per le vie di Recanati ed i ragazzi sono stanchi. Fatico a convincerli ad entrare, ma finalmente accettano.
Abbiamo un’ottima guida: l’ultimo capolavoro che ammiriamo è l’Annunciazione di Lorenzo Lotto (1527 ). Maria è di spalle all’angelo che ha sì i capelli ricci e biondi, come voleva lo stereotipo rinascimentale, ma non ha il volto sereno, così come in alto il volto di Dio è severo, perché sa che sta chiedendo un grande sacrificio. Maria sembra spaventata. Nel dipinto è ancora riconoscibile la presenza della coscienza del terrore del metafisico.
Penso alla seconda elegia duinese di Rainer Maria Rilke che si apre con i versi “Ogni angelo è terribile”. La clessidra in fondo, vicino alla parete sta a significare la storicità di Cristo.
Giunge il suono del clacson del pullmann che si mescola a tocchi di campana, forse della torre del borgo: Viene il vento recita con un sorriso una ragazza …