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Zelinda Carloni
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DISMEMORANDO DIO
(appunti sulla liceità speculativa del concetto di Dio)
 
II motivo primo che spinge l'uomo verso la divinità è la ricerca, meglio, la necessità di trovare, nell'essere del mondo e dell'universo, la ragione di esistere delle cose. Ciò implica che le varie risposte umane a questa esigenza, che si concretizzano nelle varie immagini del divino, contengono, o pretendono di contenere, la ragione prima e ultima delle cose.
In realtà, al contrario di quanto non appaia comunemente, è una esigenza razionale che spinge l'uomo ad affidarsi alla divinità, è l'esigenza di trovare un ordine logico alla apparente, o reale, illogicità e irrazionalità del mondo. Diviene insostenibile per l'uomo accettare ciò che gli appare come il casuale e insensato esistere del mondo e delle cose. L'uomo religioso tende incessantemente a giustificare con motivi di causa ed effetto ciò che gli apparrebbe insopportabile accettare al di là della sua comprensione logica. Dio è, in realtà, una garanzia razionale, le religioni sono forme di ordinamento logico di tutto ciò che nel mondo apparirebbe altrimenti insensato e alogico.
Il primo attributo che, in forme o criteri diversi, viene assegnato a Dio, o alla divinità in genere, è il suo essere creatore del mondo e delle cose, l'artefice primo, la mente generatrice del tutto; all'interno della creazione l'uomo appare essere una creatura, una "delle" creature. Ed è incontestabile il fatto che l'uomo sia "parte" e non "tutto" all'interno dell'universo. Ma se ciò è vero, vale a dire che l'uomo dell'universo non è che una parte del tutto trascurabile, non si può che dedurne che, qualunque immagine egli si faccia di Dio, non può essere altro che la sua proiezione parziale e della parzialità della sua esperienza.
Se partiamo dal presupposto, incontrovertibile, che l'uomo è parte del tutto ed è armonico al tutto (o disarmonico, ma comunque, se così fosse, sarebbe armonicamente disarmonico col tutto), è ipotesi paradossale pensare che una parte possa spiegare le ragioni del tutto prescindendo da esso. E ancora, le parti del tutto di cui l'uomo ha cognizione sono infinitamente finite, nel senso che il tutto non è, non solo percepibile, ma nemmeno ipotizzabile dalla cognizione umana. Solo l'esplorazione speculativa gli è consentita, ma ciò non consente l'esplorazione diretta e quindi lascia la cognizione al grado possibile dell'umano e, quindi, fatalmente ad un grado relativo imperfetto e infimo. Ma sarebbe d'altra parte assurdo, accettando il presupposto da cui si è partiti, che pur avendo conoscenza anche diretta del tutto, l'uomo possa, a prescindere da esso, da solo spiegarne le ragioni. E anche supponendo, per paradosso, che fosse possibile consultare l'intero esistere dell'universo, la sintesi razionale di tutto ciò non potrebbe spettare singolarmente a nessuno dei suoi componenti: pensate se se ne arrogassero il diritto le formiche.
Tutte le forme di superstizione o di magia che sono contenute nelle religioni contribuiscono a creare un sistema di ragioni accessibili per ciò che sarebbe altrimenti irrimediabilmente "altro da sé". Ma se è possibile considerare la validità di questa operazione da un punto di vista psico-antropologico, è altrettanto importante stabilire la sua illegittimità da un punto di vista speculativo.
È evidente che se di Dio si deve parlare non è possibile esimersi dal considerarlo almeno in senso universale, non esaminando per esempio solo la concezione che ne hanno le grandi religioni monoteiste ma confrontandone l'immagine nelle diverse tradizioni. A questo proposito è impossibile non notare la circostanza che si assiste alla costante smentita reciproca della figurazione divina. Dio è stato, nella storia dell'uomo, di volta in volta una cosa e il suo opposto (per esempio, Dio vindice o misericordioso, uno solo o molteplice, conoscibile o inconoscibile, trascendente o immanente, in relazione con l'uomo o del tutto da lui separato). Il fatto che tutto questo non turbi nessuno e non procuri alcun dubbio nelle coscienze può far passare più di una notte insonne. E' evidente che, se non altro nella continuità antropologica della pratica religiosa, Dio non riesce a trovare una propria dimensione di certezza. Neanche nella laboriosa pratica filosofica di millenni si riesce ad assistere a tanta nebulosità nel ricercare delle costanti che determinino un concetto.
Diviene quindi necessaria l'osservazione di un dato: non solo l'uomo, parte infinitesimale dell'essere dell' universo, pretende di determinarne le ragioni, ma gli uomini non sono nemmeno concordi nello stabilire quali queste siano. Se io fossi dio ciò mi seccherebbe molto.
È palese che, da un punto di vista speculativo, poter usare un concetto, quindi un universale, è subordinato alla possibilità di trovare delle costanti definitorie del concetto stesso, per cui, non avendo la possibilità di trovarne per ciò che concerne Dio come concetto, si deve arrivare alla conclusione che non è possibile usare Dio come elemento speculativo (per esempio, per stabilire le cause prime o i fini dell'esistere dell'universo).
Le ragioni antropologiche o psicologiche che possono giustificare la pratica reigiosa dell'uomo nei tempi debbono quindi essere considerate come limitate ad un accidente particolare della costituzione stessa de!l'uomo, accidente che non può essere esteso a comprendere una valutazione che trascenda !'uomo stesso, o che comunque lo comprenda all'interno di un sistema fortemente disomogeneo.
Probabilmente l'unico ambito speculativo in cui è possibile attribuire legittimità all'idea di dio è quello interno all'uomo, perché qui sì il sistema appare omogeneo, determinato dalle caratteristiche stesse dell'umano e, malgrado il carattere di nebulosità della richiesta del (e delle risposte al) divino che già abbiamo evidenziato, possiamo considerare il dato teorico della persistenza dell'evento che, in qualche modo, rappresenta una costante.