rammemorare/dismemorare 
[ Testo:  successivo  ]  [ fascicolo ]  [ autore
Romolo Runcini
 
LA MEMORIA E LA VITA
(da "taccuino di Viaggio '90" - note scritte in treno e in aereo)
 
Sfogliare una vecchia agenda è pericoloso, quasi un andare contro Natura. È un insulto alla irreversibilità del tempo, una intrusione nel vuoto della zona interdetta; una sfida alla Morte. Ciò che è accaduto a noi è finito, irripetibile, inconciliabile con quanto sentiamo attualmente anche se ciò che costituisce il nostro esserci deriva da quella spinta.
L'esperienza del mondo si offre come ricapitolazione del passato facendosi memoria del tempo. Ma questa memoria ha un senso solo se confrontata col presente, ossia se ci invita a un esame della realtà in cui siamo, mettendoci in grado di evitare o accettare eventi che ci hanno minacciato o favorito nel nostro cammino: la memoria insomma può avere un unico valore positivo per noi, quello di cavar profitto dalle circostanze. In tale prospettiva è giusto sostenere il valore sociale dell'esperienza che nella memoria ha fondato il suo principio formativo della persona.
Sfogliando le vecchie agende, i diari, i quaderni che abbiamo riempito di appunti, di propositi, troviamo il nostro passato nell'immediatezza di una notazione con cui ci eravamo immersi nella realtà del presente. Possiamo approfittare di quanto abbiamo visto o provato, oppure schivarne ogni possibile conseguenza negativa. Possiamo naturalmente lasciar cadere tutto ciò se le due prospettive del passato e del presente non collimano. È una scelta totalmente nostra. Nondimeno se spostiamo il nostro interesse dal piano puramente personale a quello esistenzialmente incontrollabile del mondo degli altri, delle persone incontrate, degli amici, dei parenti che contavano per noi, la prospettiva cambia di segno. Non siamo più noi a poterci valere degli errori commessi, dei propositi sfumati o della volontà di proseguire nei sentieri già ben tracciati. In presenza del mondo degli altri, sono gli altri che contano; anche in relazione alla nostra amicizia, alle attese che ci eravamo ritagliate. Qui scatta un altro tipo di scelte e la memoria ci offre solo l'immagine viva e sfocata di quelle persone. È una memoria nostalgica, non costruttiva, a corroborare per noi l'immagine degli altri.
La perdita di un amico può esaltare in noi il ricordo di giorni felici o drammatici passati insieme, e proprio la lettura delle nostre vecchie agendine finisce per esaltare la sua figura anche più di quanto non ne avessimo tenuto conto in passato. Si muove di qui una memoria tanto accesa da farci sfogliare le pagine con gli appunti fissati negli anni trascorsi sull'incontro, sulle conversazioni, sui propositi comuni tenuti con la persona amica, con rispetto sacrale, religioso; quasi un tacito invito a sospendere il tempo, a voler tornare indietro, per spiegarci meglio, a capire di più, a non perdere il pathos di quei momenti così importanti per noi. La memoria-nostalgia ci induce insomma a sopprimere il presente, il nostro presente, pur di catturare un istante di gioia/dolore trascorso assieme. Per tale scelta scatta l'inestinguibile passione totalitaria del nostro io, che vorrebbe incontri e confronti esaustivi con l'altro da sé, dove nulla resti in sospeso, trascurato, per un bilancio sempre positivo della nostra esperienza.
Ma la pagina scritta, il suggello di uno stato d'animo disegnato al momento nei toni indeterminati di progetti da realizzare in comune, oppure di mancanze che andavano riparate, ci inducono spesso allo sconforto -dopo la morte o la lontananza dell'amico- per non aver soddisfatto i nostri più intimi desideri nel tempo giusto. Di qui la colpevolizzazione che ne deriva per ogni impegno deluso. La memoria allora diventa per noi una nemesi per quanto abbiamo trascurato di fare, risuona in noi con la voce implacabile di chi ammonisce per la nostra incongruenza e insensibilità nel rapporto con gli altri.
L'esperienza del nostro passato può dunque valere soltanto allorché riusciamo a riflettere su noi stessi, sui nostri errori e propositi, facendoli convergere nel presente in un quadro di tabù e precetti da osservare attentamente. La memoria che sostiene questa sfida sempre attuale col nostro tempo deve saper cogliere il massimo profitto dalla lettura di quel quadro per le azioni da fare o da evitare.
L'altra memoria, quella che non ci riguarda in prima persona ma investe il mondo degli altri appare così uno spazio pericoloso per noi, assolutamente non funzionale all'impegno richiesto per la costruzione quotidiana, progressiva della nostra personalità.
La fine del tempo -il nostro passato inteso nella sua relazione col mondo degli altri- deve costituire per noi un punto assoluto di non ritorno pena la perdita della nostra stessa entità di persona, che si aggirerebbe nei meandri degli spazi interdetti di un vissuto non proprio. Si capisce di qui l'elementare culto dei morti (che anticipò le religioni storiche) per cui i nostri antenati primordiali (e i popoli primitivi di oggi) sono riusciti ad evitare il pericoloso connubio del vivo col defunto accreditando con offerte e sacrifici la propria presenza esistenziale come il solo valore accettabile per la società. In tal modo la comunità dei vivi uccide due volte Ia comunità dei morti e una barriera invalicabile viene posta tra i due mondi. I soli legittimi a valicare quella barriera -la barriera del tempo- erano gli sciamani. Essi soltanto potevano attraversare indenni il confine fra tempo sacro (quello dei morti) e tempo profano (quello dei vivi), fra eternità e quotidianità. Le religioni storiche hanno continuato e esaltato il potere degli sciamani fondando le chiese, impadronendosi delle coscienze, entrando in campo e in conflitto con le istituzioni sociali, occupando spazi totalizzanti all'interno delle comunità, portando disperazione e conforto nei redenti, stilando mappe di identità religiose, etniche, politiche tra fedeli e infedeli, ortodossi e eretici e agendo in conseguenza. In effetti la memoria del passato -tranne quello ripetitivo e encomiastico dei profeti e dei santi- è sempre stata condannata da tutte le chiese. La memoria del mondo apparteneva esclusivamente al patrimonio liturgico delle religioni come "verità rivelata", essenza della "tradizione", "mito".
L'arte e la scienza hanno strappato ora segretamente ora con violenza i sigilli del mistero che racchiude questa memoria del mondo, avviandoci a comprendere la figura dell'uomo come una presenza di individui che il caso e la necessità hanno condotto allo sviluppo fisico e mentale nell'ordine di una società in cui si rendevano autonomi ed indipendenti dalle leggi di natura.
La memoria del mondo -una volta secolarizzata, sottratta alle pratiche liturgiche di amministrazione dei misteri e delle verità assolute- si è fatta più duttile, più accessibile che nel passato. Ma questa sua nuova legittimazione laica (conquistata nei secoli con asprezza e decisione) non le ha giovato molto. Ciò che il processo di secolarizzazione ha spazzato via come un inutile ingombro era non soltanto l'ignoranza e la superstizione, quale binomio negativo del quoziente religioso, ma anche il patto col regno dei morti che ogni religione è in grado di gestire in proprio. Questo patto copre e difende la paura ancestrale del confronto con l'altro da sé, la paura della morte. La soglia fra determinato e indeterminato, vissuto proprio e altrui, mondo dei vivi e mondo dei morti, spazio profano e sacro ci attira come l'abisso da cui siamo stati scaraventati, senza chiederlo, in questa banale realtà quotidiana. Il nulla è l'unica risposta che temiamo di sentire per le grandi domande dell'uomo: chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo? La morte ci atterrisce ma ci affascina. A difesa di questo fascino c'è sempre pronta una religione.
Ma la memoria del mondo può anche eludere questo guardiano autorizzato a darci conforto. È allora che la voglia di sapere, di vedere, può spingerci oltre la soglia lasciandoci in balia del caos. Liberi nella nostra dissolutezza di affrontare e saccheggiare territori sconosciuti, ma anche facili prede del vizio di esistere in prima persona e del piacere di giocare con la morte.
Nessuno può negare che il desiderio imperioso di eternità è uno stimolo costante in ciascuno di noi a sperare nel futuro, a sognare di esser vivi nella memoria degli altri; anche quando gli altri non ci conoscono, non sanno chi siamo noi facciamo dei segni, scriviamo i nostri nomi sui muri delle case, sulle colonne di antichi templi, sulle porte dei cessi nei vagoni ferroviari. Questi nomi e segni che lasciamo a nostro ricordo sono gli appunti dei diari, delle agende personali. Scrivere, fissare la memoria del tempo può essere un modo di non sentirci soli, è certamente una difesa contro paure ancestrali e magari un tentativo di tradurre quella paura in simulacri di conoscenza diretta, partecipata, dell'avventura quotidiana.
Ma i territori sconosciuti della memoria del mondo sono attraversati dalla morte. Solo i poeti riescono a tornare indenni da quei territori. Il bottino da conquistare è grande, ma la posta è sempre troppo alta. Ecco perché è pericoloso sfogliare una vecchia agenda.