identità e imperfezione 
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Andrea Cacciavillani
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UNPLUGGED - Parte Seconda
 
STANZA 321


Guardò per qualche istante la porta e il suo numero luccicante, poi mise la chiave nella serratura e aprì. Notò che c'era anche la maniglia esterna e ne fu felice perché altrimenti avrebbe dovuto lasciare la porta aperta per fare in modo che Stefania potesse entrare senza che fosse lui ad aprire.
La camera era immersa nel buio, si fermò sulla soglia in attesa che le sue pupille si abituassero alla differenza di luce e lentamente gli comparve davanti agli occhi la forma di un letto.
Entrò chiudendosi delicatamente la porta alle spalle. Si girò un po' attorno e posò la chiave su un tavolino. Rimase immobile senza tentare neanche di capire dove si trovasse l'interruttore della luce, continuando solo ad osservare il posto in cui si trovava.
La camera, man mano che i suoi occhi si abituavano alla penombra, gli restituiva alla vista, in modo sempre più definito, le sue dimensioni, i suoi oggetti, il suo profumo.
Iniziò a muoversi verso la finestra dalla quale filtravano raggi rossastri che dovevano attraversare le imposte semi aperte e poi le tende bianche, sottili e chiuse. Una luce blanda e sofferente che si buttava diagonalmente sul letto.
Seguì quella scia luminosa toccando con la mano la lettiera metallica e fredda che gli trasmise un senso di estraneità; di fronte al letto un armadio con le ante semi aperte dall'interno del quale proveniva un odore di coperte e stoffa.
Quando arrivò alla finestra scostò le tende, aprì leggermente le persiane e si sporse per vedere su quale lato dell'hotel affacciava. Non riconobbe la strada dalla quale era arrivato, ma non ne era sicuro e comunque non gli importava.
Si ritrasse e continuò a camminare fino ad una porta che si trovava lateralmente all'armadio; la aprì e tastò il muro per cercare l'interruttore: il bagno si illuminò di una luce bianca e intensa che si rifrangeva e si allargava sul bianco lucido dei sanitari, sulle mattonelle, sugli asciugamani.
Dovette stringere per un attimo gli occhi prima di potersi di nuovo abituare alla luminosità che invase quella piccola stanza; quando vide la cabina doccia ebbe il desiderio di infilarsi sotto un getto d'acqua tiepido e vigoroso perché voleva togliersi di dosso l'odore del viaggio in treno ma era troppo nervoso e non sarebbe riuscito neanche a sfilarsi una scarpa.
Stefania stava per arrivare.
Spense la luce e richiuse la porta. Tornò verso la finestra, l'unica presente nella camera, e si girò di spalle appoggiandosi al davanzale; da quella posizione tutta la stanza entrava nel suo campo visivo: il letto, l'armadio, i comodini con sopra le abat-jour. Tutte quelle cose diventavano sempre più solo contorni scuri man mano che i minuti passavano.
La luce del tramonto aveva lasciato spazio a quella artificiale dei lampioni che ancora più indebolita filtrava esanime solo per morire sul pavimento al bordo del letto.
Si accorse di avere ancora il giaccone addosso, lo tolse e lo lanciò sul materasso con un tonfo sordo. Il silenzio della stanza era perfettamente accompagnato da quello esterno, come se su quel piano non ci fosse nessun altro. Tutta quell'assenza di rumori lo pervadeva, lo circondava a tal punto che anche il battito del suo cuore lo infastidiva; respirava lentamente, profondamente cercando di darsi un ritmo più regolare di quello che la tensione gli permetteva di avere.
Assenza di rumori, quasi assenza di luce, assenza di pensieri validi e coerenti.
La sua mente sfrecciava come un missile su tutto quello che stava succedendo: su Stefania che stava per arrivare, su di lui che eri lì in piedi e in attesa, sulla loro storia, su quella stanza buia e silenziosa. Non riusciva a fermarsi in un punto logico per ragionare su una serie di parole da dire, di reazioni da avere, di gesti da fare nel momento in cui Stefania sarebbe entrata dalla porta che aveva di fronte.
Neanche in treno era riuscito a pensare a quel momento, era troppo eccitato e allo stesso tempo nervoso e ogni volta che provava a pensarci la sua mente si trovava di colpo di fronte ad una infinita serie di bivi e sistematicamente perdeva di vista la strada che voleva percorrere.
In questi casi bisogna solo aspettare.
Come l'anima che Stefania in quei tre mesi gli aveva donato e della quale si era invaghito inesorabilmente, gli aveva dettato reazioni sincere che vivevano dentro di lui e che riportava nelle e-mail o gliene parlava in chat, allo stesso modo il suo corpo gli avrebbe dettato il comportamento, le parole, i gesti.
Sentì il campanello dell'ascensore che arrivava al piano; il rumore si propagò nel silenzio viaggiando nello stretto corridoio tra le porte delle camere e la moquette.
Il suo nervosismo e la quiete esterna nella quale era immerso amplificarono a dismisura quel suono che si conficcò come una lancia dentro di lui.
Trasalì: sentiva la pelle che si accapponava e una serie completa di brividi iniziò ad attraversarlo furiosamente su tutto il corpo come una cavalleria.
Iniziò a guardarsi intorno come se volesse scappare, o nascondersi per sparire nel buio di quella stanza. Se il cuore ne avesse avuto la possibilità, sarebbe balzato fuori dal petto saturando quel silenzio con i suoi battiti accelerati all'inverosimile.
Gli rimasero attivi solo due sensi: lo sguardo fisso verso la porta e le orecchie tese fuori verso il corridoio.
Il suo corpo era diventato un radar.
La dimensione del tempo che passava si era dilatata e dilaniata, non riusciva più ad avvertire la successione di istanti che si susseguivano da quando aveva sentito l'arrivo dell'ascensore e non registrava la presenza di nessuno che si muovesse fuori.
Forse non era Stefania. Forse era qualche altro ospite che alloggiava nell'hotel e magari nell'ala opposta. Forse aveva immaginato il campanello dell'ascensore.
Non sentì la porta che si apriva, vide solo una lingua di luce che si allargava e si allungava partendo dall'estremità inferiore della porta fino a tagliare diagonalmente il letto. Rimase fermo, fisso sulla soglia cercando di produrre meno rumore possibile, regolando forzatamente anche l'aria che entrava ed usciva dai suoi polmoni. Immobile, attendeva solo di vedere entrare una forma umana. Gli si era pietrificato lo sguardo su quella infiltrazione e immaginava Stefania che, come aveva fatto lui, attendeva dietro la porta che le si compensasse negli occhi la differenza repentina di luce; probabilmente anche a lei in quel momento stava evidenziandosi pian piano la forma del letto.
Con una differenza abissale di stato d'animo però: lei sapeva che c'era qualcuno lì dentro che la stava attendendo e probabilmente a tutto quello si era aggiunta anche la preoccupazione di aver sbagliato camera; un errore che le avrebbe fatto imbarcare tensione che si sarebbe scaricata in una stanza vuota o addirittura con la persona sbagliata.
- Stefania?!
Fu il suo cervello che autonomamente diede ordine alla sua bocca di aprirsi per emettere quella sequenza di suoni e lettere, perché non riusciva più a tenersi in equilibrio sul filo teso di quella tensione. Era la prima volta che pronunciava il suo nome ad alta voce e quel suono riempì come un rumore improvviso tutta la stanza lacerando il buio, rimbalzando sulle pareti, sul letto, infiltrandosi nell'armadio attraverso le sue ante aperte. Avrebbe voluto risentirne l'eco per capire con quale tono e con quale volume lo aveva pronunciato. Non sapeva se Stefania o chiunque si trovasse dietro quella porta avesse sentito. Gli venne il dubbio che quel nome non lo avesse pronunciato davvero.
Stava affogando nel mare in tempesta delle sue emozioni.
- Si!
Non capì se gli arrivò per prima quella voce sussurrata alle orecchie oppure i contorni infuocati di una massa di capelli agli occhi.
Rimase fermo senza dire una parola guardando quella figura che lentamente si componeva spostandosi da dietro la porta. La luce proveniente dal corridoio la colpiva da dietro stagliando in fondo alla stanza il profilo di una figura nera e piena. Sembrava il disegno di una persona in grandezza naturale alla quale era stata data come unica definizione il tratteggio giallo arancio dei contorni.
La porta si chiuse lentamente e quel piccolo fascio di luce fu risucchiato e ricacciato indietro nel corridoio riportando il loro corpi nell'oscurità.
Iniziò tra loro una comunicazione strana e surreale composta di immobilità, semicecità, silenzio e respiri trattenuti. Erano due ombre tridimensionali.
- Ciao Stefania! Sono qui.
Voleva rompere quel silenzio, darle la capacità di comprendere dove fosse, di come fosse il tono e il timbro della sua voce.
- Sì, ti vedo.
Era un sussurro, come se provenisse da profondità sconosciute. Ti vedo. Era una cosa che Stefania gli aveva scritto durante una delle prime conversazioni in chat che avevano avuto:

Gianni - Ciao Stefania, è un piacere "vederti".
Stefania - Perché lo hai messo tra virgolette vederti?
Gianni - Perché non ci vediamo. Ma non è in senso negativo che l'ho inserito. Sa, qui trovo difficoltà ad attribuire ai termini lo stesso significato che hanno nella realtà.
Stefania - Sei sicuro che non ci vediamo Gianni?
Gianni - Che vuoi dire?
Stefania - Non mi stai immaginando in questo momento? Non voglio sapere come mi immagini, voglio solo sapere se mi stai immaginando.
Gianni - Sì, ti sto immaginando. Non siamo in grado di pensare al "nulla". E quindi credo sia necessario per noi, quando la persona non la vediamo con i nostri occhi, costruirci nella mente un'immagine tutta nostra. Immagine alla quale indirizzare le nostre parole e attribuirle quelle cose che ci dice.
Stefania - Allora non è vero che non mi vedi? Io sono davanti ai tuoi occhi adesso.
Gianni - Si, lo sei.
Stefania - Io ti vedo.
……….


Ma in quel momento era diverso: certo non la vedeva o almeno non perfettamente ma ne comprendeva i contorni e la densità ed era meraviglioso avvertire il suo corpo immobile, in attesa e in tensione in quella stanza al buio.
Aveva sentito la sua voce per la prima volta anche se ancora non riusciva a fare osservazioni sul suo timbro e sulle sue sfumature. Una volta riconosciuto un tono femminile, non era arrivato a fare altre considerazioni. Come se fosse una voce già sentita che non aveva bisogno di ulteriore analisi, anche perché le sensazioni si avvicendavano turbinando all'impazzata e la sua mente non reggeva al filtraggio contemporaneo di tutto quello che da qualche istante stava succedendo.
Si diede un piccolo colpo di reni per mettersi dritto con la schiena e iniziò a muoversi verso di lei, lentamente, cercando di intravedere nel buio l'unico passaggio, tra il letto e l'armadio, per arrivare verso la porta.
Toccò nuovamente la lettiera ma la sua consistenza metallica e fredda non gli fece alcun effetto.
Ogni passo lo avvicinava a lei e quello bastava per annullare le sensazioni fisiche esterne: se qualcuno fosse entrato nella stanza sparando all'impazzata, lui ci avrebbe messo del tempo a comprendere cosa stava succedendo.
Più si muoveva, più si sentiva al sicuro e sicuro, perché stava scomparendo quell'intenso senso di stranezza ed estraneità che lo avevano agguantato da quando si era messo in viaggio per poi entrare sconosciuto in una stanza d'albergo che invece in quegli istanti gli sembrava sempre più sua.
La stava amando quasi.
Si avvicinava e respirava l'aria che circondava Stefania impregnata del suo stesso fiato, che soffiava una nuova e più intensa vitalità al sogno di potersi incontrare con lei; quel sogno che aveva covato e costruito nel tempo ma che era sprofondato nella voragine delle incertezze e delle preoccupazioni fin da quando era stato dato l'input alla sua realizzazione.
In quel momento era come se passeggiasse voluttuoso ed eccitato in quel mondo immaginario che si erano costruiti, con la differenza che vi camminava con i suoi piedi riuscendo ad assimilare perfino il pavimento sotto di lui.
Si fermò quando era a poco meno di un metro da lei. Non riusciva a vederla e non cercava neanche di sforzarsi perché era come se la comprendesse nell'intero.
Stefania aveva le braccia lungo i fianchi e il volto che immaginò essere rivolto verso di lui: era ancora ferma, immobile; notava solo il suo torace che si espandeva e si contraeva lentamente e ritmicamente.
Allungò un braccio verso il suo viso fino a quando non sentì con la punta delle dita i suoi capelli e si fermò: voleva scambiare calore con loro prima di continuare a distendere il braccio attraversando quella massa setosa che gli carezzò il dorso della mano. Il suo respiro perse il ritmo quando sul palmo sentì il leggero tocco della pelle del suo collo che gli sembrò avesse un'energia e una consistenza mai sentita prima, realizzato con un velluto che non aveva mai toccato.
Si costrinse quasi a chiudere gli occhi prima di distendere l'altro braccio e racchiudere la testa tra le sue mani. Iniziò una lenta esplorazione del viso usando solo la punta delle dita di entrambe le mani.
Passava silenzioso, lento e accorto sui suoi tratti, sulla sua fronte, sulle sopracciglia piccole e arcuate, sugli occhi che avevano le palpebre chiuse; le carezzò le ciglia allungate e sottili con una delicatezza tale da dare l'impressione di volerle contare tutte.
Cadde sui suoi zigomi morbidi e lisci, sulle guance, attraversò il naso.
Quando arrivò alle labbra iniziò a tratteggiarne il contorno partendo dall'estremità opposte fino a far incontrare le dita nel solco centrale per poi ripartire in direzione opposta e farle incrociare di nuovo in basso; si infiltrò nella piccola fossa del suo mento, per risalire in alto con movimenti perfettamente simmetrici verso le orecchie. Stava disegnando.
Non cercava di capire se la donna che aveva dentro da un mese e mezzo fosse simile a quella che aveva davanti, no lui la stava ridisegnando da capo.
Sostituiva l'immagine che aveva elaborato la sua fantasia con le forme che le sue dita gli trasmettevano nella mente facendole viaggiare sui brividi. Era un cieco che cercava di leggere il braille di un sogno. Scese sulle spalle che si muovevano quasi impercettibilmente, si lanciò in una carezza lenta e palpabile delle sue braccia che avvertiva sottili e coperte dal cotone di una maglietta.
Fu un attimo sentire le sue mani e poi percepire il lento movimento che fece Stefania per fare in modo che i palmi poggiassero l'uno sull'altro; si fermò così, accarezzandole senza movimento per qualche istante come se volesse far combaciare le linee delle loro mani, pensando che si stessero incrociando i loro destini. Destini scritti in quei solchi.
Le strinse le mani e Stefania fece un piccolo passo verso di lui: sentì immediatamente il profumo della sua fronte che gli penetrava nella gola attraverso le narici. Le loro mani incrociarono le dita e lei alzò il viso facendo sfiorare la punta del loro naso e continuò ad alzarlo, lentamente finché le labbra non si scambiarono i respiri, e poi la morbidezza, e poi la lingua.
Mentre la baciava, si immerse fisicamente in quella nera figura in un abbraccio totale e completo. Sentiva il suo seno contro il petto morbido e caldo, la sua schiena contro le sue mani ondulata e contratta. Stefania sembrava si stesse sciogliendo come una statua di cera sotto un sole torrido attaccandosi al suo corpo con movimenti che diventavano sempre più sicuri, decisi, fluidi.
Le sue mani lo cercavano, lo scrutavano, lo accarezzavano con una impetuosità sempre maggiore che lo eccitarono e lo stupirono. Fu lei a spingerlo indietro verso il letto senza smettere di muovere la lingua sulle sue labbra e nella sua bocca con la mano sui suoi pantaloni, che seguiva perfettamente la traccia del suo sesso eccitato. Iniziò una danza impetuosa, umida, erotica di cui lei ne era il cavaliere, la guida; era lei che suonava volta per volta la melodia, lei che batteva il ritmo, lei che segnava il passo. Era diventato completamente passivo ai gesti e al corpo di Stefania che lo guidavano come un aereo telecomandato su in alto, nell'aria, nel cielo per stagliarsi nell'infinito di quel blu che vedeva solo attraverso i suoi occhi chiusi. Sul morbido di quel letto era lei che comandava e decideva i suoi volteggi, le sue piroette, le sue cadute in picchiata e lui si lasciava trasportare, perché aveva perso i contatti con il mondo, con la razionalità, con i suoi pensieri; tutto si stava sciogliendo sulla pelle di Stefania mischiandosi al suo profumo.
La nudità dei loro corpi sembrava apparsa improvvisamente, come se non avessero mai indossato niente, e lui si sentiva avvolto e impregnato dagli umori di Stefania, dalla sua saliva, dalla sua pelle, dalle sue mani che lo scrutavano e lo esploravano senza paure e incertezze.
Si ritrovarono distesi uno di fianco all'altro. Stefania aveva poggiato una mano sul suo petto e con l'altra si reggeva la testa come se volesse guardarlo. Lui riusciva solo a vedere la massa nera del suo cranio coperto di capelli che sapeva lunghi solo al tatto ma non ne conosceva il colore. Sentiva il respiro di Stefania che rallentava e tornava alla normalità.
- Quando posso vederti Stefania?
Le accarezzava la mano che accarezzava il suo petto.
- Abbiamo deciso di aspettare il mattino. Aspettiamo che i raggi del sole lentamente ci rivelino ai nostri occhi.
Da quando era entrata, le poche parole che aveva detto erano state tutte sussurrate. E anche in quel momento sentì la sua risposta come un vento, leggero. Come un respiro. Sorrise anche se lei non poteva vederlo e immaginò che anche lei lo stesse facendo.
La stanchezza lo prese improvvisamente tra le carezze che continuava a farle in silenzio, assorto nei respiri che diventavano sempre più profondi e silenziosi.
Si addormentò profondamente e senza sogni.