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Mario Amato
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FIGLI DI KAFKA!
 
In un certo senso siamo tutti figli di Kafka: lo scrittore praghese ci ha rivelato che l'assurdo può essere nella quotidianità, ci ha fatto scoprire la muostruosità della macchina burocratica, ha messo a nudo il terribile anonimato dello Stato per il cittadino, ha scavato nei recessi profondi dell'anima.
A pag. 254 troviamo il racconto "Undici figli"(1917) (1). Nella nota relativa(2) leggiamo: A proposito di questo racconto si veda un interessante capitolo di Malcom Pasley (in Kafka-Symposion, Berlino, 1965) secondo il quale ci troviamo davanti a un raggiro di Kafka. Nella biografia di Kafka Max Brod scrive che questa prosa “va intesa quale miraggio di una paternità della creazione di una famiglia che possa contrapporre all'esempio del padre qualcosa di equivalente, cioè di altrettanto grandiosamente patriarcale, ecc” e aggiunge che questa spiegazione non è contraddetta da ciò che Kafka gli disse una volta: “Gli undici figli sono semplicemente undici racconti ai quali sto lavorando”. Spiegazione che letteralmente risponde al vero, come dimostra il Pasley. In un quaderno di Kafka i racconti (cioè i figli) sono elencati in quest'ordine: Un sogno, Davanti alla legge, Un messaggio dell'Imperatore, Il prossimo villaggio, Un vecchio foglio, Sciacalli e arabi, In loggione, Il cavaliere del secchio, Un medico di campagna, Il nuovo avvocato, Un fratricidio. La presentazione di ciascun figlio è accuratamente velata e soltanto vaghe allusioni lo possono identificare.
È lo stesso Kafka che dà una chiave di lettura dei suoi racconti, ma prima di addentrarci in alcuni di questi racconti facciamo alcune considerazioni: Max Brod racconta che quegli undici figli, quei racconti, sono una contrapposizione al padre. È vero che Kafka aveva pregato l'amico Max Brod di bruciare i suoi libri, richiesta che per nostra fortuna non fu esaudita, ma è anche vero che Franz Kafka era un profondo conoscitore della letteratura e, strano a dirsi, amava la precisione delle descrizioni di Balzac ed inoltre nei Diari egli ha scritto di essere soltanto letteratura. Come si possono contrapporre dei racconti al mondo reale? Al sistema patriarcale? La risposta non è difficile: Kafka trovava nella scrittura un mondo e questo mondo egli lo oppone a quello del padre. Abbiamo già visto come Kafka avesse a disposizione la legge asburgica e la legge ebraica per le sue rappresentazioni e se i suoi personaggi non si ribellano, è pur vero che i suoi libri raffigurano in modo critico le regole scritte dei padri. Egli non poteva prevedere che le due dittature successive alla sua vita -e che avrebbero coinvolto la sua nazione e la sua amata Praga- avrebbero l'una, il nazismo, bruciato i suoi libri, l'altra, il comunismo, li avrebbe proibiti. Come tutti gli scrittori e come tutti coloro che conoscono la storia e la letteratura, sapeva che essa è sempre critica verso gli autoratismi. Non a caso Mario Vargas Llosa nel suo saggio "È possibile il mondo moderno senza il romanzo?"(3) scrive che la letteratura è l'arte più democratica che esista.

Torniamo adesso ad alcuni degli undici racconti non ancora qui esaminati. "Sciacalli e arabi"(1917) (4): se seguiamo lo schema proposto da Pasley esso è il sesto racconto. Leggiamo cosa scrive Kafka: "Il mio sesto figlio sembra, almeno a prima vista, il più metitamondo di tutti. È malinconico e insieme un chiacchierone. Perciò non è facile con lui spuntarla. Se sta per aver la peggio cade in una invicibile tristezza; se invece conquista il sopravvento cerca di conservarlo chiacchierando. Tuttavia non gli nego una certa passione che lo rende dimentico di se stesso; spesso, in pieno giorno, si dibatte nei suoi pensieri come in sogno. Senz'esser malato -gode anzi di un'ottima salute- barcolla a volte, specialmente sull'imbrunire, ma non occorre aiutarlo, non cade. Forse di questo fenomeno ha colpa il suo sviluppo: egli è forse troppo alto, per la sua età. Questo nel complesso non lo rende bello, nonostante la bellezza eccezionale di singole parti del corpo, per esempio delle mani e dei piedi. Non è bella, poi, anche la sua fronte: ha un che d'incartapecorito, tanto nella pelle come nella formazione delle ossa"(5).
È abbastanza semplice riconoscere in queste parole alcune caratteristiche di Kafka: la malinconia, la dimenticanza di se stesso, l'essere come in sogno durante il giorno (Kafka scriveva soltanto di notte), la carnagione giallognola, dovuta forse già alla tisi, ma possiamo riconoscere forse anche alcuni tratti della scrittura kafkiana. Le mani e i piedi così belli corrispondono forse agli incipit e agli epiloghi delle narrazioni. Non resta altro allora che leggere il racconto(6).
L'incipit recita: "Eravamo accampati nell'oasi. I compagni dormivano. Un arabo mi passò accanto; aveva governato i cammelli e andava verso il suo giaciglio".
Come in tutte le altre narrazioni di Kafka, anche questa inizia con una frase sintatticamente semplice, ma se ne "La metamorfosi" e ne "Il processo" l'evento è inquietante, qui abbiamo una situazione di calma e serenità: l'oasi è il luogo deputato al ristoro e al riposo. Subito dopo però il narratore non riesce a dormire, pur desiderandolo, perché è disturbato dal lamento in lontananza di uno sciacallo. L'animale si avvicina e gli parla dell'antica lotta fra sciacalli e arabi; intanto gli altri sciacalli si avvicinano e fanno cerchio. La bestia fa una richiesta all'uomo che viene dal Nord, dall'Europa: "Signore” gridò egli e tutti gli sciacalli ululavano sicché nella più lontana distanza sembrò suonare come una melodia ”Signore, tu devi chiudere la lotta che divide il mondo. I nostri antenati hanno descritto colui che lo farà, così, come sei tu. Dobbiamo aver pace dagli arabi: aria respirabile; che lo sguardo intorno all'orizzonte sia purificato da loro; che non s'intenda più il gridar lamentoso del montone scannato dall'arabo; ogni bestia deve crepare tranquillamente: senza noie il suo sangue deve essere bevuto fino all'ultima goccia, il suo corpo deve essere ripulito da noi fino alle ossa. Purezza, soltanto purezza vogliamo noi.
I riferimenti all'ebraismo sono evidenti: un popolo aspetta il messia che reca un mondo di purezza. Ci sarà pace, purezza. Non sarà più necessario sacrificare animali a Dio; il mondo di Abramo, a cui Dio chiede il terribile olocausto del figlio Isacco sarà dimenticato. Ma subito dopo il racconto si complica, perché all'europeo vengono consegnate delle forbici, simbolo dell'inimicizia tra arabi e sciacalli. Ed ora è un arabo che parla degli sciacalli: "È cosa nota dappertutto; finché esiste un arabo queste forbici girano per il deserto e gireranno con noi sino alla fine dei tempi. A ogni europeo vengono offerte per la grande impresa ed ogni europeo sembra quello invocato da loro”. Le forbici vengono offerte ad ogni europeo. Il narratore non è dunque il messia ed il pugnale di Abramo è ancora presente nella cultura ebraica, anche nella diaspora.
Naturalmente l'opera di Kafka non è una raffigurazione dell'Antico Testamento né della società asburgica, ma entrambi questi elementi informano di sé la scrittura kafkiana nel senso che essi erano parte della cultura dello scrittore; e del resto nessuna delle opere è autobiografica, sebbene egli abbia disseminato le sue opere di riferimenti alla sua vita. Si può affermare che la sua scrittura è autobiografica come lo sono tutte le opere letterarie, vale a dire che esse rappresentano vite possibili.
Nel racconto "In loggione" (1916-1917) troviamo all'inizio un accenno alla malattia: "Se un'acrobata a cavallo, fragile, tisica venisse spinta per mesi interi senza interruzione in giro nel maneggio sopra un cavallo vacillante dinanzi a un pubblico instancabile da un direttore di circo spietato sempre colla frusta in mano, continuando a frullare sul cavallo, gettandi baci, oscillando sulla vita, e se questo spettacolo proseguisse in mezzo al fracasso dell'orchestra e dei ventilatori nel grigio futuro che continua a spalancarsi sempre, accompagnato dall'applauso, che si estingue e poi torna ad ingrossare, di mani che sono veri e martelli a vapore - forse un giovane frequentatore del loggione si precipeterebbe per la lunga scala, traversando tutti gli ordini di ordini di posti, nel maneggio, e griderebbe: Basta! tra le fanfare dell'orchestra sempre pronta a seguir gli ordini."(7). Abbiamo qui non solo l'accenno alla tisi, che condurrà Kafka alla morte, ma soprattutto alla sua scrittura. L'acrobata può essere letto come una metafora dello scrittore, non solo dello stesso Kafka, ma dello scrittore in generale. Sappiamo che Kafka scriveva soltanto di notte, instancabilmente, così come l'acrobata a cavallo viene spinto senza interruzione nel maneggio.
Ammesso che questa chiave di lettura sia valida, il seguito della lunga frase iniziale invita a porci alcune domande: chi è lo spietato direttore d'orchestra? Chi è il pubblico pronto ad appalaudire e a tacere con facile alternanza? Possiamo suppore che il direttore d'orchestra sia stato ispirato dalla figura autoritaria del padre di Kafka, il quale disprezzava la vocazione letteraria del figlio. E forse fu quello stesso dispregio a far sì che Kafka non rinunciasse alla sua solitaria attività notturna. Ma se tale attività era solitaria, come mai nel racconto si parla di pubblico, di fanfara, di battiti di mani? Possiamo fare due ipotesi: sappiamo che Kafka leggeva i suoi racconti agli amici e lo faceva in modo ironico, addirittura facendo ridere questo suo ristretto pubblico; la seconda ipotesi risiede nella difficoltà di pubblicazione che incontrarono i suoi scritti all'inizio. Kafka era tuttavia cosciente della validità delle sue opere ed accenna chiaramente al futuro, che però è grigio. Pensava già forse di pregare l'amico Max Brod di bruciare i suoi libri? Non possiamo saperlo, ma siamo grati a Brod di averli salvati.
A sostegno della precedente interpretazione leggiamo le parole relative al settimo figlio nel racconto "Undici Figli"(8):"Il settimo figlio mi appartiene forse più di tutti. Il mondo non sa apprezzarlo; non capisce la particolarità del suo umorismo. Non che io lo sopravvaluti; so bene che è piuttosto comune; se il mondo non avesse altro difetto che quello di non saperlo apprezzare, sarebbe ancora puro. Ma non vorrei che questo figlio mancasse in seno alla mia famiglia. Egli vi porta inquietudine ed insieme rispetto per la tradizione; e sa fondere questi due elementi, almeno a mio parere, in perfetta unità".
La letteratura tedesca ha rappresentato la scissione tra la sfera artistica ed il mondo borghese(9), ma in Kafka tale separazione si complica. Se per gli altri scrittori di lingua tedesca la divisione operata dalla vocazione letteraria allontana dal mondo borghese, per lo scrittore praghese essa separa non solo da quel mondo che avrebbe dovuto essere il mondo della sicurezza, ma anche dal mondo della tradizione ebraica, che secondo quanto scrive Kafka nei Diari è divenuta solo esteriorità. È per questo che quel figlio porta inquietudine ed insieme rispetto per la tradizione. Kafka sa fondere questi elementi, ma dice chiaramente che questo è il suo parere. L'inquietudine può nascere sia dal fatto che egli giudica farisiaco l'ebraismo del padre, sia dal fatto che egli sia costretto a raffigurare gli elementi dell'antica tradizione attraverso simboli e allegorie. Questa è però anche la ricchezza degli scritti di Kafka e dei suoi lettori.
La scrittura di Kafka è ricca di riferimenti letterari, come accade nel racconto "Il nuovo avvocato(10)". Il nuovo avvocato è il dottor Bucefalo! Sappiamo che Bucefalo era il nome del cavallo di Alessandro il Macedone, Alessandro Magno. Come mai è diventato un avvocato? Giuliano Baioni ha scritto giustamente che "La metamorfosi" di Kafka è una fiaba al contrario(11), ma il rapporto di Kafka con le fiabe non si ferma a questo, perché in tutta la sua opera incontriamo i tipici personaggi fiabeschi, gli animali, ma naturalmente essi non rappresentano la saggezza o la malvagità; essi sono divenuti rappresentanti di un mondo assurdo, enigmatico, labirintico. Nel racconto "La tana(12)" un animale, forse una talpa, descrive minuziosamente la costruzione del suo rifugio e forse egli stesso si smarrisce fra i cuniculi e le gallerie da lui stesso edificate. Bucefalo è forse diventato un uomo? Ha forse subito la trasformazione inversa a quella di Gregor Samsa? Questo nel racconto non viene detto. E perché è diventato un avvocato? Per difendere forse Alessandro Magno? Kafka scrive: "In generale il foro accetta l'ammissione di Bucefalo. Con perspicacia stupefacente ci si dice che egli, dato l'ordinamento attuale, si trova in una situazione difficile e perciò, oltre che per il posto che occupa nella storia, merita comunque una certa benevolenza. Oggi -non lo si può negare- non esiste nessun Alessandro Magno. Ci sono moltissimi che sanno uccidere; ...(13)". Kafka pone ancora lo stesso interrogativo che Dostoevskij mette nella bocca di Rasklolnikov: Napoleone e Cesare hanno causato la morte di migliaia di morti. Perché non sono considerati assassini? È vero, al tempo di Kafka, come in tutti i tempi, c'erano moltissimi che sapevano uccidere, altri sarebbero giunti poco dopo la sua morte che hanno saputo uccidere su una scala che forse neanche la sua grande fantasia poteva immaginare.
Torniamo al racconto. Alla fine del racconto scopriamo che Bucefalo è ancora un cavallo: "Forse è meglio però fare come ha fatto Bucefalo, sprofondandosi nei codici. Libero, senza più sentire sui fianchi i lombi del cavaliere, sotto una quieta lampada, lontano dal clamore della battaglia di Alessandro, egli legge e volta le pagine dei nostri antichi libri"(14). Le fiabe ci narrano di animali parlanti, ma mai di bestie che sanno leggere. Eppure c'è un antecedente nella letteratura tedesca: il gatto Murr di Ernst Theodor Amadeus Hofmann, che non soltanto sa leggere, ma scrive la storia. L'avvocato Bucefalo sprofonda nelle pagine degli antichi libri e si isola dal clamore del mondo.
Sprofondiamo anche noi nella lettura delle opere di Franza Kafka...

1) Kafka, Franz, op. cit., pag. 254
2) ivi, pag. 605
3) Vargas Llosa, Mario, in La cultura del romanzo, Einaudi, Torino, 2001
4) Kafka, Franz, Sciacalli e arabi, op. cit., pagg. 240-244
5) Kafka, Franz, ,Undici figli, op. cit., pag. 256
6) Kafka, Franz, Sciacalli e arabi, op. cit., 240-244
7) Kafka, Franz, In loggione, op. cit., pag. 233
8) op. cit., pag. 257
9) Su questo argomento vedi Marcuse, Herbert, Il romanzo dell'artista nella letteratura tedesca (dallo Sturm und Drang a Thomas Mann), Einaudi, Torino, 1985
10) Kafka, Franz, op. cit., pag. 223
11) Baioni, Giuliano, Kafka. Romanzo e parabola, Feltrinelli, 1997
12) Kafka, Franz, op. cit., pagg. 509-547
13) ivi, pag. 223
14) ivi, pag. 224