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Mario Amato
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LE MOLTE ANIME
 
Kafka è mono-tono, eppure, leggendo le sue opere, possiamo scoprire molte anime: l'anima del romanziere, del costruttore di labirinti, del dicitore di parabole, del narratore di fiabe.
Un esempio di queste due anime lo possiamo trovare nel racconto, narrato in prima persona, “Il cavaliere del secchio”[1], datato 1917. La fabula, come si dice in termine tecnico, è semplice: un cavaliere ha freddo, per cui si reca dal carbonaio affinché questi gli riempia il secchio[2]. Il carbonaio ha intenzione di acconsentire alla richiesta, ma la moglie lo ferma sulla scala dello scantinato e dice di non vedere né il carbone né il cavaliere, ma con il grembiule cerca di scacciarlo. Il cavaliere sale sulle Montagne di ghiaccio e si perde, per non tornare mai più.
Prima di esaminare il racconto, c'è da fare una notazione: in genere, i personaggi di Kafka appartengono o alla piccola borghesia o al proletariato. Joseph K, il protagonista de “Il processo”, è un impiegato; K, il personaggio principale de “Il castello”, è un agrimensore, ma il messaggero imperiale è un misero suddito, minima ombra sperduta nella più lontana delle lontananze; Karl Rossmann, l'eroe di “Amerika”, che come tutti i reietti del Novecento, fuggiti dall'Europa, sogna il paradiso americano, finirà per accrescere l'esercito dei vagabondi del nuovo mondo, anche se nel capitolo finale traspare una flebile speranza.
A quale ceto appartiene allora il cavaliere?
Nel “Dizionario dei simboli” di Jean Chevalier e Alain Gheerbrant[3] troviamo: “Le statue o i ritratti equestri commemorano un capo vittorioso e sono un simbolo del suo trionfo, della sua gloria: come domina il suo cavallo, così il cavaliere ha padroneggiato le forze avverse. Si rappresenta così l'ascesa al paradiso degli dei, degli eroi e degli eletti... ....Jung osserva invece che, nell' arte moderna, l'immagine del cavaliere non espresso più tranquillità, ma paura angosciata e una certa disperazione, come una sorta di panico davanti a forze di cui l'uomo, o la coscienza, avrebbero perduto il controllo”; dobbiamo anche leggere quale significato simbolico abbia il cavallo, ma lo facciamo sommariamente, perché la citazione troppo lungo allontanerebbe dallo scopo di questo scritto. Il cavallo è portatore sia di vita che di vita, ...è animale dei poteri magici, ...della forza del desiderio, ...di maestà[4].
Forse tutti questi significati erano ignoti a Kafka, ma i simboli, soprattutto nei grandi scrittori, agiscono in modo recondito. Noi sappiamo tuttavia che Franz Kafka aveva una grande cultura letteraria e che ha portato nella letteartura molte novità. L'immagine del cavaliere è per antonomasia letteraria. Chi erano veramente i cavalieri? Essi non erano le figure nobili che ci hanno tramandato le leggende arturiane e bretoni, ma in maggioranza erano i figli minori dei nobili, costretti a vagabondare e a guadagnarsi da vivere alle dipendenze di qualche signorotto. Erano spesso incolti e violenti, come ben intuì Lodovico Ariosto, i cui personaggi sono dominati soprattutto dalla “libido”.
Possiamo, con qualche sforzo di fantasia, ascrivere il cavaliere del secchio kafkiano a personaggi la cui dignità è decaduta. Questo infreddolito personaggio non cavalca un magnifico destriero e nenche un ronzino macilento, come quello di Don Chisciotte, ma cavalca il secchio, il suo secchio vuoto. Non va a compiere imprese, come Parzifal o Lancilotto, ma va a chiedere una palata di carbone, fosse anche del peggiore. Come era accaduto nel racconto “Il cacciatora Gracco”[5] Kafka opera una reductio dell'eroe romanzesco e questa volta lo fa anche con ironia; il cavaliere infatti ha con il secchio lo stesso tipo di rapporto che i suoi predecessori avevano con il cavallo: lo loda, ma è anche cosciente dei suoi limiti. “Il mio secchio ha tutti i pregi d'una buona cavalcatura, ma non ha alcuna resistenza”[6]. Non sembra forse di sentire un cavaliere che si giustifica dinanzi ad un sigorotto per un'impresa fallita? Ivi però l'impresa era soltanto quella di salvarsi dal gelo, ma è fallita ed il cavaliere torna nelle regioni delle Montagne del ghiaccio. Ecco apparire un altro simbolo: la montagna. Essa rappresenta la trascendenza, la purezza e l'immutabilità[7].
Il cavaliere si perde in quelle regioni e noi intuiamo nuovamente solitudine, silenzio, ma anche spazi illimitati, come la fantasia stessa di Kafka. Ed il gelo? Kafka ha scritto che quando scendeva il gelo nella sua anima, prendeva un libro e leggeva e l'anima si scaldava...Accogliamo l'invito...


Il Limite Invalicabile

Milan Kundera ha affermato che ogni romanzo è una visione del mondo[8]. Cenni della Weltanschaung che informa di sé “Il Castello” si trovano in alcuni racconti di Kafka.
Leggiamo “Il prossimo villaggio” [9]: “Mio nonno soleva dire: "La vita è straordinariamente corta. Ora, nel ricordo, mi si contrae a tal punto che, per esempio, non riesco quasi a comprendere come un giovane possa decidersi ad andare a cavallo sino al prossimo villaggio senza temere (prescindendo da una disgrazia) che perfino lo spazio di tempo, in cui si svolge felicemente e comunemente una vita, possa bastare anche lontanamente a una simile cavalcata".
Siamo ancora una volta dinanzi ad un enigma ed un paradosso kafkiano. La vita intera non è sufficiente a raggiungere a cavallo il paese più vicino. Come il messaggero imperiale non riuscirà mai ad uscire dal palazzo imperiale, come Joseph K. non troverà mai il tribunale, così nessun giovane potrà mai percorrere, pur impiegando tutto il tempo della sua vita, la distanza che separa il suo villaggio da quello limitrofo ed allo stesso modo, ne “Il Castello”, l'agrimensore K. non riuscirà ad entrare nel castello. Qualsiasi distanza, anche la più breve, per i personaggi di Kafka è infinita. È vero c'è una differenza di fondo tra questi personaggi: il messaggero e il giovane vogliono uscire, Joseph K. e K. vogliono entrare, ma c'è anche una somiglianza, perché ambedue i desideri sono assurdi.
I personaggi kafkiani si muovono nelle due dimensioni dello spazio e del tempo, ma di un tempo non definibile e di uno spazio problematico. Nei racconti di Kafka non ci sono mai riferimenti precisi al tempo storico delle vicende narrate, ma noi sappiamo che l'America in cui viaggia Karl Rossmann è quella dei vagabondi e dei disperati dei primi anni del Novecento e sappiamo che il tempo dell'agrimensore K., è ancora il Novecento, non foss'altro per il riferimento iniziale al telefono, strumento che qui diviene simbolo di una nuova babele. Le parole che giungono attraverso il filo telefonico all'agrimensore sono infatti incomprensibili. Naturalmente il messaggero imperiale, il cacciatore Gracco, e l'Ulisse de “Il silenzio delle sirene” sono meta-storici.
Più complesso è forse comprendere le distanze nelle narrazioni kafkiane. Perché il villaggio più vicino è irraggiungibile? Perché l'agrimensore K. non riuscirà mai ad entrare nel castello, anzi non riesce neanche a capire se esso esista veramente? Soffermiamoci sull'agrimensore: abbiamo già visto che il castello simbolicamente rappresenta, fra l'altro, la trascendenza. In tedesco agrimensore è come in italiano una parola composta: Landvermesser significa letteralmente misuratore di terra.
Se il castello è la trascendenza, l'agrimensore K. tenta di misurare con unità terrene ciò che divino. Non dimentichiamo che K. afferma di essere stato chiamato dal castello. A differenza degli altri personaggi di Kafka, a differenza di Joseph K., di Gregor Samsa, di Karl Rossmann, l'agrimensore non sente un senso di colpa. Joseph K. cerca il tribunale, ma per sfuggire ad esso, Samsa non si chiede perché abbia subìto la trasformazione in insetto, ma l'agrimensore afferma di essere un prescelto. Egli è allo stesso tempo un escluso. È vero che Kafka non dice mai che i suoi personaggi sono innocenti, ma nel caso dell'agrimensore non dice neanche che la chiamata dal castello non ci sia stata.
Se la chiamata non c'è stata, è certo più facile capire perché la distanza tra il villaggio ed il castello non può essere percorsa. Ma se la chiamata c'è stata, perché l'agrimensore K. non può entrare? Perché resta un escluso? Il castello è la trascendenza o Kafka ha sostituito il nulla a Dio? Questa è la tesi di Gyorgy Lukàcs [10], opponendosi all'intepretazione di Max Brod, che vede nel castello l'allegoria della grazia e della salvezza[11].
Possiamo accettare l'una o l'altra tesi, ma la posizione di K., e dell'uomo, di fronte all'ignoto ed all'inspiegabile non cambia. Se il castello è in nulla, allora non c'è stata nessuna chiamata e l'affannarsi dell'agrimensore è inutile. Se il castello rappresenta la trascendenza, non poter entrare genera angoscia, paura, stanchezza. È anche la stanchezza degli ebrei dopo secoli di esilio, di reclusione nel ghetto.
Perché i simboli e le allegorie di Kafka sono così plurivalenti?
L'allegoria è figura retorica antica in letteratura ed era un exemplum atto a chiarire un concetto. Per noi moderni una delle difficoltà di comprendere i testi medievali risiede nell'uso eccessivo che essi fanno delle allegorie, ma i lettori medievali conocevano perfettamente i loro significati; inoltre la lettura silenziosa, in solitudine, è pratica abbastanza recente. I discepoli medievali avevano di fronte a loro il magister, che spiegava e chiariva. L'allegoria è figura propria dei periodi di fede, ma quando le ideologie e le religioni non sono più sufficienti a spiegare il mondo, il posto dell'allegoria viene preso dal simbolo, che è per sua natura polivalente, che esprime il dubbio, soprattutto il dubbio dell'uomo moderno dinanzi al mondo.
Sia che il castello rappresenti il nulla, sia che raffiguri Dio o la Grazia e la Salvezza, esso è lontano, irraggiungibile, perché gli antichi strumenti di interpretazione sono andati perduti. Possiamo affermare che K. crede nella forza dell'allegoria, ma vive nel tempo del simbolo.
Egli si ostina a misurare l'incommensurabile - anche il Nulla lo è - con unità umane. Nel romanzo ciò è ben espresso all'inizio del capitolo in cui si dice che forse il castello non è affatto un castello, ma forse un ammasso di casupole fatiscenti[12]. Vengono allora in mente le parole di Isaac Singer nel racconto “Un amico di Kafka”: Dio, tu vedi tutto, conosci tutto, sai tutto, il passato, il presente e il futuro, ma io che cosa devo fare con le mie briciole di vita?.
Siamo tutti esclusi? Non certo dai libri di Franz Kafka.

[1]Franz Kafka, Racconti, Mondadori, Milano, 1990, pag 394-396
[2]Franz Kafka, op. cit., nella nota a pag. 608 si legge Nell'inverno 1917-18 regnava a Praga, come in tutta la monarchia, una grande penuria di carbone
[3]Jean Chevalier, Alain Gheerbrant, Dizionario dei simboli, volume primo A-K, BUR, Milano, 1997
[4]Ivi
[5]Franz Kafka, op. cit, 383
[6]Ivi, pag. 396
[7]Jean Chevalier, Alain Gheerbrant, op. cit.
[8]Kundera, Milan, Teoria del romanzo,
[9]Kafka, Franz, Racconti, op. cit., pag. 249
[10]Lukàcs, Gyorgy, Il significato attuale del realismo critico (Zur Gegenwartbedeutung des kritischen Realismus), Einaudi, Torino, 1957
[11]Brod Max, Der Dichter Franz Kafka, in “Die Neue Rundschau”, n. 11, 1921
[12]Kafka, Franz, Il Castello, Milano, Mondadori, 1969, trad. di Anita Rho