Pasolini trentanni dopo 
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Stefano Casi
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PASOLINI TRA CINEMA E TEATRO
 
A proposito del film che stiamo per vedere (Edipo re) si potrebbero dire molte cose, ma vorrei approfittare di questa proiezione, che rievoca una delle opere teatrali più famose della storia, per parlare del teatro di Pasolini. O meglio, della storia che lega Pasolini al teatro.

Anzitutto, sgombriamo il campo da possibili equivoci: non è vero che Pasolini fosse digiuno di teatro, che fosse un poeta che di volta in volta ‘provava’ a espandere il suo interesse in altri campi ma sempre da poeta. Addirittura è falso considerare che Pasolini fosse un poeta come lo intendiamo noi. Pasolini era prima di tutto un intellettuale che sceglieva il codice con cui esprimersi, e quindi di volta in volta poteva diventare poeta o regista cinematografico, scrittore o autore teatrale
Fin da giovanissimo il teatro era molto ben presente nel campo delle sue possibilità. Negli anni 40, prima a Bologna dove era nato e poi in Friuli, dove era sfollato per la guerra, Pasolini aveva scritto testi teatrali, fatto regie, recitato sul palcoscenico. E non si era mai trattato di divertissement ma di una raffinata e consapevole scelta di natura artistica e –per così dire– politica. Ma questa è un’altra storia. Certo, negli anni ‘50, all’arrivo a Roma, l’impegno sul teatro si era raffreddato, ma del resto erano le condizioni sue esistenziali e le generali condizioni sociali a portarlo altrove, verso la scrittura e il cinema prima di tutto. Eppure il teatro stava sempre lì, come una vocazione irrisolta.

Ed ecco il primo tassello della storia che vi voglio raccontare stasera. Siamo alla fine del 1959. Vittorio Gassman e il regista Luciano Lucignani chiedono a Pasolini di tradurre l’Orestiade di Eschilo per un’importante rappresentazione al Teatro Greco di Siracusa, compito che Pasolini accetta, riservando alla traduzione pochi mesi di lavoro. Per Pasolini questo coinvolgimento è l’occasione per confrontarsi finalmente con l’istituzione teatrale ufficiale, al centro dell’attenzione del mondo del teatro, che evidentemente gli interessava. Ma non è solo questo: c’è anche la possibilità di accedere direttamente al linguaggio della tragedia greca. Pasolini intuisce che da qui può riprendere, con maggiore sicurezza, un impegno non occasionale nel teatro, nel cuore del linguaggio originario della scena.
Il primo problema, trattandosi di una tragedia antica, è la scelta del testo da cui partire. E su questo vorrei attirare la vostra attenzione. Pasolini dichiara di volersi basare non solo sul testo greco ma anche su tre precedenti e illustri versioni, una francese, una inglese e una italiana. E dice: “Nei casi di sconcordanza, sia nei testi, sia nelle interpretazioni, ho fatto quello che l’istinto mi diceva: sceglievo il testo e l’interpretazione che mi piaceva di più. Peggio di così non potevo comportarmi”. Quindi, da una parte, varie traduzioni e l’istinto da cui farsi guidare, cosa altamente scorretta dal punto di vista filologico; e dall’altra l’italiano, che è il vero nodo per Pasolini. Punto di partenza per la traduzione, infatti, non è la lingua greca ma la propria lingua poetica, alla quale intende adeguare la lingua di Eschilo: Pasolini non si chiede quale lingua abbia usato Eschilo ma quale lingua sia efficace nel tempo odierno. E infatti scrive: “per quel che riguarda la dizione, basta che Gassman legga nelle Ceneri di Gramsci, mettiamo, ‘Il pianto della scavatrice’, il mio italiano, il mio dettato, è quello”.
Così, il traduttore procede modificando i “toni sublimi in toni civili”, evitando la “tentazione” classicista e avvicinandosi “alla prosa, all’allocuzione bassa, ragionante” – queste sono sue dichiarazioni. Infatti, all’opera di Eschilo viene negato un “ragionamento (…) mitico e per definizione poetico” perché il significato della trilogia è “solo, esclusivamente, politico”; e cioè la descrizione del passaggio da una società primitiva, a una società moderna, in cui nascono l’assemblea e il suffragio. Ecco allora, per esempio, l’utilizzo del termine “dio” al posto di “Zeus”, del personaggio della Religiosa al posto della Sacerdotessa che non sta nel tempio ma nella “chiesa”, mentre il Coro grida “osanna”. Scelte di attualizzazione che furono davvero clamorose e che tuttora ci fanno leggere con stupore questa versione.
Dunque il metodo traduttivo così impudentemente spiattellato dallo stesso Pasolini, di cui dicevo prima, e cioè il metodo di tradurre le traduzioni altrui andando a occhio, è sì poco ortodosso ma inaspettatamente funzionale ed efficace. Evitando la filologia Pasolini è paradossalmente fedele nella sua conclamata infedeltà alla trilogia di Eschilo. Di questo Pasolini è consapevole, e infatti non esita a confessare quel che non starebbe bene confessare, usando espressioni come “ciò che mi piaceva di più”, “suggestioni”, “profondo, avido, vorace istinto”.
Ma che bisogno c’è di sottolineare l’istintività della traduzione nello stesso luogo dove si spiegano i motivi razionali e logici che lo conducono alla versione italiana dell’opera?
La chiave di questa contraddizione sta in una frase in cui dice che l’allusività politica della trilogia di Eschilo “era quanto di più suggestivo si potesse dare in un testo classico, per un autore come io vorrei essere”. In altre parole, con l’Orestiade Pasolini intuisce la possibilità di una propria strada autonoma nella drammaturgia contemporanea, tracciata con i suggerimenti raccolti dallo studio del teatro greco. Eschilo gli permette il confronto diretto con una lingua che aveva espresso un teatro politico e poetico al tempo stesso. Esattamente ciò che aveva cercato negli anni bolognesi e friulani e ciò che oggi può tornare a dargli nuovi stimoli per impegnarsi di nuovo nel teatro. E per farlo, Pasolini diventa Eschilo, “un autore come io vorrei essere”. Ne consegue, allora, che il solo “istinto” possa correttamente bastare nell’approccio alla traduzione, perché se un traduttore deve basarsi sul rigore, un autore deve invece muoversi d’istinto, e qui Pasolini sente di compiere una scrittura propria, non una traduzione. Riferendosi più volte alle Ceneri di Gramsci per spiegare la lingua usata nella traduzione dal greco, egli presenta la sua Orestiade non come tragedia dell’Atene del V secolo avanti Cristo, ma come tappa di un proprio percorso linguistico e intellettuale nell’anno 1960.

Subito dopo, Pasolini inizia a corteggiare con maggior interesse il teatro, anche se nel giro di pochi mesi viene ‘travolto’ dal cinema con Accattone. Ma c’è un momento in cui le parti si capovolgono: è il teatro che inizia a corteggiare lui! Infatti nel 1965 in Italia accade qualcosa di strano. I fermenti del teatro di ricerca, che allora si chiamava “nuovo teatro” o “neoavanguardia”, si moltiplicano, portando alla luce una profonda crisi del teatro di prosa, o meglio la sua profonda lontananza dalla società civile. Sentendosi in una crisi senza sbocchi, il mondo del teatro si mette a cercare un capro espiatorio per i propri problemi e un salvatore: lo scrittore. Si tratta di un corteggiamento fra teatro italiano e letterati che si protrae almeno fino al 1967: tre anni in cui non a caso molti scrittori affrontano programmaticamente l’esperienza drammaturgica, anche perché dall’altro lato esisteva una profonda crisi parallela della letteratura e dello scrittore stesso, che sente il bisogno di sbloccare il proprio impasse di ruolo cercando nuove forme di rapporto con il pubblico, più immediate e dirette rispetto alla pagina scritta. Iniziano così inchieste e dibattiti sugli scrittori e il teatro, a cui partecipa anche Pasolini. Con esiti burrascosi. In un’inchiesta clamorosa del 1965, che dà il via a tutto questo dibattito, dalle pagine della rivista “Sipario”, accusa attori e registi di non essersi mai interrogati sul loro strumento principale, la lingua, accettando un accademismo falso, che nessun italiano parla davvero. Sono accuse pesanti, che per mesi rimbalzano su tutte le riviste italiane e sui quotidiani con reazioni forti: Pasolini dice che il teatro fa schifo? Ma perché non scrive lui qualcosa? Perché non si impegna?
Pasolini partecipa pure a un dibattito in una delle cantine romane alternative, in cui ribadisce la necessità di una responsabilità degli attori rispetto alla pronuncia, cioè rispetto a un italiano davvero parlato: e come capite qui, oltre la lingua, è in ballo ben altro, cioè Pasolini chiede all’attore di essere aderente alla società di fronte a cui si mette in scena. Le cronache di quel dibattito ci dicono che gli attori e i registi presenti quasi si buttarono addosso a Pasolini, apparentemente per aggredirlo, in realtà per supplicarlo: “Allora scrivi, scrivi! Che cosa aspetti a scrivere di nuovo per il teatro?”, gli dissero.
Siamo verso la fine del ’65: sì, Pasolini ha proprio capito che è ora di impegnarsi davvero, di lasciare il segno anche qui, nel teatro, dopo averlo lasciato nella letteratura, nella poesia, nel cinema… Ma da dove partire?
Esatto, proprio da lì, proprio da dove partono tutti, ma lui a maggior ragione: dalla tragedia greca. E dunque, oltre cinque anni dopo aver incontrato Eschilo, anzi dopo essere diventato Eschilo per tradurre istintivamente l’Orestiade, occorrerà rileggere le tragedie per trarre nuova ispirazione. Ad aiutarlo in questo è una malattia, che agli inizi del ’66 lo tiene bloccato a letto a lungo. Finalmente è l’occasione per leggere tanto, e quindi infilare nelle letture anche i classici greci, e per scrivere tanto. Per esempio alcune sceneggiature come San Paolo e quella che sarà Porno-Teo-Kolossal, ma anche alcune opere teatrali. Le sue tragedie, nelle quali potrà essere per l’Italia degli anni ‘60 quell’Eschilo che aveva incarnato per la traduzione dell’Orestiade.
Ma ecco il paradosso: perché Pasolini sceglie proprio la forma della tragedia, cioè il linguaggio drammaturgico più apparentemente involutivo e forse più lontano da quel nuovo teatro nel quale vuole essere protagonista? Una tragedia in versi, una tragedia greca? In realtà, la forma tragica si rivela la più attuale proprio in virtù della sua assoluta inattualità: la scelta della tragedia è quella che gli consente di definire meglio il linguaggio della coscienza della diversità dell’intellettuale ed è la forma più adatta per descrivere il suo attacco (eroico-vittimista) contro il potere borghese. E così Pasolini recupera scandalosamente proprio quella forma tragica il cui ultimo rappresentante è stato un D’Annunzio assolutamente impronunciabile e irrecuperabile per la moderna cultura italiana, tanto più per la cultura di sinistra.
Pasolini in realtà non intende scrivere tragedie ‘greche’, ma opere in cui l’adozione di forme greche costituisca un segnale di contrapposizione rispetto al dramma borghese: quindi, una sorta di tragedie borghesi forma personale di un teatro politico dichiaratamente antiborghese. Il teatro diventa infatti lo strumento per addentrarsi nel terreno nemico della borghesia, l’arma fisica scagliata dal suo autore contro il pubblico stesso.
Pasolini dichiara di aver concepito un teatro di presa di coscienza e dibattito, come se il teatro potesse portare a una qualche consapevolezza culturale e politica. Ma è un depistaggio. Ci sono infatti due elementi contro i quali si infrange la dichiarazione che lo stesso Pasolini fa, in cui dice che le sue tragedie sono appunto una base di discussione razionale fra borghesi illuminati. La prima è proprio che il nuovo teatro di Pasolini ha paradossalmente come suo fulcro privilegiato una classe antagonista. Dice esattamente: “Il destinatario è il mio nemico, è la borghesia che va a teatro”. La teoria pasoliniana del destinatario teatrale è dunque sbalorditiva e davvero unica nella storia del teatro: è un teatro scritto per i nemici, dunque un teatro dove non ci può essere incontro razionale ma solo scontro.
Il secondo elemento di messa in crisi del teatro come spazio di dibattito razionale fra borghesi illuminati è interno alle tragedie stesse che non si presentano affatto come esempio di questo teatro razionale e politico. C’è infatti una contraddizione di fondo tra il livello puramente intellettuale dichiarato e il livello sacrale del mistero impostato sull’asse cruento e sessuale che costituisce la colonna vertebrale del teatro pasoliniano. Le tragedie di Pasolini parlano di “storie aberranti” come lui dice: un padre che vuol vedere il sesso del figlio; una coppia intenta a una relazione sadomaso; un ragazzo che ama i maiali; e coì via… E sono tutte storie che portano sul limite del precipizio, sopra il mistero della realtà per rivelare alla borghesia nemica le aberrazioni della sua realtà. Con uno scarto sottile e sotterraneo, Pasolini destituisce di senso quel dibattito che aveva dichiaratamente invocato, imponendo un altro meccanismo, quello in cui il pubblico non può far altro che assistere alla dichiarazione apocalittica di Pasolini o, detta in altri termini, alla propria stessa apocalisse-rivelazione, cioè alla realtà della propria condizione di borghesia, che nel teatro trova rappresentazione in forma di visione, nella vertigine del mistero e del sacro, descritti attraverso il sangue e il sesso.
In mezzo alle tragedie greche rilette per potersi ispirare per le sue tragedie, che sono Affabulazione, Pilade, Orgia, Bestia da stile, Porcile, Calderon, ma che è anche Teorema che a un certo punto decide di trasformare in film e in romanzo, c’è anche Edipo re. Ed eccoci arrivati al film di stasera. Per Pasolini questa è l’occasione di far incrociare il suo teatro e il suo cinema. Ed è da questa prospettiva che vorrei leggerlo, tralasciando, come dicevo all’inizio, le tante altre impostazioni possibili.

Dunque nel 1966, proprio mentre sta scrivendo le sue prime tragedie boghesi e antiborghesi, Pasolini affronta l’Edipo re di Sofocle attraverso una traduzione che lui dice esplicitamente “fedele”. Il concetto di fedeltà riprende l’idea di traduzione di un “autore come io vorrei essere” espressa, come abbiamo visto, a proposito di Eschilo per l’Orestiade: versione fedele ma nel senso di una ri-creazione dell’opera. Infatti, ecco subito la controprova: nella stessa intervista in cui dichiara la sua fedeltà Pasolini dice anche di essersi mantenuto “molto libero, dando retta solo ai miei impulsi e alle mie aspirazioni. Non mi negai una sola libertà”.
Quindi, dopo aver voluto essere come Eschilo, Pasolini vuole essere un nuovo Sofocle, e coerentemente ne assume la parte ideale impersonando nel film la figura del Corifeo. Se nella prima parte del film all’azione non corrisponde l’uso della parola, se non in pochissime battute funzionali al procedere del racconto, nella seconda parte è proprio il Corifeo-Pasolini a dare il via alla trasposizione vera e propria della tragedia di Sofocle. Lui stesso spiega: “mi piaceva introdurre io stesso, in qualità di autore, Sofocle all’interno del mio film”, e così quando vedrete, a metà film, avanzare i tebani in foma di coro, e quando vedrete il capo del coro interrogare Edipo con i primi versi della tragedia di Sofocle, non vi stupirete nel riconoscere – sia pure con una voce doppiata, non sua – lo stesso Pasolini. Perché in questo momento, cioè nel momento in cui si passa dal mito alla tragedia, Pasolini vuole essere riconoscibile come l’autore stesso della tragedia. Nuovo Sofocle, appunto.
A differenza dei precedenti film, da Accattone a Uccellacci e uccellini, il protagonista di Edipo re non è un sottoproletario, ma un eroe tragico, un mito simbolico che tuttavia è relegato all’interno di un sogno incorniciato da un prologo e da un epilogo attuali. L’Edipo mitico rappresenta le fondamenta del moderno poeta e intellettuale, alla base del quale sta un peccato originale di indicibile portata che lo porta a vivere con scandalo: io sono poeta-intellettuale in quanto porto su di me una colpa antica che mi porta a essere un diverso, in questo caso, nel caso di Edipo, ho ucciso mio padre e amato mia madre. E come Edipo, ci dice Pasolini, così sono i poeti e gli intellettuali: persone che portano in sé il mistero di un peccato di una “storia aberrante”, che li porta a essere diversi, e perciò contemporaneamente più consapevoli e più inconsapevoli, più veggenti e più ciechi.
La vera storia del film, insomma, è quella narrata nella cornice e non dentro al quadro: è la storia di un poeta del ventesimo secolo, le cui scelte ideologiche scaturiscono dalle vicende personali dell’infanzia, dall’“amare troppo da bambini la propria madre”, secondo la semplicistica spiegazione dell’omosessualità espressa nella tragedia Calderón. Sta qui il senso più profondo del film di Pasolini: la definizione del poeta intellettuale come unicità di sapienza e scandalo, in un’esplicita dimensione autobiografistica. La necessità di una giustificazione ‘privata’ dell’identità dell’intellettuale può così trovare la migliore rappresentazione nella tragedia di Sofocle, nel teatro! Non a caso, insieme a due mostri sacri del nuovo teatro: Julian Beck, leader del Living Theatre, qui nelle vesti di Tiresia, e Carmelo Bene nelle vesti di Creonte, anch’essi doppiati.

Le sequenze iniziali del film mostrano il conflitto tra Laio e il piccolo Edipo sullo sfondo dell’Italia degli anni Venti. Il presagio del padre innesca il “sogno del mito”, sogno che rivela ed esorcizza lo scandalo “contro natura” del protagonista. La storia di Edipo viene mostrata da Pasolini per intero, dunque non limitandosi alla sola fase narrata nella tragedia di Sofocle. Grazie a questa dilatazione in un territorio mitologico poco frequentato come quello della giovinezza di Edipo, Pasolini ha l’opportunità di mostrare anche altro: i dettagli della formazione adolescenziale di Edipo e la psicologia dell’abbandono e della casualità nel viaggio, che assimila Edipo ai personaggi di Uccellacci e uccellini vaganti per le strade del mondo. In questo modo viene anche ridimensionata percentualmente rispetto al racconto la presenza delle altre figure della tragedia, come Giocasta o Creonte, a tutto vantaggio del personaggio di Edipo di cui viene esplorato invece ogni atto.
Concluso il sogno che ci mostra dapprima il mito di Edipo fino all’entrata in Tebe e poi la rappresentazione della tragedia classica, Pasolini evita di riprendere anche la seconda tragedia di Sofocle (Edipo a Colono) per ritornare all’attualità. Edipo è ormai maturo e consapevole della qualità mitica dei propri conflitti personali e “suona il flauto, il che significa, per metafora, che è un poeta”. La prima tappa di Edipo poeta è la civile e borghese Bologna. Rifiutato questo luogo e ciò che significa, Edipo viene condotto da Angelo nella periferia di una città industriale, proletaria o forse sottoproletaria. Ma neanche questa ambientazione è più possibile: l’unico luogo di pacificazione per Edipo può essere solo quello della nascita, come nella tragedia Bestia da stile, lungo il Livenza sulle cui rive Edipo può finalmente ricomporre, nell’unità dell’origine e della fine, la sua dissociazione esistenziale.

A questo punto avrei finito, ma rimane un dubbio. I tragici greci sono tre. Vuoi vedere che Pasolini, dopo essere stato il nuovo Eschilo traducendo d’istinto l’Orestiade e dopo essere stato il nuovo Sofocle rappresentando d’impulso l’Edipo re, ha cercato di essere anche il nuovo Euripide? E allora andiamo a vedere. Superiamo questo film di due anni e vediamo che succede. Anzitutto, in questo salto qualcosa è successo al suo teatro: le tragedie sono state scritte, e una anche pubblicata senza alcun successo. Pasolini stesso ha diretto Orgia con Laura Betti al Teatro Stabile di Torino incassando un insuccesso clamoroso. E allora ha deciso che non vuol più sentir parlare di teatro. Anzi, quasi per dispetto, decide di cambiare completamente atteggiamento: mentre negli anni di Edipo re diceva in continuazione che voleva fare teatro, dopo il fiasco di Orgia dice che lui non ha mai pensato al teatro, che voleva fare solo poesia dialogata, che gli era uscita così perché era ammalato, non sapeva che fare, ha letto i dialoghi di Platone e ha deciso di farli pure lui: giustificazioni chiaramente ridicole, che fanno capire solo una grande amarezza.
Ecco, consumato il divorzio dal teatro, succede a un certo punto qualcosa. Se la traduzione dell’Orestiade di Eschilo nel ’60 corrispondeva a un periodo di impegno civile che collegava la trilogia classica alle Ceneri di Gramsci; e se l’Edipo re di Sofocle cercava una risposta autobiografistica all’interrogativo sull’impegno dell’intellettuale; la scelta di Medea, girato nel 1969, emerge da altri orizzonti concettuali. Questa volta il mito teatralizzato da Euripide viene riletto come critica totale al mondo occidentale, senza possibilità di soluzione. Simbolo dell’empirismo scientifico, del razionalismo pragmatico della civiltà occidentale, è il nuovo centauro illuminista che si manifesta nella Pisa di Galileo. Al “centro”, al “sacro” di Medea si sostituisce la visione galileiana eccentrica della terra rispetto all’universo, cioè l’ortodossia della ragione empirica.
E Euripide? Il terzo tragico greco è qui solo una vaga fonte d’ispirazione. Pasolini, nuovo Eschilo nel tradurre l’Orestiade, nuovo Sofocle nel realizzare Edipo re, ora non può vestire i panni anche di Euripide. Lo dice chiaramente: “Quanto alla pièce di Euripide, mi sono semplicemente limitato a trarne qualche citazione”. Curioso davvero: Medea è una semplice “citazione” di Euripide, i cui brani compaiono come pretesto in brevi stralci nella sceneggiatura. Al contrario di Edipo re, Medea non ha più nulla a che vedere non solo con la tragedia di Euripide in sé ma anche con una sia pur lontana idea di teatro. Si infrange la sequenza temporale, si adottano trucchi cinematografici, ma soprattutto si passa dalla tragedia e dalle sue radici più ancestrali come vedremo qui, alla storia e alla sua fenomenologia: Edipo è l’abisso della colpa non voluta che genera consapevolezza e sofferenza, poesia e diversità (quindi il tema dell’unità intesa come identità unica del diverso); Medea è invece l’espressione di una dialettica dello sviluppo storico, specchio del conflitto fra due opposti (tema della dualità intesa come scontro di culture). Alla tragedia si avvicenda quindi il dramma storico, sia pure in forma allegorica. Al posto di Julian Beck e Carmelo Bene, tracce evidenti di una curiosità teatrale in piena attività, si sostituisce ora una cantante lirica, Maria Callas. Che Pasolini non usa per le sue caratteristiche canore, ma come pura icona. Medea segna insomma per Pasolini il punto di non ritorno nel suo confronto con il teatro greco. Di cui Edipo re è probabilmente uno degli esiti più geniali e originali, con i quali modifica per sempre cinematograficamente l’immagine stessa della Grecia, proiettata dall’immaginario neoclassico degli ultimi due secoli in un nuovo immaginario, barbaro e misterico, sulla scorta degli studi di antropologia.

intervento dagli "Atti del Convegno" di Frosinone