Pasolini trentanni dopo 
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Michele De Gregorio
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PASOLINI E LA POLITICA
 
1 – Come Pasolini vede la politica


1.a – La poetica di Pasolini

Sui rapporti tra Pasolini e la politica è stato scritto molto più per partecipare alle infinite polemiche cui l’attività del Nostro ha dato vita, che per esaminare il problema con ottica sistematica e storica, come invece nell’ambito dei limiti di tempo che mi sono concessi è mia intenzione fare questa sera. Le difficoltà peraltro dell’odierna problematica politica, in un momento complesso come quello presente, contribuiscono a rendere ancora meno facile il compito.
Credo comunque che sia possibile e necessario oggi accostarsi ad un autore pur così multiforme e presente nell’odierna cultura, tramite un approccio rivolto appunto ai suoi problemi di fondo, “non partecipante”; e insieme “storicistico” dicevo. Evidenziando però le virgolette, che stanno a significare l’impossibilità di considerare insieme estranee alla ricerca le idee del ricercatore stesso e le sue profonde convinzioni, anche quando si parlasse di Carlo Magno o di fatti lontani.
Dividerò per chiarezza il discorso in tre parti, esaminando prima come Pasolini vede la politica; poi come la politica vede Pasolini; e successivamente aggiungendo altre considerazioni sul rapporto tra i due poli del discorso. Già Marcello Carlino ha egregiamente affrontato gli aspetti letterari della poetica pasoliniana. Io vorrei qui richiamarne solo alcuni tratti essenziali, utili ai fini del tema che ci proponiamo di esaminare, ricordando che il terminepoetica si intende non riferito al semplice far poesia, ma al creare, anche nel cinema, nel teatro, nell’attività culturale in generale.

L’inutilità della poesia chiaramente teorizzata inTrasumanar e organizzar, pone Pasolini al di fuori di ogni ottica di attività poetica, ma anche letteraria o cinematografica, impegnata o comunque rivolta ad accostarsi al presente al fine di contribuire a future migliori prospettive. Tensione costante l’autore invece esercita nella ricerca di un ideale di purezza perduto, immobile nel passato, e da cui la storia piuttosto irrimediabilmente ci allontana.
Tale purezza non è eroismo, non è virtù, bensì stato d’innocenza che non conosce distinzione tra bene e male; che è così perché é così, non perché sia stato un obiettivo desiderato e conseguito. Stella, di cui Accattone si innamora, bella, prosperosa, vergine, figlia di prostituta, che conduce una vita lineare e innocente di lavoro, è pronta con semplicità a prostituirsi o a continuare la sua vita, secondo le necessità e i desideri del suo uomo.
La condizione umana è la rottura di tale stato originario, il nascere del problema, della consapevolezza, della storia. La vita incarna in sé un peccato originale di separazione da un tutto dato e non cercato, le cui origini letterarie sono nei miti orfici, nel pensiero di Anassimandro, ma che Pasolini ha certo assorbito col latte materno attraverso la cultura cristiana.
Adamo ed Eva mangiando il frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male hanno per la prima volta infranto un’unità inconsapevole caratteristica del loro stato, hanno distinto soggetto e oggetto, conoscente e conosciuto: da ciò la loro condanna alla sofferenza. Ed aveva ragione il serpente a dire che il divieto nasceva dal fatto che Dio non voleva che essi, mangiando il frutto, diventassero come lui: Dio aveva imposto quel divieto perché appunto egli è infinita conoscenza e quindi infinita sofferenza. O non teniamo presente la natura umana e divina del Cristo? Il divieto era un atto di amore verso gli uomini, per tener lontano da loro il dolore.
Gli animali non hanno conosciuto peccato di origine. Destino dell’uomo è invece la rottura dell’eterno presente, proiettarsi nel futuro. Recando però sempre con sé il proprio passato, il proprio peccato, senza possibilità di redenzione. La ricerca della propria autenticità andrebbe pur condotta verso le origini irrimediabilmente perdute: ma proprio cercarle, è già perderle. Perché è farne oggetto della propria ricerca, allontanarle in una dimensione che è oggettiva, quindi esterna rispetto a se stessi.
Ne L’usignuolo della chiesa cattolica già fuoriesce tale tematica: il poeta bambino può illudersi di cogliere nel canto dell’usignuolo l’uno–tutto, l’innocenza; e nell’identificazione con esso dimenticare la propria individualità. Ma la giovinetta dolcemente e brutalmente lo richiama alla sua realtà: Povero uccelletto, dall’albero, tu fai cantare il cielo. Ma che pena udirti fischiettare come un fanciullino! Tu per la tua innocenza vorresti identificarti con il cielo che canta; ma il cielo che canta sei tu, un misero fanciullino. Adamo dopo il peccato può anche cercare il Bene: troverà solo il suo bene e la certezza della sua sofferenza nel cercarlo.
L’uomo dopo il peccato originale è tensione inesausta, preghiera inappagabile, desiderio di ricongiungere ciò che è irrimediabilmente scisso.
Il disprezzo di Pasolini verso la filosofia, orgogliosa dei fantasmi costruiti dalla mente, non impedisce però la permeabilità del poeta verso tematiche esistenzialistiche heideggeriane o direttamente kierkegaardiane: l’angoscia dell’impossibile ricerca di Dio si chiude con la disperazione per la sua inafferrabilità; e quando nel fondo della disperazione Dio ti tende la mano, e il socratico sapere di non sapere ti sembra possa costituire comunque una certezza e l’inizio di una ripresa, ti ritrovi poi davanti un Dio che è un uomo: Gesù che è ucciso, e diventa il Cristo e risorge solo se tu ci credi. Dio è insomma una creazione umana.
Dio ha bisogno degli uomini che lo adorino, come questi di Dio. Il patto biblico non è una concessione al popolo ebraico. Dio dà senso alla vita dell’uomo; ma in se stesso è un puro vuoto, il nulla eterno: egli vive della vita dell’uomo. “O immoto Dio che odio/ fa che emani ancora/ vita dalla mia vita/ non m’importa più il modo” (da Il pianto della rosa).
Con buona pace di Benedetto Croce, in questi versi disperati pensiero e poesia fanno tutt’uno.
Il mito pasoliniano di uno stato originario felice e acritico denota una radice psicanaliti- ca fin troppo evidente perché ci si debba qui a lungo trattenere. L’attenzione per la figura di Edipo; il fatto che ad impersonare il ruolo di Maria anziana nel Vangelo secondo Matteo sia la madre stessa di Pasolini, ne sono una molto diretta testimonianza.
L’unità originaria sarebbe, da questo punto di vista, quella del grembo materno. La nascita la sua rottura, e quindi il peccato. Il rapporto sessuale una ricerca rimossa della madre, del ritorno. L’omosessualità lo spostamento della libido su un oggetto diverso dalla donna–madre, nell’inconscio desiderio di attenuare il senso del peccato.
Nico Naldini in Cronistoria riporta il racconto di Pasolini del primo emergere di queste pulsioni, verso i quattro anni: Dei ragazzi che giocavano nei giardini pubblici di fronte a casa mia, più di ogni altra cosa mi colpirono le gambe soprattutto nella parte convessa interna al ginocchio, dove piegandosi correndo si tendono i nervi con un gesto elegante e violento…Ora so che era un sentimento acutamente sensuale.
Inutile quindi la poesia, inutile ogni costruzione razionale o artistica se diretta all’edificazione di un futuro o a dare un senso logico alla storia. Non c’è futuro, non c’è storia, solo una luce primordiale e il suo rimpianto.

1.b L’approccio alla politica

Quando un personaggio che ha dato il meglio di sé nell’attività letteraria o filosofica si impegna direttamente anche nel campo della politica, si rende necessario cogliere i rapporti di mediazione che legano la creazione poetica o l’esercizio della ragione filosofica alle prospettive di intervento nel sociale. La politica non può non perseguire infatti fini di pratici miglioramenti. Più avanti ci soffermeremo su come Pasolini abbia trasportato, per quanto possibile, direttamente e pressoché senza alcuna mediazione i principi della sua poetica nella politica.

Egli scrive su Vie Nuove che il marxismo è l’unico in grado di offrire una cultura vera, una cultura che sia moralità e interpretazione dell’intera esistenza. Resteremmo però delusi se cercassimo nelle sue opere una ricerca o un approfondimento dottrinario a sostegno di tale proclamata verità. Come si è infatti tenuto lontano dalle astratte discussioni sui generi letterari, così egli ha avuto a noia e non celato disprezzo le astrattezze dei filosofi, marxisti compresi.
La verità del marxismo nasce come immediata dalla realtà della fabbrica, delle periferie urbane, delle condizioni di vita nella società neocapitalistica. Fa tutt’uno con tale realtà, con il solo fatto che essa esista. Ogni ricorso a storia e ragione non può che falsare qualcosa la cui autenticità non è negabile.
È insomma una fede. A base empiristica semmai, e ovvia, come quella di S. Francesco. Se esistono l’acqua, il lupo, il sole, la luna, è possibile negare che esistano come parte di un tutto? Che questo tutto sia infinito, e che sia Dio?
Se sto in una sala, so che fuori c’è una città, i continenti, il sistema solare, l’universo conosciuto con il suo diametro di quattordici miliardi di anni luce. Oltre non so cosa ci sia, ma qualcosa dovrà pur esserci perché il concetto stesso di limite, per quanto ampio, mi rimanda a ciò che è al di là di esso. Dio dunque è in noi che lo pensiamo; e noi siamo in Dio come parte della sua immensità. Ma la sua infinitezza è anche alterità nei nostri confronti, assoluta trascendenza e inattingibilità.
Che senso ha, tornando a Pasolini, stare troppo a discutere sulla natura dell’ingiustizia sociale, se è tutto così evidente nel marxismo? Se vivi in fabbrica o in una periferia urbana cosa mai potrà aiutarti a capire, ad esempio, il principio di solidarietà nei rapporti tra le classi sociali proclamato dalla Rerum Novarum?
E che senso ha lottare per un riscatto alla fine (molto nebulosa) della storia, come regalo dello scorrere dei tempi che, fin quando vi saranno l’uomo e lo stato, sarà oppressione ed ingiustizia? Il mondo neocapitalistico e socialdemocratico ti opprime non meno di quello capitalistico, e ottunde in più la coscienza del tuo essere sfruttato. Dello stato sovietico Pasolini ha una concezione molto più attenta e disincantata di quella pur contraddittoria, ad esempio, di Sartre, per poterla offrire come obiettivo della lotta.
Della contestazione sessantottina a sua volta egli sottolinea la posizione piccolo borghese degli studenti, nello scontro con i poliziotti figli del popolo. Reintervenendo dopo la nota polemica con Franco Fortini, chiarisce che non aveva avuto intenzione di svalutare la lotta studentesca. Come lotta, però, e critica dell’esistente in quanto tale, non certo per una presunta verità degli obiettivi proposti. E allora cos’altro, quale assoluto valore ci resta?
Luteranamente l’uomo porta nel suo impegno di riscatto la sua stessa natura connotata dal peccato originale, che lo conduce al male e a sfruttare il prossimo. In politica quindi non ha proprio senso aspirare ad obiettivi irraggiungibili, puntare alla perfezione del comunismo o di ogni altra costruzione. Pasolini trova naturale credere piuttosto a ciò che di primigenio e felice ha connotato l’origine umana stessa, l’uno-tutto che l’uomo non può determinare ma da cui è determinato, il grembo materno da cui ci siamo separati con la colpa della nostra nascita. La grazia, per intenderci, che il Dio di Lutero elargisce solo agli eletti secondo un suo imperscrutabile disegno.

In Pasolini dunque, come sopra accennavo, le mediazioni tra la poetica e la concezione politica quasi non esistono. La prima è come se fosse per intero trasportata nella seconda.
Nelle Lettere luterane egli dà vita alla felice metafora del Palazzo, di cui sono a tutti gli effetti coinquilini, insieme agli altri, il Pci, la Cgil, la sinistra tutta…
L’operaio è pienamente assimilato alla cultura borghese, è un aspirante borghese, e il suo partito rispecchia e legittima tale caratteristica. L’immoralità del neocapitalismo e della socialdemocrazia ne annullano ogni residuo valore umano.

È il sottoproletario il solo che ancora non ha visto morire in sé ogni barlume di umanità. Nelle periferie degradate urbane il linguaggio usato, l’essere dei ragazzi di vita seduti fuori a squallidi bar in cerca di realizzare il colpo della giornata, rivelano la devastazione effettuata nelle loro menti e sui loro corpi dalla miseria materiale, e insieme dal senso comune borghese più becero profondamente assimilato.
Ma in loro la fiammella è ancora accesa. Non si manifesta certo in un impegno di lotta o di riscatto, totalmente assente; non in qualcosa che si vuole; ma in qualcosa che c’è, che rimane di una primitiva genuinità, precedente la consapevolezza: un misto di ingenuità e aggressività, come nei bambini.
È il residuo di una felicità che non si sa di avere, a pena di perderla; che si rivela magari nelle gambe, soprattutto nella parte convessa dietro al ginocchio dei ragazzi che giocano fuori casa…
Il sottoproletariato di Pasolini non è dunque quello di Adorno e della scuola di Francoforte. Per Adorno la dialettica tra operaio sindacalizzato e padrone, tra USA e URSS, non è scontro assoluto ma differenziazione di opposti destinata a conoscere, hegelianamente, la mediazione e l’unità nella sintesi (l’accordo politico insomma). E’ il sottoproletariato, non il proletariato organizzato, ad essere portatore di una nuova e più radicale dialettica di totale alterità rivoluzionaria, in cui si vince o si muore. I francofortesi hanno dunque speranze, pongono dei nuovi obiettivi alla lotta rivoluzionaria dei disperati.
Non così Pasolini. Le ceneri di Gramsci, pubblicate nel ’57, costituiscono il punto più alto in cui si esprima la poesia e insieme la consapevolezza politica dell’autore, in particolare nel suo confronto con il comunismo.
Davanti al sepolcro dell’uomo che è alla radice del fascino che l’impegno politico esercita su di lui, Pasolini non è sollecitato, ancora una volta, ad approfondire le ragioni filosofiche delle sue certezze, ma ad indagare sulla comune radice umana, sulle affinità e differenze tra se stesso e Gramsci. E ciò è ottenuto attraverso la poesia, che gli consente di giungere ad un livello di chiarezza e insieme di sintesi di cui essa più che la filosofia è capace.

Lo scandalo del contraddirmi, dell’essere
con te e contro di te; con te nel cuore,
in luce, contro te nel buio delle viscere,
…………………………………………….
Attratto da una vita proletaria
a te anteriore, è per me religione

la sua allegria, non la millenaria
sua lotta: la sua natura, non la sua
coscienza; è la forza originaria

dell’uomo, che nell’atto s’è perduta,
a darle l’ebbrezza della nostalgia,
una luce poetica; ed altro più

io non so dirne…


Altro più io non so dirne. La nostalgia e il rimpianto precludono ogni possibilità e il desiderio stesso della costruzione razionale.

Anche Il pianto della scavatrice, con la stessa chiarezza anche se con minore forza poetica, affronta analoghe tematiche. La scavatrice non è il simbolo della speculazione capitalistica che stravolge vita e abitudini, e cui vada sostituita una politica di razionale sfruttamento delle aree fabbricabili: ma del progresso in sé di ogni colore politico, della storia, del cambiamento stesso.

Alberto Asor Rosa, nel suo Scrittori e popolo (Einaudi. 1965), aggiunge il suo nome ai critici della concezione pasoliniana. Dopo aver ricordato, in particolare, alcune affermazioni di Pasolini stesso in un’intervista del ’59: …io credo soltanto nel romanzo ‘storico’ e ‘nazionale’, nel senso di ‘oggettivo’ e ‘tipico’…dato che destini e vicende puramente individuali e fuori dal tempo storico per me non esistono: che marxista sarei? Asor Rosa dunque afferma: La verità è che di tutte le possibili varianti marxiste, Pasolini ha colto, magari attraverso la mediazione degli interpreti ufficiali comunisti, unicamente il tema gramsciano del nazional-popolare, che è infatti il solo a contare qualcosa nella sua opera narrativa.
Probabilmente non sono presenti in Asor Rosa alcune categorie utili per comprendere a fondo il marxismo di Pasolini, che egli infatti definisce … quanto di più curioso ed artefatto si sia potuto incontrare in questo campo, negli anni ancora molto a noi vicini del progressismo letterario.
Che il romanzo pasoliniano si possa definire storico e nazionale, e che possa entro ben definiti limiti anche esser rapportato al realismo socialista, mi pare fuori di ogni dubbio. Ma inquadrarlo unicamente nell’ambito del tema gramsciano del nazional-popolare mi sembra significhi non comprenderlo per intero. Se ad Asor Rosa la poetica pasoliniana sembra quanto di più curioso ed artefatto si sia potuto incontrare…è proprio, con ogni probabilità, perché in essa manca in maniera evidente l’intento pedagogico, tipico del realismo socialista e del concetto di nazional-popolare. In Pasolini l’opera poetica è nazionale in quanto tipica; e popolare perché è il sottoproletariato ad esserne protagonista, non certo perché essa serva a trasmettere la verità socialista nella coscienza popolare attraverso l’opera del partito e dell’intellettuale organico. Sembra essere, dunque, proprio una concezione della politica e del marxismo come rimpianto a fuoriuscire dai canoni interpretativi di Asor Rosa (e non solo suoi), e a precludergli la piena comprensione del mondo politico pasoliniano.


2 – Come la politica vede Pasolini


Quello in cui ci si imbatte, passando a questo nuovo punto di vista, è un elemento di stridente contraddizione con quanto fin qui detto: la politica infatti non può essere solo denuncia e ideologia, ma deve avere in se stessa un essenziale momento propositivo e di concreta costruzione. Sotto tale aspetto tutto l’impianto pasoliniano è destinato dunque a confliggere con la politica.
E non ci si riferisce, ovviamente, solo alla politica della DC, emblema stesso del sistema da combattere; o a quella dei fascisti, nemici di sempre; ma dello stesso partito comunista. Sul quale soltanto ci soffermeremo non solo per brevità, ma anche perché ovviamente di gran lunga il più significativo per Pasolini; e senza minimamente aspirare ad esaminarne la politica in maniera organica, ma svolgendo solo alcune considerazioni relativamente ai temi che ci interessano.

Se quello tra Pasolini e il PCI è stato, da entrambe le parti, un rapporto di amore e odio, punti di convergenza ce ne saranno stati certamente, e sostanziosi. Due vorrei sottolinearne in particolare. Il primo è costituito dal carattere di certezza oggettiva che rivestono per entrambi le rispettive convinzioni. Per Pasolini abbiamo parlato di fede politica; il pensiero di Togliatti sembra presentare a sua volta tutte le caratteristiche della costruzione razionale, ma a definirlo anche una fede concorre non solo l’intento pedagogico di porgerlo come tale alle masse, ma anche la totale indisponibilità a metterne in discussione i presupposti più profondi.
Lasciamo parlare Togliatti stesso: Alle volte, però ci sentiamo dire, in tono di accusa, che siamo anche noi una religione, anzi, persino una chiesa. Ciò è vero nel senso che abbiamo una fede, cioè la certezza che la trasformazione socialista della società, per cui combattiamo, non è soltanto una necessità, ma è un compito che impegna, con la certezza del successo, la parte migliore dell’umanità. (Da Il destino dell’uomo. Conferenza tenuta a Bergamo il 20 marzo 1963. In Rinascita, 30 marzo 1963).
Il secondo punto di convergenza può essere identificato nella critica radicale al presente, allo sviluppo capitalistico, alla società contemporanea ed alla sua cultura; nonché alle ingannatrici e sottilmente pericolose prospettive offerte dalla socialdemocrazia, considerata solo volto presentabile della impresentabile realtà neocapitalistica.

Molto forti, e forse più forti, sono però le differenze. Tutto l’impegno politico di Togliatti è rivolto alla proposta, alla costruzione. Niente è più lontano della retrospettiva e del rimpianto dal suo spirito positivo. La qual cosa implica corrispondente attitudine al compromesso, e quantità rilevanti di realismo se non di spregiudicatezza (dote quest’ultima necessaria peraltro a sopravvivere a diciotto anni di quotidiana familiarità politica con Stalin).
Tale differenza rende anche diversa, nei due soggetti, la comune radicalità delle critiche al presente (il secondo dei punti in comune cui si accennava). Nel senso che mentre quella di Pasolini sfrutta tutta l’acutezza della sua genialità e spazia da nulla ostacolata, quella di Togliatti è certamente invece meno libera, impacciata com’è, ad esempio, da un certo perbenismo estraneo al poeta e necessario invece al politico, indispensabile alla costruttività della sua azione.
Per non parlare di un non tenue conservatorismo culturale. Tema scottante, ad esempio, l’omosessualità. Pasolini si iscrive al PCI nel 1947. Viene accusato di corruzione di minorenne (sarà poi assolto) il 30 settembre del ’49. È espulso però immediatamente, dopo la denuncia, per indegnità morale, con un documento in cui si evidenziano ancora una volta le deleterie influenze di certe correnti ideologiche e filosofiche dei vari Gide, Sartre e di altrettanto decantati poeti e letterati, che si vogliono atteggiare a progressisti, ma che in realtà raccolgono i più deleteri aspetti della degenerazione borghese.
Pasolini reagisce con una lettera, in cui dichiara di essere e restare sempre comunista, nonostante voi. In effetti voterà sempre PCI. E il carattere di fede della sua adesione al comunismo è ancor più testimoniato dal fatto che, due anni prima della sua iscrizione, proprio i comunisti delle brigate Garibaldi del Friuli gli avevano barbaramente ammazzato il fratello Guido cui era legatissimo. Era partigiano. Della brigata Osoppo però, aderente al Partito d’Azione; e soprattutto aveva la colpa di essere contrario, come gli altri del comando della sua brigata (anch’essi passati per le armi), alla sottrazione del Friuli all’Italia perché passasse a far parte della Jugoslavia socialista.
Ma tali vicende, pur profondamente sentite, sono evidentemente considerate da Pasolini troppo personali per intaccare l’oggettività della sua fede politica.

Le stesse motivazioni dell’espulsione dal PCI toccano un altro tema delicato, quello della libertà dell’intellettuale nei confronti della struttura del partito. Pochi anni dopo, nel 1951, sono espulsi dal PCI due parlamentari per dissensi sulla linea politica. Togliatti li definisce due pidocchi, che anche un cavallo di razza può avere nella sua criniera. I due pidocchi sono Aldo Cucchi, medico, capitano dell’esercito, fondatore e organizzatore di reparti partigiani, comandante della 62° brigata Garibaldi; e Valdo Magnani, laurea in filosofia e scienze economiche, promosso capitano per meriti di guerra, medaglia di bronzo al valor militare, commissario politico nelle divisioni Garibaldi. Eletti entrambi, come si diceva, deputati al parlamento.
Nello stesso anno Elio Vittorini lascia il PCI, dopo le aspre polemiche con Togliatti ed Alicata sul rapporto arte – politica, che già avevano portato alla chiusura della sua rivista Il Politecnico.

La politica, dunque, anche quella comunista, non era certo attrezzata per favorire un rapporto positivo con Pasolini. Tutto trasuda disprezzo e disamore per gli uomini, conoscenza superficiale e deformata della realtà, morboso compiacimento degli aspetti più torbidi di una verità complessa e multiforme. Questo giudizio su un capolavoro come Ragazzi di vita, pronunciato mezzo secolo fa, nel 1955, non si intende certamente farlo pesare ancor oggi sulle spalle di chi allora lo pronunciò (l’on. Giovanni Berlinguer). Lo si pone piuttosto a testimonianza di una incompatibilità tra le linee della politica culturale del realismo socialista ed il nostro autore.
Eppure, qualcosa di forte che ha legato e lega Pasolini e i comunisti doveva pur esserci. Ne abbiamo già fatto cenno. Avviamoci alla conclusione cercando di mettere meglio a fuoco il problema.


3 – I motivi di un legame


Vorrei innanzitutto rilevare due dati di fatto, esponendoli avalutativamente nella loro nuda storicità per poi ricavarne solo qualche considerazione utile al nostro discorso.
Il primo: da circa trenta anni in Italia i comunisti sono privi del comunismo. E non ci si riferisce qui, ovviamente, a una qualche struttura socio-politica realizzata, ma all’ideale stesso di comunismo.
Per intenderci: con Togliatti le idee sono state a riguardo sempre molto chiare. I sacri testi, dal partito interpretati, ne costituivano la teoria; l’Unione Sovietica il conseguente modello di costruzione.
Con Berlinguer tutto finisce. Le sole certezze a proposito sono in negativo: di certo sappiamo che l’URSS non è più il modello; e che il comunismo in Italia lo si vuol edificare all’interno del quadro democratico-costituzionale, nemico tradizionale dichiarato del marxismo. Né obiettivo legittimo è la socialdemocrazia: Bad Godesberg resterà sempre, per Berlinguer come per i comunisti italiani, il nome di una sconfitta e di una ritirata. Fine della doppiezza.
E inizio della nebbia. Definire in qual modo possano essere tra loro resi coerenti comunismo e democrazia viene rimandato ad una improbabile terza via, la cui esistenza è data per certa (il comunismo non vive senza certezze), ma che ancora oggi resta indefinita.
Per risolvere tale problema che riguarda certamente anche loro, non sono bastati, pur dopo lo scioglimento del PCI, quattordici anni al Partito della Rifondazione Comunista e sette al Partito dei Comunisti Italiani. E anche per loro la democrazia costituisce certamente un valore irrinunciabile.
E anche per loro si tratta, sarà forse opportuno ricordarlo, di confrontarsi con un’idea di comunismo che è distruzione dello stato; con un concetto di stato che comunque, anche quello sedicente democratico, finché esiste è sempre considerato dittatoriale ed oppressivo; con la dittatura del proletariato; il partito unico; la fine delle libertà democratiche: tutte cose che costituiscono obiettivo delle lotte e che il processo storico verso il comunismo rende indispensabili.
Per Togliatti, come per Gramsci, la democrazia è la via per la presa del potere da parte del proletariato, che lascerà il posto alla successiva costruzione del socialismo e della società comunista. Se invece si vuol essere insieme comunisti e democratici, non è possibile evitare il problema di ricondurre tutto ciò entro un disegno coerente. Evitando con cura la socialdemocrazia…

Il secondo dato di fatto cui si accennava è che, per più o meno trenta anni, tale situazione non ha affatto impedito né impedisce ai comunisti di sentirsi ed essere considerati tali, né tanto meno di far politica. (Per onestà intellettuale è doveroso un riferimento personale: il PCI è stato, fino allo scioglimento, anche il partito di chi vi parla. Oggi lo è quello dei DS).
Ancora una volta, non è certo questa la sede per esporre organicamente tutte le considerazioni che questi due dati di fatto, che mi sembrano storicamente innegabili, pur meriterebbero. Su qualche elemento dobbiamo però, anche se problematicamente, cominciare a riflettere, almeno per chiarirci qualche punto del tema che questa sera siamo chiamati ad affrontare.
Credo infatti si ponga qui con forza il problema dell’identità comunista: che essa riposi sulla costruzione di ben definite e razionali prospettive e forti obiettivi per il futuro, è stata sempre una diffusa e condivisa certezza. Che però non mi pare, a questo punto, abbia un sufficiente riscontro nella realtà. Non certo nel senso che ideologia e programmi non ci siano stati. Non si intende in questa sede fare valutazioni complessive sulla validità o meno delle prospettive politiche dal comunismo offerte in Italia, e sulle pratiche conseguenze che esse hanno comportato: che conseguenze positive ci siano state nel nostro paese, peraltro a lungo ed essenziali, lo si può cogliere anche solo guardando al contributo del PCI togliattiano alla fine di un’inetta monarchia, alla stesura della carta costituzionale, e al democratico avvio della nostra vita repubblicana.
Ciò su cui va rivolta qui l’attenzione è invece solo se l’ideologia e i programmi, dalla ragione elaborati, costituissero poi il principale fondamento dell’identità politica dei comunisti.
Se così fosse sarebbe innanzitutto difficile spiegarsi, per i motivi fin qui esposti, il fascino che fortemente esercita ancora oggi sui comunisti la figura di Pasolini stesso. Ovviamente non solo su di essi la personalità di questo grande e poliedrico intellettuale fa presa, ma è innegabile che nel largo pubblico dei non specialisti, proprio in quella direzione il rapporto è più immediato e profondo.
Eppure ci sarebbero mille motivi perché fosse il contrario. A volerne ancora elencare qualcuno in aggiunta a quanto già detto, si può ricordare ad esempio che le Lettere luterane, oltre alla poco gradita collocazione nel Palazzo delle forze della sinistra ufficiale, contengono due proposte–provocazioni, come la richiesta alle forze progressiste di abolire la scuola dell’obbligo e la televisione. La motivazione della richiesta è la perdita da parte dei giovani del popolo dei propri valori morali, cioè della propria cultura particolaristica…La scuola e il video sono autoritari perché statali.
Provocazione forse, è vero. Ma il loro senso per un intellettuale come Pasolini è chiaro, ed è un vero pugno nello stomaco per ogni comunista che non voglia abbandonare i figli del popolo allaloro cultura particolaristica; e creda nella possibilità di uno stato anche progressista e educatore (fin quando la sua dittatura non sarà resa inutile dalla maturazione del comunismo).
La sfiducia di Pasolini nella storia vista come progresso, nel futuro come possibilità di riscatto umano, non potrebbe essere più netta. Marx e Lutero non sono conciliabili. Pasolini e Lutero invece sì, perché entrambi vedono il male nel divenire, nella storia, ed il bene invece in una Grazia che preesiste all’individuo, e il ricongiungimento alla quale implica nostalgia e ritorno, non impegno. Ricordiamo il luterano pecca fortiter, sed crede fortius (pecca fortemente, ma credi ancora più fortemente). Sembra la metafora della vita di Pasolini…
Lo stesso ultimo grande messaggio cinematografico pasoliniano, Salò o le centoventi giornate di Sodoma, meriterebbe gran parte delle critiche che si è guadagnate se non fosse per il finale, da qualcuno forse trascurato. Due giovani della milizia fascista, che hanno attivamente collaborato a quella montagna di sadismo e di male, parlano con semplicità di se stessi: ce l’hai la ragazza…sì…come si chiama…Margherita…
Così finisce il film. L’eroe pasoliniano insomma, come già visto a proposito di Stella di Accattone, nemmeno concepisce di potere e tanto meno dovere non convivere col suo male, ed è inconsapevole di quel poco di purezza che ancora trattiene in sé. Prostituirsi o meno è irrilevante. Per il milite di Salò la cosa bella è che stasera uscirà con Margherita. Nome semplice e puro. Come Stella.
A questa semplicità e a questa purezza non c’è partito, comunista o meno, che debba aggiungere nulla. Importante semmai, se possibile, sarebbe togliere. Togliere le impurità per far risplendere la gemma. La vita è aspirazione a questo. Luteranamente, aspirazione a Dio.
E politicamente? È fede in un mondo felice, che è alle spalle della storia però. E depurazione del presente, cioè critica radicale dell’esistente in quanto tale, per far emergere, nell’ideologia, la perduta purezza.
Caratteristica dei comunisti invece, abbiamo detto, sembrerebbe fondamentale esser proiettati nell’impegno per il futuro e per un mondo migliore. Ma una tematica analoga a quella di Pasolini, che ne spieghi il fascino, siamo sicuri che non occupi un notevole spazio nella cultura e nella storia dei comunisti italiani?

Pasolini può anche non far testo. Ma come si può spiegare il fascino formidabile che esercita ancora oggi sui comunisti la figura di chi il comunismo ha destrutturato, senza saperlo ricostruire? Mi riferisco a Enrico Berlinguer ovviamente, la cui strana fortuna ha voluto che fosse in vita appoggiato dall’area riformista che oggi lo rilegge criticamente; e combattuto aspramente da un’area più radicale, che oggi lo ricorda invece con entusiasmo e conosce nei suoi confronti un fortissimo processo di identificazione politica.
Per limitarsi ad una sola citazione, tra le infinite possibili, Massimo D’Alema (che fa ovviamente parte del primo gruppo) nel suo recente libro A Mosca l’ultima volta. Enrico Berlinguer e il 1984 (Donzelli Editore. 2004), dopo aver garbatamente demolito l’intera logica della politica berlingueriana e sottolineato l’insufficienza e la debolezza della sua proposta, sottolinea però (come non possono non fare tutti, compreso chi parla) l’enorme spessore morale della sua figura. Scrive a pag. 102: Dov’era allora la ragione profonda del fascino di quest’uomo politico così diverso…? Certamente nel nesso fortissimo – mai esibito ma percepibile – tra dimensione etica, passione civile e politica. L’etica non solo nel senso rilevante ma in fondo banale di un personale disinteresse. L’etica nel senso weberiano della responsabilità.
L’etica proprio nei due sensi da D’Alema indicati, il disinteresse personale cioè e il senso di responsabilità, sono stati infatti e sono certamente caratteristica fondamentale del movimento comunista stesso, come in generale delle tendenze radicali soprattutto di sinistra. Il possibilismo e l’apertura al reale porta troppo spesso al compromesso, in politica e in tutti i sensi. Non è di molti saper conciliare realismo e moralità.
Un forte senso morale richiede, a sua volta, forti convinzioni. Come, però, la capacità di guardare in maniera disincantata e realistica il mondo può portare a compromessi morali, così un forte senso etico e troppo radicate convinzioni possono a loro volta allontanare da una laica e oggettiva comprensione della realtà politica.
Ai comunisti è successo, in una particolare fase della loro storia, proprio questo: il forte senso morale e la fede politica hanno fatto aggio sulle capacità di analisi. Ed essi hanno creduto di poter di fatto rinunciare, da allora fino ad oggi, a tutto ciò che nella loro identità fosse costruzione, prospettiva per un futuro razionalmente delineato, nella piena fiducia di poterlo poi riattingere attraverso la fantomatica terza via da Berlinguer perseguita. Ed hanno compiuto tale operazione ritenendo possibile restare nel frattempo identici a se stessi.Continuando ad alimentare la propria identità attraverso la moralità e la critica radicale del reale.
Berlinguer vede infatti nella crisi economica a metà degli anni ’70 i segni del tracollo incombente del capitalismo stesso. Nella relazione al XIV congresso del 1975 egli afferma: Il quadro generale è caratterizzato dal precipitare della crisi del sistema imperialistico e capitalistico mondiale… Nella relazione al XV congresso del 1979 continua ad affermare: …che cos’altro si esprime, nelle condizioni d’oggi, se non la crisi e il superamento dell’assetto del mondo una volta dominato dal capitalismo e dall’imperialismo?
Poco servirebbe a questo punto, anche alla luce degli sviluppi degli anni ottanta e del mondo globalizzato, soffermarsi sulle capacità di analisi dimostrate dall’autore di queste affermazioni. È necessario invece, ai nostri fini, saper identificare la fede incrollabile in se stessi che ne costituisce il presupposto.

Fede politica, critica radicale del reale in quanto tale: due caratteristiche dell’approccio di Pasolini alla politica, che troviamo dunque fortemente incardinate anche nella personalità di Berlinguer. E in quella di tantissimi comunisti.
Capire Pasolini aiuta, dunque, a capire il comunismo stesso.
Se passiamo inoltre ad esaminare il problema nelle sue dimensioni più spiccatamente coscienziali, chi come me ha alle spalle una lunghissima attività politica, sindacale e parlamentare può avere infiniti ricordi della percezione della crisi del comunismo, da parte di tanti compagni, in termini sorprendentemente pasoliniani.
Preoccupazioni del tipo di questo passo dove andiamo a finire…fino a quando dovremo fare autocritica…quando ci fermeremo…che cosa stiamo diventando…mille volte sono state certamente da tutti i comunisti sentite o espresse. Esse rivelano un atteggiamento mentale che antepone, come si ricordava per Pasolini, la verità alla ricerca. La propria identità è vista come in cima alla corda insaponata della realtà, lungo la quale angosciosamente si scivola, mentre si guarda su, rimpiangendo la verità e le origini perdute.
La priorità della verità rispetto alla ricerca e all’azione (questo in definitiva si può intendere come fede, non solo per Lutero e per il movimento francescano ma anche in politica) esime ciascuno dalla responsabilità personale nei confronti della ricerca. Se dovessi definire un’unica ragione per la quale, in ultima analisi, il comunismo è crollato, direi che è stato per la sua incapacità di far propria una concezione laica della politica. Di considerare cioè inesistente una verità una volta per tutte definita, successiva o precedente che sia alle nostre analisi.
La provvisorietà ed il continuo aggiornamento del sapere sono la condanna ed insieme l’esaltante prospettiva dei nostri tempi. Popper vede la scienza stessa, regno della certezza laica dai tempi di Galileo fino al positivismo ottocentesco, come null’altro che congettura sottoposta a continue confutazioni ad opera delle nuove scoperte. A maggior ragione nella politica, in democrazia, il cittadino deve chiedere in ultima analisi a se stesso la risposta agli interrogativi, considerarsi sede ultima delle valutazioni, e vivere la propria strutturale provvisorietà (e quella del suo partito) non come uno scivolamento in basso, ma come lo spostarsi su di un piano, alla ricerca del meglio. Non dell’ottimo.

La crisi delle ideologie, d’altra parte, non investe certo solo il marxismo. Le enormi contraddizioni dello sviluppo globalizzato rivelano immediatamente, anche a chi non le voleva vedere, le contraddizioni e i limiti del neo-liberismo, il pensiero unico degli anni ottanta. Ciò non significa, beninteso, che esso non funzioni. Ma che va combattuto e corretto attraverso un nuovo welfare, che mostrerà a sua volta i suoi limiti e le sue contraddizioni. Ogni partito, ogni individuo, dovrà effettuare le sue scelte. E quando le spalle saranno abbastanza robuste da consentire l’accettazione del provvisorio, non quale che sia, ma quello scelto, si scopriranno anche i grandi spazi e le possibilità immense di azione che i nostri anni consentono.
Semplificando al massimo, possiamo considerare “postmoderna” l’incredulità nei confronti delle metanarrazioni. Così scrive Jean François Lyotard nel suo La condizione postmoderna (Feltrinelli. 1981) in cui descrive le trasformazioni culturali avvenute proprio in quella parte del secolo nelle società occidentali.
La non ragione, dal XV secolo fino all’illuminismo e a tutto l’ottocento considerata oscurità e negatività dalle forze e dalla cultura progressiste, riemerge con forza nella società e nella cultura a cavallo tra il XIX e il XX secolo, per restare una costante che caratterizza in maniera crescente i decenni successivi fino ad oggi.
Non si tratta tanto però della proclamata ed esaltata irrazionalità legata all’economia dei monopoli, con le conseguenti ideologie militariste e razziste. È piuttosto una più pacata e matura considerazione dell’irrazionale che comincia a prender corpo, ad esempio con la psicanalisi, e che si espande in larga parte del sapere: il riconoscimento cioè degli spazi della non ragione con cui la ragione stessa, non onnipotente, deve misurarsi e trovare un equilibrio. Sul presupposto che l’irrazionale, sempre presente, è tanto più pericoloso quanto meno identificato e riconosciuto.
La politica di altri paesi, senza i problemi del nostro, ha vissuto in un arco di tempo più lungo ed in maniera più lenta le non facili trasformazioni culturali e politiche imposte dagli sviluppi dello scorso secolo, e che hanno dato vita alla società postmoderna di cui ci parla Ronald Inglehart.
Da noi per arretratezze storiche, e per la frattura politica che rifletteva al nostro interno quella della guerra fredda dopo la fine del secondo conflitto mondiale, il perdurare dei caratteri della vecchia cultura moderna assertrice in tutti i campi di ideologie assolutistiche, oggettivistiche, ha ritardato l’assimilazione del nuovo. DC e PCI hanno costituito come due dighe artificiali che hanno continuato ad incanalare le acque della cultura del vecchio fiume. Non erano due concezioni politiche che si scontravano, quanto piuttosto due concezioni del mondo, due costruzioni ideologiche, l’identificazione con le quali era avvertita più di quella con la propria nazione stessa.
Esse sono crollate entrambe col muro di Berlino, dopo aver reso un servizio al paese di cui va pur dato atto. Negli anni di Berlusconi, a guardarsi indietro sembra un miracolo che l’Italia abbia saputo diventare il sesto paese industriale del mondo.
Ma senza le vecchie dighe le acque stanno dilagando, sconvolgendo l’ecologia politica.
Bisogna costruirne di nuove, e più adeguate. Ma va deciso come. E senza troppo rimpiangere le vecchie.
L’irrazionale va riconosciuto e le sicurezze troppo forti vanno abbandonate. Di fronte alle forze, ai ceti, agli individui della non ragione (e dell’ignoranza) l’atteggiamento politico immediatamente vincente è quello del populismo e della demagogia. Separare cioè il potere e la rappresentanza; ciò che si dice e ciò che si fa, ottenendo il consenso attraverso la manipolazione demagogica dei mass-media. È il trionfo di Schumpeter, la competizione democratica vista cioè come scelta del capo attraverso le regole del marketing. La democrazia finisce con l’essere così semplicemente pluralismo e lotta mal regolata di interessi, non rappresentanza.
L’atteggiamento più utile e meditato, oltre che democratico, è lo sguardo laico alla realtà, che riconosce la non ragione, i limiti, gli spazi della delega che non annullano però la rappresentanza; e contrappone insieme, all’anarchia degli interessi irrazionali individuali, il controllo della forza della ragione e degli interessi più ampi.
Un nuovo welfare ha bisogno dello stato, e conosce oggi forti problemi per la crisi dello stato stesso; negli anni della globalizzazione ha bisogno di valide organizzazioni internazionali, e conosce enormi problemi per la quasi inesistenza o la debolezza di queste ultime. C’è troppo da capire e da lavorare, per potersi soffermare a discutere di assolutezze.
Il comunismo e il pensiero politico di Pasolini hanno marciato in parallelo, conoscendo insieme forti ritardi in questa direzione. Ciò ha rafforzato però il profondo legame che, insieme agli scontri, ha caratterizzato i loro rapporti.

intervento dagli "Atti del Convegno" di Frosinone