tracce segni pre-sentimenti 
[ Testo:  precedente  successivo  ]  [ fascicolo ]  [ autore
Alfonso Cardamone
[ a.cardamone@email.it ]
 
TRACCE DI LUNA
 
Un paradosso da sempre presiede ai rapporti che nel tempo si sono intrecciati tra l’uomo e i due corpi celesti fondamentali dell’ universo umano: il sole e la luna.
Il sole, astro glorioso di luce, fonte inesausta di calore e di vita, genera e domina sul giorno, che inonda di raggi.
La luna, pallida, ombrosa, dubbiosa per le fasi che ripete in eterno, domina sul mondo notturno. La si direbbe, per questa sua identità notturna, per questo suo confinamento nella notte e per il periodico dissolvimento che la consuma, simbolo di morte. Così come, per opposizione naturale ed immediata, il sole, in quanto emblema trionfante del giorno, lo si direbbe metafora di vita.
E invece non è così. Miti e leggende dimostrano il contrario.
È il sole che, a conclusione della sua passeggiata diurna nei cieli, scende nel mondo dei morti, l’oscura galleria dell’oltretomba, su cui signoreggia, doppia faccia di Ade, Signore del Ponente, Sole Notturno. Luce che s’avvolge d’ombra. Ombra che s’intride di luce.
Così, in Odissea, XXIV, vv.12 e sg., le anime dei pretendenti uccisi dalla vendetta di Odisseo
Giunsero alle correnti d’Oceano e alla Rupe Bianca;
e alle Porte del Sole e tra il popolo dei Sogni
arrivarono: e presto furono nel prato asfodelo,
dove abitan l’ombre, parvenze dei morti
”. (1)
Nel mito ittita, Kessi il Cacciatore, che aveva trascurato gli dèi e per questo era stato punito con la perdita del loro favore durante la caccia (“fecero in modo che tutte le bestie si andassero a rintanare nei loro nascondigli”), mentre inutilmente vagava sulle colline “nella speranza che la fortuna tornasse ad arridergli”, sogna di trovarsi improvvisamente “dinanzi ad una porta immensa”, che è appunto “la porta del tramonto”, al di là della quale “si stende il regno dei morti”, e dove egli è raggiunto da “un’alta figura, ammantata di luce, che teneva fra le mani una chiave splendente”: è il Sole che, “girando la chiave nella toppa, aprì la porta ed entrò”. (2)
Ma è in un mito dei Tetela, popolazione bantu del bacino superiore del Kasai, che la funzione mortifera del sole viene dichiarata esplicitamente. Il Sole è qui il creatore degli uomini, ma anche il loro despota, che a suo arbitrio, e furtivamente, li prende e se li porta via. Gli uomini si ribellano e diventano minacciosi. Il Sole propone, anzi impone un accomodamento: “Io andrò ogni giorno da oriente a occidente, e sarò sempre visibile. Di notte viaggerò senza che voi mi vediate. E se vorrò qualcuno di voi, manderò una malattia che va adagio”. Il Sole addirittura all’origine delle malattie, che consumano l’uomo e lo portano alla morte (sia pure lentamente!). (3)
Un altro mito della medesima tribù definisce sinteticamente la natura dell’opposizione Sole/Luna, come opposizione del principio maschile a quello femminile. Vale la pena di leggerlo per intero, riferendolo dall’opera del Pettazzoni “Miti e leggende”.
“Da principio il Sole (Unia) e la Luna (Mvedi) camminavano insieme. Un giorno trovarono da dire. Un giorno disse il Sole: “Io voglio essere il capo; io sono come Mvile [l’essere supremo]. Io voglio essere il signore della lotta”. E la Luna disse: “Io voglio stare tranquilla. Non fo male a nessuno. Quando comando io, tutte le cose dormiranno e riposeranno, e se uno ruba qualcosa, nessuno lo vedrà, e non nasceranno liti. Quando arrivi tu, subito c’è guerra e lite e cattiveria fra gli uomini. Voglio comandar io!”. Andarono insieme da Mvile. Mvile disse: “Voi non andrete più insieme. Il Sole comanderà di giorno e la Luna di notte”.” (4)
Bellissima storia e illuminante. Il Sole, mortifero e dispotico è apportatore di guerra e lite e cattiveria. La Luna, tranquilla e innocua, favorisce il sonno e il riposo, in più, materna, distende un manto protettivo e indulgente persino sul ladro.
Né il Sole, né la Luna, nel mito, muoiono mai, o, per meglio dire, definitivamente, se pensiamo alla luna che decresce, scompare e poi ricompare e ricresce continuamente. Ma, mentre il Sole, seppure eterno, è legato al mondo dei morti, la Luna è legata all’idea di risurrezione.
Un mito dei Mongo-Nkundu, bantu del lago Leopoldo, fornisce di questa particolarità della Luna una spiegazione minimalistica ma estremamente densa di significati. (5)
Il Sole e la Luna, per decreto dell’essere supremo Nzkomba, vivranno “sempre, sempre”, mentre l’uomo “morrà e morranno tutti i suoi figli”. Così, per gli uomini, “sempre ci furono delle nuove nascite, e sempre uomini e bambini morirono, mentre il sole e la luna non muoiono mai. Il sole si leva ogni giorno per vedere i figli dell’uomo curvi sul lavoro, mentre la luna, che, essendo donna, si stanca più presto, resta di quando in quando assente per alcuni giorni; ma l’uno e l’altra non muoiono”.
Il mito da cui è tratta la citazione narra una specie di genesi patriarcale e antropocentrica: l’uomo è figlio di Dio, come il sole e la luna, e la donna, così come la terra e tutta la natura, animali compresi, sono creati per essere in suo dominio e soddisfare le sue esigenze. Un vero e proprio eden non solo antropocentrico, ma propriamente “androcentrico”. Ma l’uomo commette il solito peccato originale, di indisciplina e di “curiosità” e perde la condizione edenica. Diviene mortale, a differenza dei propri fratelli, Sole e Luna. Il mito, maschilista, pretende di limitare la condizione di immortalità della luna, giustificando con la debolezza nativa, connessa alla sua natura femminile, il fatto che scompaia periodicamente. Indirettamente invece, e probabilmente contro la stessa volontà del gruppo che lo ha espresso, celebra la superiorità della debolezza femminile, che comunque viene riconnessa alla specifica capacità della luna di morire per risorgere. Non a caso, in un altro mito dei Tetela, dove si fa riferimento ad un passato matriarcale, questo passato si colloca in una dimensione edenica, in cui il mondo e la natura, governati dalla debolezza femminile, erano in pace e l’animale feroce conviveva tranquillamente con quello più debole ed indifeso; dimensione che viene corrotta e rovesciata dagli uomini che si impadroniscono del potere con la brutalità e con l’inganno (6).
La natura del Sole non apre l’angoscia dell’uomo, mortale, alla speranza. Altezzoso e distante, va per la sua strada di immortalità, che lo porta ad attraversare ogni notte il regno degli inferi, ed è per l’uomo certificazione del suo destino di morte. Lenta e debole, la luna si ferma, fa sosta, riprende fiato, sembra annullarsi, ma poi torna a splendere nel cielo, risorge da morte apparente. È lei che stabilisce, con la semplice forza dell’evidenza di un destino paradossale, il diritto alla speranza che la morte possa non essere una condizione definitiva.
Ma c’è di più.
La Luna è anche la Dea Bianca originaria del Mediterraneo matrilineare e dell’Europa settentrionale, madre di tutte le cose, come anche di tutti gli dèi, signora della vita e della morte (7). E la Rupe che immette alle Porte del Sole, allora, è la Rupe Bianca proprio perché il Sole si limita a usurparne e coglierne l’aspetto di morte, incapace com’è di assumerne e rappresentarne l’aspetto più profondo e salvifico del morire per rinascere.
In un altro mito dei Boscimani meridionali è il Sole che trafigge la Luna col suo coltello, quando essa “sta ferma”: “ed essa allora deperisce” (questo, naturalmente accade di giorno, perché di notte la luna cammina…); il Sole le lascia, però, la spina dorsale e la Luna “lentamente se ne va, lentamente torna a casa; poi di nuovo si mette in moto per diventare un’altra luna, la luna piena; essa rivive, rivive mentre pareva che morisse…” (8).

A volte, però, la contesa tra Sole e Luna non si risolve pacificamente, magari a seguito dell’intervento salomonico del Dio supremo (a te il mondo notturno, a te quello diurno), ma degenera in vero e proprio confronto, esibizione muscolare, gara a chi si dimostri più forte dell’altro. Allora, la Luna mette in gioco ben altre carte che la mitezza e la passività. Signora delle acque, ella domina e dispone a suo piacimento del freddo e delle nubi.
In un mito dei Cjamba, sudanesi dell’interno, la Luna, che si ritiene “più grande e più forte” del Sole, lo sfida ad una gara crudele che coinvolge tristamente la rispettiva prole (9).
“Mandami una sera tuo figlio –dice la Luna al Sole-. Voglio vedere se può resistermi”.
E intorno al figlio del Sole raduna il freddo e le nubi, finché lo uccide.
Quando è la volta del Sole a mettere alla prova la resistenza del figlio della Luna, vanamente convoglia su quello tutto il calore di cui è capace. La Luna si avvicina al figlio e gli versa sopra acqua in gran quantità.
“Ogniqualvolta il Sole riscaldava eccessivamente con la sua vampa il figlio della Luna, fin quasi a farlo morire, la Luna accorreva con l’acqua e la versava sopra il figliolo, il quale così si rinfrescava…”.
Acque della luna, dunque, e il legame della luna con l’acqua è cosa universalmente risaputa.
In principio vivevano i Valengo, narra un mito dei Njamvesi, Bantu sud-orientali (10). Vollero fare una torre (“la torre dei Valengo”) per salire “su in cielo a prendere acqua”; e quest’acqua è propriamente sulla luna, come indirettamente chiarisce un altro mito di una popolazione affine, i Kulwe del Lago Rukwa, che, trattando sempre dell’archetipo della torre di Babele, riferisce che gli uomini fanno una grande costruzione per arrivare sulla Luna (11).
Nella tradizione cambogiana, dove il mito lunare è inserito nel “sistema dualista che oppone sole e luna, secco e umido, uccello e serpente”(12), questo potere sulle acque è ben rappresentato. La Luna, identificata alla Nāgi, la donna-serpente figlia dell’umido e del freddo, è propriamente la signora delle acque, alla quale si fanno risalire benefici effetti per la natura e per l’uomo, poiché dalla luna dipende la pioggia fecondatrice per le risaie.
Ben più sorprendente è poter cogliere, in certi miti africani, una connessione della luna con l’elemento che solitamente per qualità le si oppone, in quanto connotativo piuttosto del sole: il fuoco.
Un mito dei Mascjona della Rodhesia meridionale, nel quadro di una rielaborazione eziologia del rapporto luna-immortalità, introduce un terzo elemento relazionale, il fuoco, appunto.
Se in una tradizione dei Pigmei del Gabon (che si ritrova, altresì, presso i Bantu) il fuoco è dono originario del Creatore misericordioso, il quale, mosso a pietà dalle condizioni miserrime degli uomini, che sono preda della fame e del freddo, alle preghiere del capo degli uomini risponde “Ti darò la cosa rossa, la cosa viva! Essa rimarrà con te. Tu non avrai più fame, non avrai più freddo. Tu solo avrai la cosa rossa: gli altri animali ne avranno paura”(13); nel mito mascjona è l’olio contenuto nei due corni della Luna (corni strappati sulla montagna dal re Togoa, nel vano tentativo di agguantare la luna, per poterla portare come ornamento sul petto, al fine di potersi sottrarre alla morte) che, come liquido incantato, produce magicamente il fuoco.
“Quando si versava un po’ d’olio sull’erba secca, questa s’infiammava” (14).
Non meraviglierà, allora, se nella mitologia africana possiamo riconoscere che si arrivi ad assegnare anche alla donna il ruolo dell’eroe civilizzatore che consegna il fuoco originario all’umanità.
“Una volta non c’era fuoco sulla terra; e un uomo salì al cielo per cercarne”. Quell’uomo fallì. Tentarono un secondo e un terzo. Tutti fallirono, perché tutti peccarono di presunzione e di ingordigia. Solo una donna, che si comportò in maniera compassionevole e modesta (non rise, come avevano fatto i suoi predecessori, dei figli deformi di Mulungu, il Dio supremo dei Gogo -Bantu stanziati ad oriente dei Grandi Laghi-, né si lasciò abbagliare dalla parata di vasi magnifici e preziosi, scegliendo quello più modesto), fu premiata, trovò il fuoco nel vaso di Mulungu e lo portò sulla terra.
“Gli uomini furon d’accordo nel lodarla, e dichiararono che le donne hanno più giudizio degli uomini” (15).
Con questo riconoscimento alla superiorità femminile conclude il mito dei Gogo, che sembra trovare un rispecchiamento ed un completamento in un mito dei Boscimani del Kalahari, in cui si dice che, al tempo della gente primitiva, uomini e donne vivevano separati e gli uomini “non erano come le donne, che tenevano sempre un po’ di fuoco e facevan le cose per bene” (16).

NOTE
1) versione di Rosa Calzecchi Onesti, Einaudi, Torino 1982
2) cfr. Alfonso Cardamone, “L’ultimo dei reami”, Tofani, Alatri 1995
3) cfr. “Dio e gli uomini”, in Raffaele Pettazzoni, Utet, Torino 1973, V. I
4) v. “Il Sole e la Luna”, op. cit.
5) v. “L’uomo maledetto da Dio”, op. cit.
6) v. “Matriarcato”, op. cit.
7) cfr. Robert Graves, “La Dea Bianca”, Adelphi, Milano, 1992
8) v. “Il sole e la luna”, op. cit.
9) v. “Il Sole e la Luna”, op. cit.
10) v. “La torre dei Valengo”, op. cit.
11) v. “La torre di Babele”, op. cit.
12) cfr. Yves Bonnefoy “Dizionario delle mitologie e delle religioni”, Milano 1989.
13) v. “Il fuoco”, op. cit.
14) v. “La “Torre di Babele””, op. cit.
15) v. “Una donna ottiene il fuoco dal cielo”, op. cit.
16) v. “Origine del matrimonio”, op. cit.