fant)a(smatico - anno XXVIII - n.120 
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Alfonso Cardamone
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CITTÀ FANTASMATICHE
 
Partiamo da una considerazione non certo originale, ma sicuramente ineludibile e fondamentale, e dando per scontato tutto quanto c'è e c'è stato di elaborazione teorica e di dibattito dietro la definizione feticistica della merce e, con essa, della città.
A partire dall'esposizione di Londra del 1851, la feticizzazione dell'oggetto operata dalla merce diventa evidente soprattutto nelle Esposizioni Universali, che acutamente W. Benjamin (come ricordato Giorgio Agamben in un memorabile saggio del 1972 inteso come "Contributo allo studio delle origini della poesia moderna") definisce "luoghi di pellegrinaggio al feticcio-merce".
Nell'Esposizione Universale si celebra per la prima volta l'epifania dell'inafferrabile, la trasfigurazione della merce in "oggetto d'incantesimo". Ora, se ciò, grazie soprattutto a Baudelaire, saggista d'eccezione dell'Esposizione parigina del 1855, si poté trasformare anche in una revisione della concezione stessa dell'opera d'arte (argomento interessantissimo ed ovviamente anche contestabile, ma che non attiene a questa sede), mette conto qui invece rilevare -con Agamben- come già la costruzione della tour Eiffel, in occasione dell'Esposizione Universale del 1889, abbia contribuito a "trasformare la città intera in una merce consumabile con un semplice colpo d'occhio. La merce più preziosa in mostra nell'Esposizione del 1889 era la città stessa". Cominciava il processo della trasformazione della città in merce!

Ed i poeti?
Potremmo dire parafrasando Neuro Bonifazi (su cui torneremo citando Campana) che quell'ossessione nuova della città europea che, fin dall'inizio della rivoluzione industriale dell' Ottocento, aveva catturato i poeti e gli scrittori di tutto il mondo, e che è possibile rintracciare già nella poesia simbolista europea, da Rimbaud (Ouvriers … La città, con i suoi fumi ed i suoi dei mestieri, ecc.; I ponti: Un bizzarro disegno di ponti ecc.) a Verhaeren (per tanti versi simile a Campana… specie nelle sue "Città tentacolari", e in particolare nella poesia "La folla"), difficilmente è rinvenibile con la stessa intensità e consapevolezza nella poesia italiana contemporanea, almeno fino a Dino Campana, che ne fa, comunque, "una situazione personale e italiana, trasportandola nelle sue città del passato e del mistero e ordinandola e superandola nel suo stile".

I poeti cittadini per eccellenza sono, in Italia, nel secondo Ottocento, gli Scapigliati. Ed infatti in essi si coglie un primo, interessante rapporto con la città. Ma di quale tipo? Cominciamo con Emilio Praga.
Con Il corso all'alba, il poeta si pone di fronte alla città come di fronte alla mappa di una specie di "monopoli" disegnato sui luoghi tipici della nuova realtà urbana caratteristica della seconda metà dell'Ottocento. L'approccio che ne risulta è fortemente denotativo, ma al tempo stesso astratto e, in conclusione, moralistico (anche se non manca una impressionante denuncia ecologista avant la lettre! ).
Troviamo il Corso, coi filari dei "platani" e la teoria dei "tetti" in fuga, dove, al tramonto, "fra splendidi / cocchi e noti destrieri", risuonano i "cembali" e "s'esercita / la boria cittadina", fatta di "dame e cavalieri" … E dove, in un mondo rovesciato, all'alba, quando i "palazzi" signorili si sono fatti muti e deserti i "balconi", da cui, di giorno "sorridono / le matrone galanti", la città diviene altra cosa. Innanzi tutto teatro delle scorribande dei poeti: lo scintillante corso del tramonto si tramuta nello "sporco lastrico", e, "al soffio / dell'aura mattutina", quando ormai "in bando / è l'alta società", si fa "il campo" di prova dei poeti in canto. Ma non solo, l'ora è magica, e la città disvela la sua mappa, i suoi topoi da gioco del monopoli: il "dazio", la "dogana", le chiese con le "campane vigili", che "già suonano a distesa", le "officine stridule" persino nei sobborghi, e, al posto degli splendidi cocchi, lo scalpitìo delle "cavalle / che trottano in città". E' una fervente umanità minore che, come i segnalini del monopoli, si dispone e si muove sulle precostituite caselle, un'umanità fatta di "lattai", di "bifolchi", di "serve" e "servitori", di "villici". La città, nell'alternanza diuturna del tempo, si rivela spaccata in due, specchio di una radicale e manichea opposizione e polarizzazione sociale. All'alba, è una città ancora, in qualche maniera, confusa con la campagna, se i villici lungo il corso si mischiano alle belanti "capre" ed ai mandriani queruli. Ma comunque dal poeta già avvertita e vissuta, nella sua diversità dalla campagna, come un rischio e un male, una minaccia, se l'aria è perniciosa e l' "afa cittadina" opposta alla "molle auretta" dei colli. La città già (o ancora) s'identifica con i rifiuti e la sporcizia: con il "nostro limo / cresciuto in libertà".
La città torna a farsi viva nella composizione "Notte di Carnevale" e questa volta è immensa, "l'immensa città". Ma in realtà, si tratta di un immenso palcoscenico, di una città- palcoscenico, con le sue quinte e i suoi fondali ("E' notte: azzurro il ciel, tonda la luna / che disegna sul lastrico i ritratti / dei comignoli", mentre le "note gronde" sono attraversate dai gatti che "sospirano d'amor come i poeti / dell'Arcadia"); una città-teatro con le sue orchestre (non solo quelle che "nei teatri / fremono melodie", ma anche quelle che rompono la quiete di piazze sonnecchianti con il "rombo di qualche carretto / che si perde nei vicoli lontani", o con il canto che s'innalza improvviso da un uomo che arriva " al muro brancicando").

In "Armonie della sera", la città è la "negra città", ma è proprio all'aggettivo "negra" che il poeta affida il compito di un impercettibile quanto inesorabile slittamento di senso: dalla condizione di oscurità che la pervade, la città, come un palcoscenico s'accende di colpo di mille "fiammelle", e si definisce come una successione di scene rappresentate da luoghi deputati (gli archi delle porte, l'ospedale, le chiese, le caserme, i "vicoli oscuri", l' "ermo manier", i "turpi ridotti"), che si riempiono progressivamente successivamente drammaticamente di comparse (le serve che ridono allegre, la Morte che ascende "furtiva", i baciapile, i giovani imberbi, igiocatori), mentre il timbro sonoro è sostenuto dal rullare dei tamburi.
In definitiva, e confermando la vena profonda che attraversa l'intera poetica del Praga, la città altro non è che "madre di inganni e toschi" (citiamo dall'ode "A Enrico Junk), a cui è necessario sottrarsi, e, al tempo stesso, occasione di "vita frivola", finzione appunto e menzogna da obliare ed a cui opporre l' "alma nudità del vero", che si identifica ancora e sempre con la natura naturans.

Addirittura fantasmatica è la città nelle poesie del Camerana. E' una geografia urbana segnata dall'assenza, dalla rarefazione. Se non si tratta di personalissime "strane città, fantasticate", di misteriose "azzurre oasi" della fantasia, come in "Rovine", le città sono semplici qualificativi peggiorativi: la "pomposa città" di "Natura e pensiero", la "città peccatrice" di "A Emilio Praga", la "città prava" di "Eli! lamma sabacthani!…". O se il riferimento ad una città fisicamente riconoscibile è dichiarato, come per la Verona di "Dante in Verona", la denotazione interviene prontamente ad identificarla attraverso la non-identificazione, la deficienza, la mancanza: l'athalassia è il connotato che definisce Verona, città "che non ha il mare", città athalattica, che è , come a dire, città priva di azzurro, al contrario delle città fantasticate!

Su Carducci e sulla sua visione della Città potremmo quasi sorvolare, troppo ancorato il poeta-artiere alla visione del passato, vuoi classica vuoi medioevale. Eppure qualche notazione interessante può venire fuori da un'analisi comparata dei luoghi della sua poesia in cui la Città proietti la sua ombra. Sarà allora possibile rilevare una opposizione bipolare che non sarà senza retaggi né discendenze nella vicenda della poesia italiana moderna e contemporanea: da una parte una rappresentazione cupa, statica, quadrata; dall'altra una visione brumosa, o aerea, sempre mobile, a volte addirittura equorea e liquida.
Così, se in "Mattutino e notturno", la città è marmorea e tacente ("Quando ammirò da i poggi ermi la luna /A la città marmorea tacente / Dir le malinconie de l'infinito."); poco prima (sempre in "Rime Nuove"), era spettrale nella nebbia ("spettral ne la nebbia alza i giganti / Templi la tua città, Dante Alighieri."). E se ancora è nera di tetti in "Classicismo e Romanticismo", dove un mesto autunno "de la città fra i neri tetti / Un sua raggio disvia"; nel pulviscolo luminoso del "fulgente meriggio" appare invece dissolta nell' ode a Vittore Hugo.
Ancora quadrata è la città di "Dinanzi alle terme di Caracalla", in "Odi barbare", e turrite sono le città di "Miramar"; ma nella medesima raccolta, da "Fuori alla Certosa di Bologna", ecco emergere dal "mare superbo di fremiti e d'onde: / ville, città, castelli … com'isole".
E per Carducci siano sufficienti questi brevi sprazzi.

Passando a Giovanni Pascoli, e limitando la nostra indagine alle raccolte di "Myricae" e "Primi Poemetti", rileviamo che l'impatto con la città è solo un'occasione in più per dare corpo alla vocazione ed all'esercizio delle "parole che velano, e perciò incupiscono il loro significato…", un'occasione in più per mettere alla prova la sfida di inventare - come è stato detto- "una lingua capace di precisione massima nella descrizione delle "cose" su uno sfondo indeterminato della massima imprecisione": di quello sfondo le città pascoliane sono chiamate a fare parte. Così non meraviglierà se esse si risolvono e si sciolgono in un incanto di suoni ovvero in una magia di colori. Sono città-suono (come "la città sonora", appunto, o la "città dai mille campanili" di "Dialogo"), città tremebonde sotto il martello assordante delle campane nel poemetto "Le armi"; oppure città-tavolozza, dove i colori sono il bianco ("la città fumida e bianca" che integra la "città sonora" di "Dialogo", o la città dalle "chiare brecce" di "L'asino"), il nero (la "città nera" di "Povero dono"), il verde ed il ceruleo ("la verde muraglia della mia città" di "La siepe", o le sciamanti città avvolte in un velo di "aria cerula" di "Solitudine", dove, addirittura, in una vertigine di geometrica esaustività, il poeta definisce il paradigma del proprio rapporto con la città attraverso la lucida e sfuggente figura del richiamo chiasmatico: "Sono città che parlano tra loro, città nell'aria cerula lontane", in un verso, "città nell'aria cerula lontane; tumultuanti d'un vocìo sonoro", nel successivo).

All'alba del nuovo secolo, Gozzano, uno dei nostri poeti più cittadini, dimostra un rapporto ironico e sfuggente con la città. Se non è celebrata, ancora e secondo un cliché abusato, per le sue attrattive peccaminose, da città tentacolare e tentatrice ("la città risplende / in Novembre di faci lusinghiere: / e molli chiome ecc." leggiamo in "Domani"; e "Torino" è celebrata ed invocata come "città favorevole ai piaceri!"), la città è distanziata, collocata in una dimensione di lontananza spregiata o dimensionata sulla dis-misura del sogno o della rappresentazione artistica: in "L'analfabeta" leggiamo sia "non amava le città lontane", che "una città fittizia / quali si vedon nelle vecchie stampe", oppure leggiamo di "città vedute nei miei primi sogni". In "L'esperimento", infine, l'immagine della città è risolta in pura effigie e decorazione: "Oh! La collana di città!", "…e al collo una collana di musaici / effigianti le città d'Italia", quasi un'elegante teoria di immagini da catologo o sa depliaqnt di agenzia turistica: "Viaggio / lungo la filza grave di musaici"!

Per rimanere nell'ambito del Crepuscolarismo, mi piace ricordare che con "L'ultimo sogno" di Corazzini questa tendenza all'estraneazione della città nella sfera del sogno sembra raggiungere uno dei massimi vertici: tutto è deserto, tutto è silenzio, non ci sono risposte, non ci sono domande, solo il canto "senza ritornelli" delle fontane.

Abbiamo accennato, all'inizio della nostra conversazione, alla poesia di Dino Campana ed al suo particolare rapporto con la tematica della città. Non c'è dubbio che molti modi campaniani presentino significative analogie con tutta una serie di espressioni 'manieristiche' presenti "nella letteratura e nelle arti dell'Ottocento e del primo Novecento in Italia e in Europa: dalla tematica del paesaggio urbano inaugurata da Baudelaire e Rimbaud allo spazio contratto di certa pittura cubista" (Galimberti)
Per la prima tematica, abbiamo già accennato come quell' "ossessione nuova della città europea - che dall'inizio della rivoluzione industriale dell'Ottocento aveva preso i poeti e gli scrittori di tutto il mondo", e che si trova nella poesia simbolista europea, da Rimbaud a Verhaeren, si ritrovi viva in Campana, che ne fa però "una situazione personale e italiana, trasportandola nelle sue città del passato e del mistero e ordinandola e superandola nel suo stile" (Bonifazi).
Innanzi tutto, l'attacco del poemetto in prosa "NOTTE": "Ricordo una vecchia città, rossa di mura e turrita, arsa su la pianura sterminata nell'Agosto torrido, con il lontano refrigerio di colline verdi e molli sullo sfondo". E' chiaro che la vicenda poetica si svolge in un tempo e in uno spazio irreali, volutamente indeterminati, in una dimensione di spazio-tempo dichiaratamente memoriale, che favorisce l'emersione di un vero e proprio "paesaggio di sogno" (né rompe con la tradizione pascoliana: le qualificazioni della città sono principalmente cromatiche…).
Per la seconda tematica, voglio ricordare come il suggello della modernità di Campana non sia solo in quella sua rielaborazione degli elementi costitutivi del linguaggio che sembra preludere alla formazione degli stilemi ermetici, o in quello "sforzo di investire il linguaggio di una vera funzione spirituale" (M. Luzi), di cui egli è partecipe con Rebora, Ungaretti e Montale, ma anche nello sforzo di adeguare le sue ricerche espressive a quelle analoghe che la pittura contemporanea -cubista e futurista- andava sperimentando in ordine alla scomposizione delle immagini e degli elementi spaziali, e basti pensare appunto a quanto ha fatto su Genova, dove i piani si accavallano e le immagini della città vengono frazionate come per un effetto caleidoscopico:

"dentro il vico marino in alto sale
dentro il vico che rosse in alto sale
marino l'ali rosse dei fanali
che nel vico marino in alto sale"

Ora, sarà anche vero, come vuole il Parronchi, che questi frazionamenti e accavallamenti di piani siano spie di un'attenzione di Campana alle ricerche espressive dei futuristi, ma quello che a noi colpisce (e stupisce) è proprio il frazionamento dell'immagine relativa alla città in quanto tale.

Venendo ai nostri giorni, infatti, e per citare il mio amico Beppe Panella, il passaggio si è consumato ormai dalla Metropoli come mutazione organica della città borghese al 'luogo senza luoghi' della Metropoli esplosa sul e nel territorio, della città contemporanea senza centro e senza periferia. La "città come spettacolo", già intuita, incredibilmente, dai poeti del secondo Ottocento, si è trasformata da epicentro della soggettività dello spettatore, alla dislocazione oggettiva e fuggente (nomadica, a-centrata) della coscienza spettatrice che non esiste se non all'interno dell'evento cui partecipa, travolto e sur-determinato dal suo carattere di feticcio. Lo stesso tempo esistenziale ne viene infettato. Ed al poeta non resta altro che aprire smagliature e fratture, negli oggetti che si sfaldano, e disarmato cogliere vendemmie sterili di eventi.
Per citare, in conclusione e immodestamente me stesso:

ballata (della città)
(come a dire: il tempo della città)

ed è dunque del tempo che si tratta
dell'indicibile arrogante tempo coltello
che scava sottotraccia e verga indifferente
d'Aronne
che scioglie le montagne e scambia
le sorgenti e gli occhi che ci diedero
sgomento (illusoriamente uguali nel ricordo) di
impercettibili brividi attraversa incessantemente
differenti
ma il tempo non sappiamo
se sia solo un fatto
personale noi provammo
a smontare le città e a risalire alle
matrici delle macchine e tra mani
ritrovammo parvenze ingiustificabili parvenze su
cui la luce gioca i girotondi e la decisione viene solamente
a mutare i piani precarie forme suggerendo
d'illusoria consistenza
eppure inserirsi è sufficiente nelle maglie
del tempo che scorre ciclopico
prigione
deridente e alle fratture
che sfaldano gli oggetti puntare l'occhio disarmato a cogliere
vendemmie sterili
d'eventi