fant)a(smatico - anno XXVIII - n.120 
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Zelinda Carloni
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DAL NUOVISSIMO CARLONI
 
MIRACOLI (F)

Il miracolo è la dimostrazione che Dio non esiste, è la certificazione dell'assenza di progetto all'interno del sistema. Se il miracolo è lo scatenamento dell'illogicità all'interno delle cose, ciò significa che esso sta solo a documentare l'assenza di "prevedibilità", e quindi di progetto razionale. Ma il "progetto divino" non può che essere logico, altrimenti verrebbero a mancare le connotazioni fondamentali legate al concetto di creazione (vedi "Concetto di Dio "). Il concetto di casualità non è compatibile con la formulazione di un criterio di "volontarietà" nella disposizione delle cose e del mondo. Il miracolo è invece l'esatta affermazione del contrario della prevedibilità, e quindi della logicità, negli accadimenti; è la dimostrazione dell'esistere delle cose al di là della conoscenza possibile, e quindi della conoscenza stessa. Il miracolo è il sublime dispetto alle pretese della ragione, fosse anche della "ragione divina".
Viceversa, se invece il "progetto imperscrutabile" di Dio dovesse comprendere il miracolo, vorrebbe dire che il progetto è illogico e irrazionale, e sarebbe dato all'uomo solo l'accidente, il capriccio. Se così fosse, Dio potrebbe anche esistere, ma sarebbe perfettamente inutile.
Invece, che cosa è il miracolo per gli uomini? La cosa più straordinaria è che gli uomini, che sembrano amare tutto ciò che è solido e immutabile e prevedibile, si esaltano straordinariamente di fronte al miracolo, in ciò rivelando una natura profonda che ama il caso e il capriccio, l'incredibile e lo straordinario, l'irrazionale e l'illogico. Forse dietro questo "amore" si nasconde il sentire profondo e inconfessato della irrazionalità profonda del tutto. Appare notevole come gli uomini si esaltino di fronte alla circostanza bizzarra che il miracolo rappresenta, quasi come se questo li assolvesse dal basto soffocante del sopportare la logica e la ragione, e li inducesse a poter sperare che il mondo è anche altra cosa da quella che il "progetto" vorrebbe far credere.
Non c'è frase che mi sembri più illuminante a questo riguardo di quella espressa dal Grande di Stradford "Ci sono più cose tra cielo e terra, Orazio, che non ne sogni la tua filosofia"; e la presenza del "miracolo" sembra che assolva gli uomini dalla schiavitù del cielo e della terra immoti e finiti, lasciando che essi respirino per un attimo l'ebbrezza della propria dismisurata dimensione.
La prudenza della chiesa cattolica nell'accettare i miracoli, oltre che ad un connaturato fariseismo di pratica politica, risiede nel sospetto. In realtà essa sa perfettamente che non può permettere che ci si abbandoni ai miracoli, perché il Dio che professano è Dio di ragione e non di insensatezza. Certo non è Dioniso. E dunque il miracolo viene distillato e ridotto a più miti consigli prima di lasciarlo consumare.
Mi preme precisare, proprio in chiusura, che i miracoli esistono, e non potrebbero non esistere, perché il mondo non è la scacchiera di Dio, ma il luogo dei sogni dell'uomo.


OSTRICHE (C)

Le ostriche sono uno dei veicoli favoriti dagli dei per mettere me in condizioni di parità con le loro divinità. Capisco benissimo che c'è gente a cui non piacciono, ma trovo la cosa oltremodo trascurabile: ognuno sceglie la propria strada verso l'assoluto e i mezzi per percorrerla: per me vanno benissimo le ostriche.
L'incontro con un guscio ricolmo di materia perlacea ma transeunte (non come la gelida e immobile perla) procura nella mia natura la sensazione estrema dell'attimo sacrale di percezione dell'alito del mondo. Intanto bisogna dire che un'ostrica ha poche ore di vera vita, e che l'incontro con l'attimo esatto della sua vigoria è cosa rara e preziosa: supponendo di avere la straordinaria fortuna di cogliere quell'attimo è necessario che il rito sia consumato fin dall'inizio, è cioè necessario che l'ostrica sia aperta da chi la consumerà. Quest'atto comprende una capacità di percezione delle cose della natura intensa e profonda, perché il guscio resiste tenacemente a chi lo violenta, ma cede volentieri a chi lo conosce e conosce la sua natura interna ed esterna, sicché la misteriosa serie di lamelle che, come un labirinto, cerca di sviare l'intruso violentatore, si rivela invece leggibile e penetrabile per chi ne conosca i segreti.
E quando le due coppe si schiudono, ma sono ancora in parte saldate tra loro in un ultimo, ammonitore tentativo di celare ciò che contengono, è necessario essere lievi e tagliare con nettezza e precisione il legame che le unisce. E ancora senza vedere il contenuto (non bisogna avere fretta per questo) bisogna che si proceda a raccogliere l'intero contenuto dentro una delle due coppe (so che si chiamano valve, ma per me sono coppe d'ambrosia e miele): e finalmente si può schiudere l'ostrica e ammirarne il contenuto. Il colore sia bianco perlaceo, la materia turgida e umida, il profumo come un percorrere l'aria di tutti gli oceani. Gustare poi l'ostrica è l'ultimo atto, infinito e ineffabile, di questo rito: e che non si mangino mai "le" ostriche, ma sempre "una sola" sia l'ostrica, una sola per volta: l'ecatombe non si adatta a questa delizia della natura.

NOTA
Queste due "voci", come quelle pubblicate nel precedente fascicolo di DISMISURA, hanno poi trovato degna sistemazione nel volume edito da Papageno, Palermo 2000, "Vocabolario - all'uscita di Altamira", di Zelinda Carl